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Perché la Cina è un paese in pace

di Franco Cardini - 26/08/2025

Perché la Cina è un paese in pace

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Pechino sembra avere vinto la sua sfida lanciata al mondo: il tenore di vita, anche nelle campagne, si è decisamente alzato e il welfare per tutti appaga le richieste sociali

Nubi immense, tempestose, cariche di pioggia, galoppano ancora nel cielo sopra Xiamen, il grande porto a sud di Shanghai.
E di fronte all’isola di Taiwan, quella che noi chiamavamo Formosa: la piccola Cina erede del nazionalista Chiang Kai-shek, dal governo della Cina popolare dichiarata territorio metropolitano della Repubblica comunista senza però che nessuna mossa politica né militare sia stata ancora tentata da Pechino per concretizzare la sua dichiarazione di formale appartenenza. Xi Jinping sembra seguire alla lettera il più celebre proverbio del suo paese, che ne è ricchissimo: “Siedi sulla riva del fiume e aspetta che la corrente faccia passare dinanzi ai tuoi occhi il cadavere del tuo nemico”.
La notte è serena a Xiamen e nell’isoletta di Kulangsu, specie di Capri piena di negozi, ristoranti eleganti villette nell’eclettico stile coloniale un tempo abitate dai molti residenti Vip occidentali che agivano in città come agenti diplomatici, commerciali, docenti negli infiniti istituti universitari, giornalisti accreditati o spie. Stanotte Podul, il tifone di mezz’agosto, è puntualmente passato prima sopra Taiwan e poi Xiamen: senza però far danni a parte una magnifica scenografia di tuoni e fulmini. Ora la notte è limpida. Dal terrazzo al 5° piano del mio hotel di Kulangsu sto ammirando, al di là della baia scintillante di luce, lo skyline di Xiamen coi suoi grattacieli ancora più sorprendenti di quelli di Dubai. Il genio iperelettronico cinese li trasforma, dopo il calar del sole, in immensi display macrotelevisivi sui quali si proiettano figure oniriche: stelle, dragoni, bufere, voli di gru e di cicogne, guerrieri combattenti, lavoratori in festa, meravigliose ragazze danzanti ravvolte in fiabeschi veli.
Xiamen è un capoluogo “minore”, nonostante il suo porto: conta appena 5 milioni di abitanti. Ma bisogna paragonarla con Shanghai, Hong Kong, Macao, Canton. Fino a pochi anni fa, affiches e depliant pubblicitari quando volevano invogliare i turisti mostrando loro spettacolari skyline ricorrevano regolarmente a New York o Sydney. Ormai è la volta di Shanghai e Hong Kong. E questo dice moltissimo.
“Assaggiai” la Cina molti anni or sono, facendo il mio mestiere di studioso dei grandi itinerari e dei pellegrinaggi medievali fra Occidente e Oriente. Visitai Kashgar, Xian e il suo “esercito di terracotta”, Pechino. Allora m’interessava soprattutto la “Via della Seta”. Il mio primo viaggio in Cina d’una certa importanza e durata è di poco meno di vent’anni or sono: era il 2008, l’anno della “grande crisi”. Ne riportai un’immagine contraddittoria: da una parte un vivo fermento, una bruciante energia; dall’altra l’alternarsi di paesaggi di struggente bellezza e di città dalle periferie crudamente industriali e dai sobborghi sporchi e trascurati, folle di gente malvestita in bicicletta, servizi scadenti e igienicamente mal curati, gente che affollava ristoranti e banchetti di street food ingozzandosi di continuo. Templi e pagode c’erano, bellissimi: ma sembravano circondati da un muro invisibile di ostile indifferenza, e i segni ottusi e feroci della “rivoluzione culturale” erano ancora evidenti. I miei amici esperti in materia – soprattutto Tiziano Terzani e Fosco Maraini – mi parlavano in effetti di un paese immenso dalle stupefacenti risorse, ma una grande potenza militare e una caotica società civile in fieri, che ne aveva ancora di cammino da fare.
