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Perchè si nega ai ceti popolari il diritto di critica al fenomeno della immigrazione di massa?

di Antonio Catalano - 26/07/2020

Perchè si nega ai ceti popolari il diritto di critica al fenomeno della immigrazione di massa?

Fonte: Antonio Catalano

Continuano indisturbate ad approdare presso le coste meridionali della nostra Penisola barche barchini e barconi, scaricanti prezioso carico umano, vera e propria gallina dalle uova d’oro, che la neo-lingua dell’ideologia “no borders” chiama migranti. Come se lo stato non esistesse, come se fosse normale che venga meno uno dei suoi presupposti costitutivi: la difesa dei confini nazionali; d’altronde, lo dichiarò papale papale circa due anni fa lo stesso capo di stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli: «Oggi non è più necessario difendere i confini, quella che va difesa è la libertà di tutti i cittadini, di muoversi e di fare impresa». Di muoversi e di fare impresa.  Chiaro? Liberi di bestemmiare Dio, tanto è morto, ma guai a toccare il totem delle “libertà” capitalistiche, quelle iscritte nei principi costitutivi della Ue, le sacre quattro libertà di circolazione che rappresentano l’alfa e l’omega della sua teologia liberista: di merci, di capitali, di servizi, di persone. Capito perché lo stato è d’impiccio con le sue regole d’annata? Il mercato globale non accetta condizioni, vuole libertà, libbertààààà!
Qualche anno fa l’economista Paul Collier osservava che negli ambienti liberali è molto difficile discutere liberamente del tema migrazioni, «l’unica opinione consentita è quella che condanna l’avversione popolare nei suoi confronti». Nel lontano 1973 l’allora presidente della repubblica francese, Georges Pompidou, in occasione del varo della politica dell’”immigration stop”, ammise candidamente di aver promosso negli anni precedenti una politica di apertura e di regolarizzazione dei flussi clandestini sotto la pressione delle grandi imprese, che chiedevano si esercitasse una spinta al ribasso sui salari dei lavoratori gallici e che si indebolisse attraverso la concorrenza degli immigrati l’unità del movimento operaio.  A dimostrazione che i flussi non sono “spontanei”, ma regolati “liberamente” dal mercato; e a dimostrazione, casomai fosse ancor necessario dimostrarlo, che i flussi esercitano una concorrenza a ribasso sui lavoratori autoctoni, grazie alla loro funzione di “esercito industriale di riserva”, che nel passato si alimentava in parte degli stessi nativi. Un po’ quello che accadeva in Inghilterra nell’800, quando gli irlandesi, come scriveva Engels, scoprirono «il minimo necessario a sopravvivere, e lo stanno rendendo familiare anche al lavoratore inglese… che deve lottare contro questo concorrente, un concorrente posto sul più basso piano possibile in un paese civilizzato, che per questa ragione chiede salari più bassi di ogni altro». Aggiungiamoci pure che le “libere” migrazioni di enormi masse impediscono regolari ed equilibrati processi di integrazione, il tutto a vantaggio di un pericoloso aumento nelle nostre società di fenomeni di degrado, «in particolare del degrado della coesione sociale, del degrado della solidarietà di classe insieme a quello delle condizioni generali di vita dei ceti popolari». [Barba-Pivetti, Il lavoro importato]
Ecco perché nell’ultimo quarto di secolo è sempre più profonda la linea di faglia che attraversa le nostre società e che separa inesorabilmente classi dominanti e ceti popolari: i primi a sostenere l’immigrazionismo, i secondi a vivere questo sostegno come un attacco rivolto alle proprie condizioni di vita e di lavoro; ed è per questo che il consenso operaio e popolare (per ora solo  elettorale) si è andato trasferendo, a partire dalla fine del secolo scorso, dai partiti di “sinistra” – la cui base elettorale è ormai quella dei ceti medio-alti, prevalentemente pubblici – a quelli cosiddetti populisti. Non è un caso. E nonostante la cultura dominante, attraverso i suoi molteplici strumenti di condizionamento ideologico, continuamente ripeta il ritornello della convenienza per tutti ad accettare l’immigrazione, i ceti popolari non ci stanno. Ma non perché siano razzisti o cazzate del genere o perché ragionino di “pancia” (ah, il vecchio classismo non muore mai!), come ripetono stucchevolmente i cantori della “accoglienza”, semplicemente perché i ceti popolari vivono giorno per giorno sulla propria pelle l’esperienza dell’aggravamento delle condizioni di vita generato dalla spinta liberalizzatrice che l’immigrazione produce nella società.
Ci troviamo con una cosiddetta sinistra (cosiddetta perché oggi non ha più senso parlare di sinistra, né tantomeno di destra, categorie ormai sepolte dalla storia non per Dpcm ma perché son venute meno le rispettive tradizionali basi sociali di riferimento), a recitare la stessa parte di quegli ambienti liberali di cui parlava Collier, quella che impone la condanna dell’avversione popolare nei confronti delle migrazioni. Ma non solo. Questa sinistra, oltre alla minimizzazione quantitativa del fenomeno, si arroga il diritto di definire “immorale” la posizione di chi nega il “diritto” di attraversare liberamente una frontiera. Per non parlare della “sinistra antagonista” – antagonista solo al senso comune – che vuole un’Europa aperta che «consideri le frontiere alla stregua di cicatrici sulla superficie del pianeta e che dia il benvenuto a tutti i nuovi arrivati» come scriveva Yanīs Varoufakīs. Da che se ne deduce che qualsiasi posizione di richiamo alla difesa dell’identità nazionale è destra estrema e populista e fascista… ohibò, gli stessi che coltivano la difesa strenua di tutte le identità, a partire da quelle di genere. Boh!