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La sterilità della scienza

di Emanuele Franz - 21/08/2017

La sterilità della scienza

Fonte: Ereticamente

"Ciò che esige di essere dimostrato ha poco valore”

Friedrich Nietzsche

Einstein, armato solo di foglio e matita, nel 1905 elabora una teoria mettendo in discussione quello che per millenni si è ritenuto essere la natura dello spazio e del tempo, senza assolutamente avere una conferma sperimentale. Solo nel 1919 si è presentata una eclissi che avrebbe potuto confermare o smentire la teoria di Einstein. La palpitazione fu dunque grande e un giornalista chiese ad Einstein: “Prof. Einstein cosa dirà se l’esperimento dovesse smentire la sua teoria?”. Einstein rispose: “Tanto peggio per l’esperimento, perché la teoria ha ragione”.

« Max Planck non capiva nulla di fisica perché durante l’eclissi del 1919, è rimasto in piedi tutta la notte per vedere se fosse stata confermata la curvatura della luce dovuta al campo gravitazionale. Se avesse capito davvero la teoria avrebbe fatto come me e sarebbe andato a letto »

Albert Einstein

Senza i contributi di Albert Einstein alla fisica con la sua teoria della relatività ristretta e generale e alla meccanica quantistica la fisica sarebbe indietro di quattro secoli. Si può dire che la stragrande maggioranza delle teorie astrofisiche oggi dipendano direttamente e indirettamente dal pensiero di un solo uomo, e quest’uomo, rigorosamente, non era uno scienziato. Se si intende per metodo scientifico quello galileiano, che prevede l’osservazione sperimentale e la riproducibilità dell’esperimento in laboratorio, Einstein non era uno scienziato, piuttosto era un aristotelico. Gli antichi Greci, ai quali dobbiamo la scoperta della Ragione, della Logica e del metodo del ragionamento come scoperta dei Principi Primi che governano il mondo come realtà dell’Intelletto, consideravano di minor valore il fatto empirico, proprio perché esso è emanazione imperfetta e alterata dei Principi Primi che hanno sede nel Nous, l’Intelletto Primo, e che solo la mente con la Ragione è in grado di afferrare, non l’esperimento. Nel 1901, quando Guglielmo Marconi effettuò la prima comunicazione transatlantica senza fili della storia, lanciando un messaggio dalla Cornovaglia all’America, la comunità scientifica internazionale riteneva impossibile che un segnale elettromagnetico, che si propaga in modo rettilineo, potesse valicare la curvatura terrestre e giungere in un altro continente. La cosa sorprendente è che nemmeno lo stesso Marconi era in grado di spiegarsi razionalmente, con le conoscenze scientifiche dell’epoca, come vi sarebbe riuscito. Era una follia. E peraltro il ministero delle poste italiano gli diede del folle. Ma Marconi “sapeva” ciecamente, credeva fermamente che vi sarebbe riuscito, e vi riuscì.

Come si vede questi grandi visionari non avevano bisogno dei “fatti”, né di alcun tipo di dimostrazione empirica, erano assolutamente sicuri che l’Idea intravista nella visione superiore fosse vera. È l’Idea che crea il mondo e le sue leggi fisiche. La scienza afferma che la conoscenza non può essere altrove se non nell’esperienza, è vero. Ma essa ha cancellato del tutto l’esperienza interna all’uomo, alla sua coscienza, a favore di quella esterna. Ciò nonostante essa non coglie l’equivoco che ha generato: infatti se annienta completamente il soggetto della conoscenza, allora, non c’è di conseguenza nessuna conoscenza che possa nascere dal suo metodo. È infatti sempre e solo il Soggetto a conoscere, mai l’oggetto.

La scienza pretende che dietro al suo modello ci sia una corrispondenza quanto più vicina con la “realtà” delle cose. Quando si dice che le teorie più o meno “rappresentano il mondo” e che “i risultati non combaciano più con la realtà” o quando si usano espressioni come: “più vicino possibile a ciò che avviene in natura” si dà per scontato di sapere che cosa sia il “mondo” e la “realtà”, altrimenti non si potrebbe affermare che due cose non collimano. Sarebbe come disegnare una mela senza aver mai visto una mela. Evidentemente vi è un grave problema linguistico alla radice del problema della conoscenza. Non è possibile infatti dire che una teoria non combacia con la realtà, perché allora si sa già che cosa sia la realtà. Ma non è così, altrimenti non si teorizzerebbe nulla. L’aspetto più squisitamente mentale che sta sopra all’esperienza sensibile è non solo imprescindibile ma addirittura ineluttabile a qualsiasi cosa possa essere detta nella formula: “io conosco”.

“La scienza è fatta di dati, come una casa di pietre. Ma un ammasso di dati non è scienza più di quanto un mucchio di pietre sia una casa.”

Henri Poincaré, La scienza e l’ipotesi, 1902

Che cosa è dimostrabile?

Di ogni fatto o asserzione per la scienza occorre una dimostrazione, una prova, una fonte che la comprovi, ma la questione  delle fonti è un regressus ad infinitum nel senso che una fonte deve avere a sua volta una fonte e così via. Ad esempio un libro ha una bibliografia che contiene libri che contengono a loro volta bibliografie: l’attendibilità dell’intero processo è garantita solo ed unicamente dalla sua infinità, il che è impossibile. All’origine deve per logica esservi un fatto o un’informazione senza fonte. Un assioma o ἀξίωμα, Axios, ciò che ha forza, valore, ciò che spinge. La verità originaria è sempre senza fonte. Per fortuna. Poniamo che Napoleone sia stato incoronato nella cattedrale di Notre Damme il 02 dicembre del 1804. Questo è un fatto originario. Non ha fonti. Solo testimoni. Ma non sono anche loro dei fatti originari? Una osservatore che riporta una notizia è esso stesso una notizia e forse non ha nessun collegamento reale con ciò che testimonia. Come la Crocifissione di Cristo. Se fosse un Simbolo? Apparso nella mente dei fedeli?  Nagarjuna, il grande continuatore del Buddha, sostiene che il Buddha dopo la moksa non ha più parlato né emesso suono con le labbra ma sono stati i suoi discepoli a sentirlo parlare con la loro mente. In ultima analisi nulla è fonte attendibile se non di sé stesso.

