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La guerra inumana: quel "progresso" dai fucili alla Bomba

di Massimo Fini - 28/10/2022

La guerra inumana: quel "progresso" dai fucili alla Bomba

Fonte: Massimo Fini

Il progresso. Il mito del progresso, vediamo dove ci ha portato questo intangibile mito e vediamolo in un ambito molto attuale: la guerra.
Farò quindi qui, necessariamente a volo d’uccello, una storia della guerra, storia lunga che inizia praticamente con la comparsa dell’Homo Sapiens (per chi volesse saperne di più c’è il mio Elogio della guerra). Per i primitivi la guerra è un fatto comunitario, che coinvolge tutto il gruppo e la si fa solo per necessità quando per ragioni varie (scarsità di cibo, aumento della propria popolazione o di quella del vicino, alterazioni dell’habitat, variazioni climatiche) il territorio non è più sufficiente e allora l’alternativa diventa: aggredire o morire. Nasce così il nomadismo, presente ancora oggi nel Sahel (i Tuareg sono un popolo nomade) e in vaste zone dell’Africa subsahariana. In questo periodo le armi sono molto semplici: giavellotto per l’offesa, scudo per la difesa.
Un primo cambiamento radicale si ha con l’Impero romano dove c’è una divaricazione fra popolo e specialisti della guerra, pagati per farla, e alla fine della carriera, se ci arrivano, i veterani vengono ricompensati con terre dal bassissimo rendimento. Le armi sono ancora piuttosto rudimentali, anche se qualche variazione c’è, l’utilizzo dei cavalli e conseguentemente della staffa. E le cose si fanno più chiare, la società viene divisa in oratores, laboratores e bellatores. Nascono i professionisti della guerra, i bellatores appunto nobili che hanno il dovere di difendere il territorio, in compenso non pagano le tasse reali. A Varennes en Argonne un contadino chiede a uno scudiero perché mai i nobili godano di questi privilegi e lo scudiero risponde: “perché in caso di guerra sono loro che devono esporre il loro corpo e la cavalcatura”.
Il periodo della cavalleria medievale segna l’apogeo della virtù guerriera ma, paradossalmente, è il periodo in cui ci sono meno morti, anche perché, a parte eccezioni (la notte di San Bartolomeo) non sono guerre ideologiche. Durante la rivoluzione francese Saint-Just, il giovane delfino di Robespierre, dirà: “Le guerre della libertà devono essere fatte con collera” e Carnot rincara la dose :“ la guerra è violenta di per sé. Bisogna condurla a oltranza o restarsene a casa. Il nostro scopo è lo sterminio, lo sterminio fino alle estreme conseguenze”. Le guerre cavalleresche causavano poche migliaia di morti (nella battaglia di Anghiari, di cui ci è rimasto uno stupendo abbozzo di Leonardo Da Vinci, ci fu, secondo alcuni storici un solo morto, secondo altri otto).
Nei primi anni del Quattrocento ci fu una innovazione decisiva che proietterà le sue ombre, sempre più fosche, fino ad arrivare ai tempi nostri: il fucile. I cavalieri si opposero a quest’arma, sembrando loro sleale che il combattimento potesse avvenire a distanza, ma naturalmente persero la partita (Il mestiere delle armi, Ermanno Olmi).
Un ulteriore passo in avanti, si fa per dire, ci fu con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche.  Napoleone, grazie alla coscrizione obbligatoria, portò sul campo di battaglia quattro milioni di uomini, inoltre non rispettava la ‘guerre en dentelles’ impostata dagli austriaci, per cui prima bisognava conquistare una piazza forte poi un’altra poi un’altra ancora per arrivare infine al punto cruciale. Il teppista corso non amava le buone maniere e puntava dritto allo scopo. Va ricordato che la democrazia fu portata negli altri paesi europei sulla punta delle baionette di Napoleone Bonaparte.
E arriviamo alla prima guerra mondiale, la penosa guerra di trincea, stramaledetta dai fanti contadini (I Malavoglia, Verga). Però non esisteva ancora l’aviazione, c’erano sì gli aerei usati per la ricognizione che si battevano a volte fra di loro creando alcune leggende di piloti invincibili, o quasi, quelli che avevano abbattuto più aerei nemici, come ‘Il Barone Rosso’ Manfred Albrecht von Richthofen o il nostro Francesco Baracca.
Un ulteriore salto ci fu nella seconda guerra mondiale. Gli aerei si trasformano in bombardieri. L’ordigno viene lanciato dall’alto, siamo ben lontani dalla lotta corpo a corpo delle guerre primitive o medievali, c’è, è vero, la contraerea perché ogni arma d’offesa crea un’arma di difesa, ma poteva ben poco come sa chi ha vissuto a Milano fra il 1942 e il 1945.
Nelle guerre dei giorni nostri l’uomo conta pochissimo (tranne nella guerra talebana in Afghanistan) dominano le tecnologie, arrivando fino ai droni senza pilota, manovrati, nel caso degli Stati Uniti, da Nellis nel Nevada. E il combattente che non combatte perde ogni legittimità, perché la speciale liceità di uccidere, esclusa nei tempi di pace, c’è se esiste la altrettale possibilità di essere uccisi, se uno solo può colpire e l’altro solo subire si esce dall’ambito della guerra e si entra in quello dell’assassinio.
La tecnologia ha completamente sopraffatto l’uomo , come sui campi di calcio, dove l’arbitro, una volta padrone assoluto del campo (Boscov “Rigore c’è quando l’arbitro fischia”) è diventato un impiegato agli ordini del VAR o della VAR o come cavolo la si vuol chiamare.
Così di tappa in tappa, di tecnologia in tecnologia, siamo arrivati all’Atomica che può distruggere il mondo intero in pochi giorni. E lo chiamano progresso…