Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Perché dilaga la sindrome del “carattere orale”

Perché dilaga la sindrome del “carattere orale”

di Francesco Lamendola - 12/10/2019

Perché dilaga la sindrome del “carattere orale”

Fonte: Accademia nuova Italia

I genitori, le maestre e quanti lavorano nel campo dell’educazione si sono accorti che i bambini dell’ultima generazione sono meno autonomi di quelli  di qualche anno fa: sono passivi, incerti, privi di senso pratico e inclini ad aspettare le soluzioni dall’esterno, allorché si trovano alle prese con un problema o una situazione che non sanno risolvere in base al loro bagaglio di nozioni o di esperienze. Questo fatto si somma ad altre caratteristiche comportamentali che hanno fatto la loro comparsa, almeno in maniera evidente, negli ultimi anni: la sempre più debole capacità di attenzione, la perdita di memoria, la difficoltà di orientare il pensiero sia in senso spaziale che temporale, come se il mondo fosse bloccato in un eterno presente dai confini incerti, senza lo spessore tridimensionale. L’insieme di queste caratteristiche è dovuto senza dubbio a un complesso di fattori operanti nella società contemporanea, e anche a una serie di scelte esiziali da parte dell’autorità scolastica, specie da quando, per correr dietro al modello educativo americano, è stato abbandonato il metodo dell’apprendimento per conoscenze e sostituito dal metodo per competenze, ossia qualcosa di pratico, di tecnico, e per sua stessa natura, di limitato e parziale, che non fa appello in alcun modo all’iniziativa personale e meno ancora alla creatività individuale. Abbiamo così sostituito un’ottima scuola, quale era la scuola italiana fino a qualche decennio fa, nella quale si insegnava ai bambini a conoscere la realtà per interagire con essa, con un tipo di scuola che punta a risolvere problemi, ma solo quelli ai quali il bambino è stato preparato. Per fare un esempio pratico: un bambino educato con il sistema delle competenze sa come andare in bicicletta dal punto A al punto B; tuttavia, se gli esce la catena, si ferma per telefonare a sua mamma, che lo viene a prendere; mentre un bambino educato per conoscenze sa come fare in un caso del genere: rovescia a terra la bicicletta, rimette a posto la catena con le sue mani e riparte, senza bisogno di un soccorso esterno.

Ma c’è qualcosa di più profondo che spiega l’inettitudine ormai quasi totale dei bambini davanti agli imprevisti, teorici e pratici, della vita, e cioè l’atteggiamento iperprotettivo degli adulti, e specialmente dei genitori, che tende a deresponsabilizzarli e a renderli sempre più passivi, ansiosi e impotenti. Avete mai osservato una scuola, perfino una scuola superiore, alle otto del mattino, in un giorno di pioggia, anche se si tratta di una semplice pioggerellina, di quelle che inducono solo pochi schizzinosi ad aprire l’ombrello? Ebbene le macchine, anzi i macchinoni dei genitori, delle mamme soprattutto, non si limitano a far scendere i loro figli, magari dei ragazzoni diciottenni grandi e grossi, nei pressi dell’entrata; no: devono farli scendere proprio davanti all’ingresso, costi quello che costi, in modo che nemmeno una gocciolina d’acqua cada sulla sua testa innocente e così, Dio non voglia, l’umidità possa nuocere alla sua delicata costituzione: magari intasando il traffico, creando ingorghi, obbligando altre macchine a restare in attesa nel bel mezzo della strada. E questo è solo un esempio, uno dei più banali e dei più facilmente osservabili dall’esterno. La realtà è che molti genitori, oggi, fanno e farebbero qualsiasi cosa pur di sollevare i loro figli da qualsiasi responsabilità, qualsiasi impegno, qualsiasi sacrificio, anche il più lieve, anche il più insignificante. E gli insegnanti fanno la stessa cosa. Le maestre non fanno più imparare le poesie a memoria perché i bambini, poveretti, potrebbero restare disgustati o traumatizzati dall’eccesivo sforzo mentale: col risultato che la memoria, non venendo esercitata debitamente all’età giusta, che è appunto quella delle scuole elementari, resta bloccata, non si sviluppa, anzi tende a regredire. I computer sostituiscono carta e penna; non importa come scrivono i bambini, anche in stampatello: benché sia dimostrato che la scrittura in corsivo, più distesa e armoniosa, è un valido ausilio alla crescita del pensiero logico-discorsivo. I conti aritmetici, per carità: non dovranno mica farli da soli, come i loro nonni? Non sia mai: ci pensa la calcolatrice. E via di seguito. Un capitolo di storia, o di fisica, o di geometria, da studiare per casa, alle medie? Quale enormità! Subito una delegazione di indignati genitori si presenta all’ufficio del dirigente scolastico, per protestare e chiedere provvedimenti contro il becero professore che pretende così tanto da così teneri fanciulli. Una ragazzina si è fatta una piccolissima contusione durante l’ora di educazione fisica, magari nemmeno in palestra, sotto gli occhi dell’insegnante, bensì in spogliatoio, perché faceva la spiritosa con le compagne, e si è presa l’anta di un armadietto sullo stinco? Altra mamma scandalizzata e indignata, visita immediata al pronto soccorso e vibrata protesta presso il dirigente scolastico! Ma come: noi vi affidiamo i nostri figlioli con tanta fiducia, e la scuola non è nemmeno in grado di tutelare la loro incolumità fisica… Potremmo andare avanti per pagine e pagine a fare esempi di questo tipo: e non stiamo affatto esagerando, semmai ci teniamo al di sotto della situazione reale, che include una serie di cause civili intentate dalle famiglie alla pubblica amministrazione per ottenere giustizia e risarcimenti finanziari proporzionati al danno, materiale o morale, che i pargoletti hanno subito, e dei quali porteranno le stimmate per chissà quanti anni, forse per tuta la loro vita. Ci sono perfino dei casi, e noi ne conosciamo personalmente alcuni, nei quali le famiglie fanno delle vivaci rimostranze presso i dirigenti scolastici dopo che maestre e insegnanti di sostegno sono state aggredite, picchiate, presi a calci e morsi e mandate all’ospedale, a farsi cucire i punti di sutura, dai poveri pargoletti scatenati, perché tali insegnanti non hanno saputo porsi con il necessario tatto e le maestre supplenti, ad esempio, non si sono conformate alla linea di condotta instaurata dalle maestre titolari, cosa che ha spiazzato e confuso i loro figli aggressivi e caratteriali. Insomma ci troviamo in una situazione che sarebbe tragica, se non fosse anche irrimediabilmente patetica e, non di rado,  ridicola.