Il processo intenzionale che porta alla ricerca di una fonte è lo stesso, psicologicamente, che porta alla ricerca di prove. Tutto ciò che è insicuro, fatuo, inevidente, necessita di prove. L’ovvio non necessita di prove. Ha forse bisogno di fonti il fatto che il sole sorge? Ebbene io credo, e sono pronto ad affermare, che il problema delle fonti oggi, questa insana malattia delle bibliografie, delle documentazioni e delle citazioni, questo idiosincrasico morbo di dimostrare ogni cosa sia un male moderno, un tremore galileiano, un ictus dello Spirito.

La Verità non ha bisogno di fonti, non ha bisogno di prove. La Verità  È.

Il processo della dimostrabilità è l’estrinsecazione della paura della transitorietà. Insicurezza è paura della transitorietà. In altre parole il problema della dimostrabilità è una estensione dell’Idea di Sostanza e continuità, per paura atavica della fine delle cose, il terrore che le verità si sgretolino e volino via, la paura della morte delle cose, il loro scomparire dallo sfondo immutabile e senza tempo. Lo scienziato vuole di-mostrare, ripetere, reiterare l’esperimento all’infinito, e questo è da leggere come una coazione a ripetere freudiana che tradisce la paura di perdere una verità, una Identità delle cose, un Essere delle cose, che di per sé non muta e non può mutare. Tutto il problema del metodo scientifico è riducibile a un fatto psicologico e traducibile in termini di paura della morte. Come il Sole è immutabile ed eterno e la luna mutevole e fugace il problema millenario della contrapposizione fra una Verità certa e sentita nell’Animo e una verità invece ri-flessa, è un problema simbolico fra Principi opposti. La conoscenza scientifica è una conoscenza che sorge da uno specchio, come il riflesso di una immagine nell’acqua, non già l’immagine originaria. Il sole illumina la luna e la luna riflette questa luce a noi. Ma sarà una luce deformata, alterata, infedele.

Tuttavia lo scienziato onesto e autentico, in preda alla visione, penetra interiormente nell’Animo la Verità prima, per Ri-Velazione. Solo successivamente la comunità, la collettività scientifica sentirà il dovere di dimostrare ciò che ha “visto” lo scienziato. E questa necessità di dimostrarlo è dovuta unicamente alla malafede, al non fidarsi, all’essere insicuri. Ritengo che vi sia una terribile contraddizione nelle ambizioni scientifiche che, per avere ragione, si richiamano a un metodo scientifico, altrimenti chiamato galileiano, concepito da un uomo, Galileo Galilei, che credeva in una Intelligenza Superiore.

“La matematica è l’alfabeto nel quale Dio ha scritto l’universo.”

“Nelle mie scoperte scientifiche ho appreso più col concorso della divina grazia che con i telescopi.”

Galilei, Lettere, Einaudi, Torino, 1978

La malafede di tutta la scienza sta nel prendere ciò che più gli comoda, il metodo, tralasciando che chi lo ha inventato credeva in un Disegno Intelligente presente in tutte le cose. Si capisce tuttavia che la differenza fondamentale fra il metodo antico, quello dei Greci, che ci ha portato un Euclide, un Pitagora, un Platone, un Fidia, e quello moderno, è sostanzialmente un problema di simboli psicologici. Il Logos (λόγος) di Eraclito, o l’Archè (ἀρχή) di Anassimandro sono i principi regolatori di tutto il Cosmo afferrabili attraverso il processo della Noesi (νόησις). Questa, per Platone, rappresenta la facoltà della conoscenza intuitiva e prediscorsiva ed è il grado più alto della conoscenza razionale o scientifica, ossia quella filosofica, che ha come oggetto le Idee e le Forme originarie -Eidos (εἶδος). Questo modo di sentire il problema della conoscenza è perdurato, in vario modo, fino alla scolastica medioevale, per tramontare definitivamente con l’epoca moderna.

Ancora Tommaso d’Aquino (1225-1274) fu in grado di affermare con forza il metodo antico quando scriveva che:

“La verità è adeguamento dell’intelletto alla cosa; adeguamento della cosa all’intelletto; adeguamento dell’intelletto e della cosa. (…) Ma questa corrispondenza non può sussistere se non nell’intelletto. Dunque, la verità non può esistere se non nell’intelletto.”

(De veritate, q. 1 a. 2 s. c. 2)

Successivamente il principio fermo e certo di un metodo solare della conoscenza è stato sostituito da un metodo lunare della conoscenza che ha portato alla scienza di oggi.

Noi, uomini nati postumi, abbiamo il dovere di credere che gli Dei torneranno ancora una volta, terminata questa epoca oscura, a riportarci la loro Luce e la loro Rivelazione poiché siamo convinti dell’esistenza di Verità Eterne sovra il campo dei fenomeni e delle dimostrazioni che non potranno mai essere schiacciate dal meccanismo del moderno, dalla fallacia insicura della prova e dal tremore incerto della scienza.