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La giostra

di Lorenzo Merlo - 01/10/2025

La giostra

Fonte: Lorenzo Merlo

Perché ripetiamo la storia? Perché nonostante si spendano a piene mani moniti che essa ci sia maestra, regolarmente si ripete? Perché si crede che il ricordo possa evitare il suo ritorno identico, soltanto formalmente aggiornato secondo il costume del momento? Perché non basta osservarne il carosello per eludere il suo ricorrere?
L’idea che la storia insegni ha un sapore razionalista e meccanicista e, dietro le quinte, una concezione dell’indipendenza dell’intelletto dal Tutto e dell’individuo dai propri sentimenti e dalle proprie emozioni.
Ne consegue una miopia, quando non una cecità, che permette o impone una realtà non solo a propria misura morale, cognitiva, educativa, politica, eccetera, ma anche temporale, che altro non significa se non soggetta al sentimento e alle emozioni presenti in noi nel momento del giudizio. 
Prendendo a fondamento l’inconsapevole idea autopoietica che l’intelletto sia l’esclusivo campo della conoscenza, ci si trova facilmente a tessere quest’ultima come una sorta di nastro sempre più lungo detto progresso. 
Il punto è qui, in quanto l’uomo, concependo se stesso come entità indipendente e, di conseguenza, dando forma, vita e potere a una cultura a sua immagine e somiglianza, tralascia, quando non abbandona o perfino rinnega, i sentimenti e le emozioni, forze sottili, non misurabili dal suo arrogante metro di Sèvres, che ne costituiscono la natura, le scelte istante per istante, vitanaturaldurante. 
Non considerarli, non riconoscerne il potere, che agisce silente anche nelle presunte scelte più razionali, sta alla base dell’arido abbraccio del feticcio razionalista, svista la cui dimensione madornale abortisce le consapevolezze necessarie a riconoscere la permanente parzialità di ogni espressione umana, e quindi dell’origine di ogni conflitto. Nasconde a noi stessi che la realtà è nella relazione e ci convince a crederla fuori da noi.
Non solo. Il marchiano dogma della verità quale destino insito nell’avanzamento della conoscenza a mezzo della ragione e dell’intelletto, a sua stessa insaputa, arriva a far cadere gli uomini nella più crassa delle trappole, ovvero la creduta universalità delle loro idee. Una fede che, come tutte, conduce all’impiego della forza e alla legittimazione della sopraffazione.
È un processo che accade tanto nella minima unità di tempo e di contesto, quanto su scala via via più grande. Vale per le questioni cosiddette risibili, quanto per quelle relative ai cosiddetti massimi sistemi.
Mazzola o Rivera? Genocidio nazista o sionista?
Al bar, nei salotti, in tv, e nelle stanze ovali, può cambiare l’oggetto del contendere, ma mai viene meno la dinamica innescata dall’inconsapevolezza della parzialità che ci costituisce.
Così la storia, svuotata da sentimenti ed emozioni e imbalsamata di ratione, è in bella mostra, esposta nella bacheca dei trofei della sconsolante cultura in cui galleggiamo come relitti senza rotta, in balia della nostra arroganza.
Se così non fosse, sarebbe lapalissiano che la storia insegna esclusivamente negli stretti ambiti tecnici, costretti entro inconsapevoli confini autoreferenziali, detti regole, leggi, norme, consuetudini, abitudini. In tutti gli altri, possibilmente detti umanistici, essa, vincolata ai pochi sentimenti e alle poche emozioni che attraversano identici tutti gli uomini di tutti i tempi, non può che ripetersi costantemente.
Su queste basi, la sola scappatoia sta nel prendere coscienza del loro potere e, quindi, nella individuale edificazione di una scuola adatta a esorcizzare l’incantesimo di un uomo esaurito nella ragione.
Un percorso che non ha bisogno di master né di guru. A esso bastiamo noi stessi. Chiunque, infatti, può – vagolando nella propria biografia – riconoscere quando, quanto e come il proprio fideismo in un’idea l’abbia portato ad attriti e conflitti; quando, quanto e come certe posizioni, scacciate da altri interessi, siano venute meno; quando, quanto e come le cose si muovono, portandoci su posizioni che mai avremmo ipotizzato di occupare.
Distinguere gli ambiti tecnici da quelli relazionali-umanistici permette, dunque, di prendere le distanze dal giogo razionalista-meccanicista-materialista e, così facendo, di trovare nella propria biografia gli esempi più utili per avvedersi dell’azione o della realtà imposta da sentimenti ed emozioni. Sola premessa per un progresso che non si riduca al frigorifero in casa, alla playstation in salotto, all’anestesia in ospedale, ma porti al benessere esistenziale, di qualunque misura lo si voglia intendere.
Allora, dall’affermazione incondizionata di sé, diviene possibile passare all’ascolto; dalla reazione in difesa di qualcosa di sé, all’azione consapevole; dall’identificazione con il proprio io o giudizio impostore, e dal riconoscimento che a esso elargiamo tutte le energie, a quella con il proprio sé, quindi dalla cultura alla natura; dalla creduta superiorità della nostra ragione, alle oscure emozioni che la sostengono; da un’idea di mondo oggettivo, a quella che in noi rutilano galassie diverse; quindi dalla prevaricazione sul prossimo all’evidenza che solo la pari dignità realizzata ha il potere di eludere conflitti e sofferenze; dal privilegio alla reciprocità; dall’intolleranza all’assunzione di responsabilità nei confronti delle sue conseguenze; dal crederci proprietari della nostra vita a vedere che siamo gocce di un’unica fonte; dal sapere tecnico e specialstico, costituito da dati, alla conoscenza olistica-quantistica (ovvero di vagolanti e perturbabili insiemi energetici permeabili e creatori) attraverso la contemplazione, la meditazione e l’ascolto; dall’intelligenza intellettuale a quella estetica; dalla salute sintomatica-farmacopeica quella allopatica-energetica; dal pensiero di una universalità raggiungibile per via razionale a quello dell’impermanenza e caducità certa di ogni affermazione; dal vittimismo alla potenza creatrice che è in noi; dalla pretesa di libertà alla liberazione; dal positivismo all’accettazione.
La storia, summa dell’“eterno ritorno” dei pochi sentimenti e delle poche emozioni, non solo non insegna niente, ma ci impone di girare sulla sua giostra a raggio variabile ma sempre sufficientemente lungo da farci credere d’essere in marcia su una retta dove il passato non ritorna e il futuro è davanti a noi.
Signore, biglietto, prego.