Si arriva così ai bamboccioni trentenni e quarantenni sdraiati sul divano tutto il giorno, che non si sono mai rifatti il letto in vita loro; che non si sono mai preparati un uovo al tegame o una pastasciutta al sugo di pomodoro, né hanno mai lavato i piatti o pulito la cucina; che non si sono mai lavati o stirati un camicia, ma che dico, che non l’hanno mai infilata nella lavatrice, perché tutte queste cose le fa la mamma. Che non vanno nemmeno a spedire un telegramma, che non sanno fare una raccomandata, e che usano la macchina di papà, coi soldi di papà, ma non si scomodano neanche a fare benzina quando è in riserva: aspettano che lo faccia lui. Troppa fatica, troppo stress, se dovessero pensarci loro: non si può pretendere tanto da un giovane dei nostri giorni, costretto a  vivere in un mondo così difficile, così complesso, così terribilmente elusivo. Meglio che tutte quelle cose le facciano i genitori, che sono al mondo da qualche anno in più e hanno maturato un certo grado di esperienza; ma i figli no, poverini, è già tanto che resistano al surmenage quotidiano. Chieder loro qualcosa in più, oltre la mera sopravvivenza, sarebbe inumano. Di cercarsi un lavoro, poi, non ne parliamo neanche: perché bisognerebbe darsene la pena, finché si può vivere sulle spalle del babbo e della mamma? La soppressione del servizio militare obbligatorio ha fatto il resto. Ora, tutto questo ha un nome: alcuni psicologi chiamano un tale carattere “orale” (dal sostantivo latino: os, oris, la bocca), per indicare l’atteggiamento del bambino piccolo, di qualche mese, che vorrebbe sempre succhiare il latte dalla mammella della madre; e che, se rimane frustrato in tale sua necessità, accumula, da adulto, una sindrome che consiste nella perenne dipendenza dagli altri, nel bisogno patologico che ci pensino gli altri, che siano gli altri a farsi carico dei bisogni dell’ex bambino che, cresciuto, non si è mai abituato a far da solo, a prendere in mano la sua vita con senso di realismo e di responsabilità. E come non si può pretendere da un bambino di sette mesi che, se ha fame, vada a scaldarsi il latte da solo, lo versi nella tazza e se lo beva, ma è logico che pianga e strilli finché non riesce ad attirare l’attenzione della mamma, la quale penserà lei a soddisfarlo, così non si può pretendere da questi giovani traumatizzati (“giovani”, si fa per dire: tutto è relativo; qui stiamo parlando di persone adulte e vaccinate) che si cerchino un lavoro, e nemmeno che si preparino i pasti, che si rifacciano il letto, e così via.

