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La promessa di Teheran

di Enrico Tomaselli - 14/04/2024

La promessa di Teheran

Fonte: Giubbe rosse

Atteniamoci ai fatti. La ritorsione iraniana per l’attacco israeliano all’ambasciata di Damasco è stato calibrato ed equilibrato. L’Iran non voleva la guerra con Israele (non la guerra aperta, e non ora), diversamente dal governo di Tel Aviv, che nel prosieguo della guerra – nella sua possibile espansione – vede l’unica chance di sfuggire al redde rationem interno, e magari persino un’opportunità di espandersi ancora. Pertanto Teheran si è mossa con calma, appellandosi al diritto internazionale (art.51 delle Nazioni Unite), ed avendo cura di colpire esclusivamente obiettivi militari: due aeroporti strategici ed un comando nel Golan occupato. Inutile rimarcare la differenza con Israele. Lo scopo è evidentemente quello di tracciare – come si usa dire – una linea rossa: non saranno più tollerati gli attacchi israeliani, e ad ogni azione corrisponderà una reazione. L’attacco di rappresaglia, quindi, doveva essere tale da marcare con forza questa red line, doveva essere inequivocabile, e non doveva offrire il pretesto per innescare un allargamento del conflitto. Gli obiettivi, pertanto, erano eminentemente strategici, non tattici; non misurabili, quindi, in termini quantitativi (quanti e quali danni), se non secondariamente.

Per fare ciò, l’IRGC ha messo in atto un attacco i cui elementi fondamentali sono stati:
– Teheran ha chiaramente avvertito i paesi vicini sul giorno in cui avrebbe avviato l’attacco, ben sapendo che questo avviso sarebbe giunto a Washington, e quindi a Tel Aviv. Non solo, ha scelto una modalità operativa (il massiccio lancio iniziale di droni, che richiedevano un volo di qualche ora prima di giungere a bersaglio) che, a sua volta, ha dato un ulteriore margine di tempo per attivare le difese.
– l’attacco è stato lanciato a partire dal territorio iraniano, e solo marginalmente vi hanno contribuito le milizie dell’Asse della Resistenza dal Libano, dallo Yemen e dall’Iraq, mettendo quindi in luce che Teheran non aveva alcun timore di assumersi in prima persona l’onere della risposta.
– mettendo in atto un attacco che ha impiegato massicciamente centinaia di vettori, ha costretto gli alleati di Israele a correre in suo soccorso; non solo le batterie antimissile americane in Siria, in Iraq ed in Giordania, ma i caccia intercettori USA, britannici e francesi, che si sono alzati in volo per affiancare l’aviazione israeliana. La Giordania, che ha aperto il suo spazio aereo ai velivoli statunitensi ed israeliani, è stata costretta a venire allo scoperto, nel suo schieramento pro-Israele.
– ha infranto il mito deterrente israeliano su molti piani (già peraltro fortemente intaccato dall’operazione Al Aqsa Flood della Resistenza palestinese). Sia perché ha mostrato di non averne timore, sia perché ha messo in evidenza come – a fronte di un attacco abbastanza limitato – Israele abbia avuto necessità dell’aiuto di altri paesi, sia perché ha messo in difficoltà la capacità militare di Tel Aviv nel reagirvi.

A questo, vanno aggiunte alcune considerazioni specificatamente militari.
Anche se l’attacco ha impiegato una grande quantità di mezzi, apparentemente sproporzionata ai risultati ottenuti, la cosa va vista sotto altri punti di vista.
Innanzitutto, gli obiettivi prefissati sono stati colpiti. Ancora non sappiamo con quanta efficacia, per questo sarà necessario verificare attraverso la comparazione delle immagini satellitari precedenti e successive all’attacco; ma in ogni caso sono stati colpiti. La base aerea di Nevatim da almeno 7 missili, quella di Ramon da almeno 5. I due più importanti aeroporti strategici, quindi, sono raggiungibili per le forze missilistiche iraniane. L’impiego massiccio di droni e missili (da crociera e balistici, non sembra siano stati usati quelli ipersonici), infatti, non aveva soltanto un valore per l’effetto psicologico (allarmi in tutto il paese, popolazione nel panico), ma anche almeno due estremamente pratici. Con un costo impiegato di circa 340 milioni di dollari (valore dei vettori lanciati), Israele è stata costretta ad impiegare munizionamento dei suoi sistemi d’arma anti-missile per quasi un miliardo e mezzo di dollari, in una sola notte; e l’aspetto economico non è nemmeno il principale, poiché ciò ha comportato un significativo consumo del munizionamento disponibile, che non è reintegrabile velocemente. Nella prospettiva di un eventuale espansione del conflitto, basterebbero pochi altri attacchi di saturazione delle difese, come quello di ieri notte, per mettere in seria difficoltà il sistema di difesa. L’attacco di massa (circa 500 vettori d’attacco) ha inoltre costretto Israele (ed i suoi partner regionali) ad attivare l’intera rete di difesa anti-missile, rivelandone agli iraniani il dislocamento, i tempi di reazione, il coordinamento, nonché l’efficacia. Tutte informazioni strategiche, che da sole valgono l’impiego dei mezzi utilizzati.
E che, oltretutto, non sono neanche il top di gamma dell’arsenale iraniano.