Da allora, ho collezionato altri due viaggi importanti, il più recente questa estate. Ho letto, informato presso colleghi e testimoni competenti, parlato con diplomatici e con tecnologi, anche imparato qualche ideogramma a memoria (per quanto sia rimasto lontano dai 5.000 strettamente indispensabili). Frattanto, il tempo è passato. Credo che il “giro di boa” sia stato il 2013, col formidabile progetto di Xi Jinping One Road, One Belt sul duplice itinerario ferroviario e navale teso a collegare il Mar della Cina con l’Atlantico e la Manica attraverso Pacifico, Mare Arabico e Mediterraneo. Prospettiva rivoluzionaria, che procede nonostante il disperato boicottaggio statunitense e il silenzio mediatico imposto dai governanti suoi complici e delle lobby che li controllano.
Ho trovato un paese irriconoscibile rispetto a vent’anni fa: ordinato, pulito, fiducioso, sereno, aperto ai visitatori e in via di migliorare ulteriormente. Le cicatrici della “rivoluzione culturale” sembrano rimarginate, anche se gli antichi templi sono fiammanti di dorature e colori come fossero nuovi di zecca: dal resto, quanto sono davvero medievali tante abbazie e tanti castelli “medievali” della nostra cara vecchia Europa, dopo restauri e ricostruzioni?
Oggi la Cina sembra aver vinto la sua sfida gettata al mondo. Il paese appare pacificato e il tenore di vita anche nelle campagne si è decisamente alzato, soprattutto per quel che riguarda sanità, istruzione, trasporti. Il sistema televisivo, nonostante quel che se ne racconta da noi, è libero anche per l’ingresso di molti canali dall’estero: si lavora bene concretamente anche online e per entrare il “visto” è richiesto solo per chi viene per affari. Avendo viaggiato più volte privatamente e senza speciali lasciapassare in entrambi i paesi, posso testimoniare che i controlli negli aeroporti cinesi sono infinitamente più rapidi e semplici che negli Usa. Ho visitato molte università e testimoniato della libertà d’espressione degli studenti; come ho visitato chiese, moschee e templi di culti differenti da quelli più comuni in Cina e non ho notato tracce non dico di persecuzione, ma neppure di limitazione o di controllo.
So bene che il paese è rigorosamente controllato e che molte cose sono proibite. Non dimentico il problema dei carcerati e dei dissidenti. Non trascuro o sottovaluto il fatto che il sistema si regge su un bel calcolato equilibrio di repressione e di organizzazione del consenso. Ho ben presente che il regime vive un momento ricco di aspetti di crisi; che la questione demografica e quella delle risorse energetiche non sono pienamente padroneggiate; che il rapporto tra libertà proclamata e libertà effettive resta insufficiente, così come quello tra aspirazioni egualitarie e realtà stratificata di un paese a struttura oligarchica. La Cina non è un paradiso: né per i lavoratori, né per nessun altro.
Ma attenzione, perché il concetto di “libertà”, per noialtri occidentali, è qualcosa di eminentemente e precipuamente individuale. In Cina non si ragiona obiettivamente così: non solo dopo tre quarti di secolo di socialismo reale ancorché più volte riformato, ma anche dopo quasi 25 secoli di “buongoverno”, sia pure più volte interrotto. Nella visione etico-civica della tradizione cinese, che il socialismo ha modificato ma anche confermato, gli elementi di quello che da noi è l’ormai tramontato “Stato sociale” sopravvivono nella sostanza come una specie di seconda natura: quello che Tommaso d’Aquino in pieno XIII secolo definiva habitus.
Nulla è perfetto: e, se obiettivo di ogni sistema civile è la legittima ricerca della felicità comune, quell’obiettivo resta sotto il cielo di Pechino una lontana stella polare come sotto quello di Washington, Londra, Parigi (non parliamo di Roma). La sfida è comunque aperta: che cento fiori sboccino, che mille scuole si confrontino, come diceva il presidente Mao. Purché sia sfida a colpi di conquiste sociali e Pil, non di sotterfugi finanziari né tantomeno di bombe e di missili, come invece troppi da noi amano pensare. E se poi qualcuno prepara la guerra, non è perché vuole la pace secondo l’antica massima latina: ma è proprio perché vuole la guerra, specie se la considera l’ultima chance per mantenere un primato ormai in crescente pericolo.