Prendiamo, a titolo di esempio classico, questo caso riferito dallo psicoterapeuta americano Alexander Lowen (1910-2008), discepolo di Wilhelm Reich, nel suo testo ormai classico Il linguaggio del corpo (titolo originale: Physical Dinamics of Character Structure. The Language of the Body, New York, Grunne & Stratton, 1958; traduzione dall’inglese di P. Sarcina e M. Pizzorno, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 141-142):

 Il paziente il cui problema servirà come base per una discussione preliminare decise di sottoporsi al trattamento terapeutico a causa del ripetersi di periodi di profonda depressione. Era un giovane sui trent’anni; oltre al problema dei frequenti periodi di depressione […] la prima volta che venne a consultarmi era disoccupato, e l’inizio della terapia era quindi condizionato dal fatto di trovare un lavoro. Aveva fatto un’infinità di mestieri, ma nessuno per più di sei mesi e non aveva nessuna specializzazione, né era in qualche modo preparato a svolgere una professione qualsiasi.

Quando, durante il primo colloquio, lo interrogai sul suo atteggiamento verso il lavoro, espresse e una forte riluttanza ad accettare la necessità di lavorare. Questo atteggiamento, ho poi scoperto, è caratteristico del carattere orale. Lo provocai domandandogli se a parer suo il mondo aveva forse il dovere di mantenerlo, e senza alcuna esitazione mi rispose affermativamente. Una convinzione del genere non la si può mettere in discussione perché traduce un intimo senso di privazione. L’individuo che presenta questo atteggiamento si comporta esattamente come colui che, convinto di essere stato defraudato dei suoi diritti di primogenitura, passa la vita cercando di recuperare l’eredità perduta. Al massimo gli si può dimostrare l’inattuabilità del progetto. Convenni con lui che era stato imbrigliato e mi offrii di aiutarlo – scrissi cioè su carta intestata che il latore aveva diritto di ricevere adeguati mezzi di sostentamento esigibili presso qualsiasi banca o istituto di credito degli Stati Uniti, firmai il foglio e glielo porsi. Allora scoppiò a ridere, rendendosi conto che, per quanto secondo lui fosse giustificata, la sua richiesta non poteva essere soddisfatta. Comprese ch’era meglio per lui cercarsi un lavoro.

 Fermiamoci qui e non occupiamoci di come, poi, la terapia si sviluppò per condurre questo paziente a una maggiore consapevolezza di sé e della reale natura del suo problema. Lasciamo anche perdere quanto vi è di discutibile, o sbagliato, nelle teorie di Reich, e quindi anche di Lowen, e limitiamoci alla diagnosi: ci sembra che in essa vi sia un nocciolo di profonda verità. Un grandissimo numero di persone, che è in continuo aumento, mostra un atteggiamento complessivo, non solo verso il proprio lavoro, ma verso la vita in generale, simile a quello del paziente sopra nominato; un atteggiamento che potremmo sintetizzare così: paiono aspettarsi che siano gli altri a dover provvedere a loro. Non solo in senso economico, ma in tutti i sensi, compreso quello affettivo e sentimentale. Sono passivi, ma tutt’altro che rinunciatari; hanno, al contrario, delle notevoli aspettative: solo che, secondo loro, devono essere gli altri a darsi da fare per soddisfarle. Non hanno tale aspettativa solo nei confronti dei genitori, anche dopo esser diventati adulti, ma verso tutti: professori, colleghi, amici, parenti, vicini di casa, conoscenti e perfino estranei. In altre parole si sentono in credito: pensano, in qualche modo, che sia stato sottratto loro qualcosa che era di loro spettanza, e quindi si attendono di ricevere ciò che desiderano, ciò di cui hanno bisogno, a titolo di risarcimento per l’espropriazione di cui ritengono di esser stati vittime. A questo punto bisogna dire che l’atteggiamento della cultura dominante rafforza queste aspettative patologiche e fornisce loro un verniciatura di legittimità e una apparenza di plausibilità. Il magistrato che autorizza una famiglia rom a restare nella casa occupata abusivamente, perché, poverini, hanno dei bambini che altrimenti si troverebbero per la strada, e ciò a dispetto della richiesta del legittimo proprietario di tornare nella disponibilità del suo bene, incoraggia il vittimismo e il parassitismo sociale (e scoraggia i cittadini onesti dall’investire i loro risparmi nel settore immobiliare). Il dirigente scolastico che premia il furto di una bicicletta da parte di un ragazzino africano, facendogli comprare una bicicletta nuova coi fondi dell’istituto e scusando il furto col vivo desiderio di avere ciò che hanno i compagni, fa sapere al piccolo ladro che si possono avanzare diritti sulle cose anche senza aver lavorato e risparmiato per acquistarle onestamente. Il clero che ripete sempre ai fedeli che accogliere ogni sorta d’immigrati e falsi profughi è un preciso dovere cristiano, e che gli africani hanno diritto a stabilirsi in Europa in via definitiva (cosa che i veri profughi non si attendono né desiderano) crea negli stranieri l’aspettativa di trovare solo porte aperte ed essere ospitati senza bisogno di lavorare o fare alcunché per rendersi utili, anzi di avere solamente diritti, compreso un menù di loro gusto, con la carne halal, e una confortevole sistemazione in albergo, non in un’ex caserma. Appunto: regressione al carattere orale.