Per quanto Israele disponga di armamenti assai moderni, e di forze armate abbastanza efficaci, un eventuale confronto con l’Iran ne metterebbe in evidenza alcune disparità cruciali, quali la dimensione geografica (22.000 km2 vs 1.650.000 km2) e demografica (7.5 milioni vs 90 milioni), e quindi per Teheran acquisire questo genere di conoscenza, relativamente ad un territorio abbastanza ristretto, in cui le possibilità di mutare i dispiegamenti sono abbastanza limitate, è di grande importanza.
La ritorsione iraniana, peraltro, ha messo in luce anche altri punti di forze e di debolezza del nemico.
Se da un lato, infatti, si è avuta la conferma che per gli USA si tratta di un alleato strategico, per il quale sono disposti ad impegnarsi a difesa in prima persona, da un altro si è reso chiaro che – contrariamente ad una certa corrente di pensiero – non è affatto vero che siano gli Stati Uniti a voler dar fuoco alle polveri mediorientali, ma che al contrario non sono affatto disposti ad affrontare uno scontro con l’Iran per far piacere a Netanyahu. Non a caso Biden, che su tutta la vicenda della guerra a Gaza è stato assai indulgente con gli oltranzismi israeliani, in questo caso ha posto chiaramente un stop, avvertendo Tel Aviv che se va allo scontro con Teheran se la dovrà vedere da sola. Cosa che, ovviamente, Israele non è in grado di fare.
Non è affatto per caso che la prima reazione israeliana è stata bombardare il Libano e la Siria, colpendo cioè quelli che considera i proxy iraniani; un po’ come dire a nuora perché suocera intenda… In ogni modo, l’operazione True Promise (anche qui, si noti il messaggio, che suona come un “ve l’avevamo detto…”) rigetta la palla in campo israeliano, mettendo fortemente in difficoltà il suo governo estremista. Che a questo punto deve trovare per un verso un modo di rispondere a sua volta, ma ben sapendo che l’Iran replicherà, e che ad ogni nuovo giro di giostra la sua situazione si farà sempre più complicata. E per un altro si trova di fronte all’impasse di Gaza, col rischio di lanciarsi in un attacco a Rafah che potrebbe rivelarsi un boomerang sotto numerosissimi aspetti, ma consapevole che nel momento in cui si ferma la guerra il governo collassa.

In termini molto più generali, diciamo così meta-strategici, l’Autentica Promessa iraniana ci dice molte altre cose.
Innanzitutto, che la capacità di deterrenza occidentale è ormai definitivamente consunta. Il che significa che, d’ora in avanti, deve essere consapevole che le alternative – ogni qualvolta si trova dinanzi ad una situazione di crisi – saranno o la mediazione diplomatica o la guerra; non c’è più spazio per la minaccia efficace, per una moderna politica delle cannoniere.
Ci dice che gli avversari dell’occidente (dell’egemonia anglo-americana ed europea) ragionano su tempi lunghi, puntano a logorare le forze occidentali, mentre l’egemone ha tendenzialmente necessità di accelerare i tempi, per evitare che gli avversari si rafforzino troppo, sino a raggiungere un punto in cui non siano più rimensionabili.
E questo, a sua volta, ci riporta ad una questione ancor più generale. Lo scontro in atto non è una lotta per la supremazia tra potenze, né tantomeno la baggianata propagandistica delle democrazie contro le tirannie, ma uno scontro tra culture diverse, che non solo si organizzano e producono sistemi diversi, ma ragionano in termini diversi. Uno scontro in cui l’occidente si ritiene non soltanto superiore tecnologicamente e/o economicamente, ma proprio culturalmente; si ritiene portatore di una civiltà superiore, da cui deriva una sorta di diritto egemonico sul mondo.
In questo, il conflitto israelo-iraniano diventa emblematico, opponendo un piccolo paese coloniale, il cui cemento ideologico è fornito da un nazionalismo messianico-religioso (il popolo eletto da Dio) ad una civiltà millenaria, le cui radici affondano all’alba della civilizzazione umana.