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Quando l’anima russa salvava l’Occidente

di Marcello Veneziani - 07/03/2022

Quando l’anima russa salvava l’Occidente

Fonte: Marcello Veneziani

Nel cuore di Roma, al tempo dell’Unione Sovietica, una scrittrice raffinata, delusa dal Concilio Vaticano II e dalla fine della messa in latino, bussava alle porte dei Russicum per seguire la messa celebrata in rito bizantino-russo. Era la Quaresima del 1966 quando Vittoria Guerrini, più nota nel mondo delle lettere col nome di Cristina Campo, prese a frequentare la Chiesa di Sant’Abate all’Esquilino, attigua al Collegio Russicum, oggi chiamato Pontificio Istituto Orientale. Un crocifisso ortodosso in ottone smaltato, donatole al Russicum, campeggiava sul suo letto. Vittoria-Cristina non aveva quarant’anni e racconta in una lettera a un suo amico le affollate messe pasquali ortodosse, con sei preti officianti tra canti e nuvole d’incenso. L’amico in questione, il professor John Lindsay Opie, che insegnò tra l’altro Arte bizantina e Icone russe, era reduce dalla Chiesa anglicana convertito alla Chiesa ortodossa (un cammino che balenò nell’irrequieto Bruce Chatwin). A lui Cristina rivolge tredici lettere ora pubblicate in appendice a un ricco volume di saggi dedicati a lei, Cristina Campo, la disciplina della gioia (a cura di Maria Pertile e Giovanna Scarca, ed. Pazzini). Il prossimo anno sarà il centenario della sua nascita. Come leggere questo suo passaggio al rito bizantino? La ricerca di una viva spiritualità rispetto al degrado occidentale, in quella stessa Russia in cui trionfava il materialismo ateo sovietico. L’ambiguo fascino di Santa Madre Russia, l’inattuale come via di realizzazione spirituale nella forma più alta dell’attenzione.

Cristina nel suo Con lievi mani, teorizzò la sprezzatura come “una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile di situazioni immodificabili”, denotata da “un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte”; e dalla bellezza. Intorno a lei si raccolse un cenacolo nel segno della tradizione della Chiesa d’Oriente che studiava i mistici e i padri greci e latini, e adottava la filocàlia, l’amore per la spiritualità delle icone. La sua apertura alla spiritualità russa la condusse verso il massimo filosofo, scienziato e cultore delle icone, Padre Pavel Florenskij, fucilato da Stalin nel 1937. Per lui il simbolo è “una realtà che è più di se stessa”, un condensatore di vita spirituale.

Cristina visse per anni con Elémire Zolla, studiò Simone Weil, frequentò Maria Zambrano e in via epistolare Andrea Emo; fondò Una voce per salvaguardare la liturgia latino-gregoriana. Scrisse pochissimo, ricercando la perfezione, e avrebbe voluto scrivere ancor meno. A suo dire l’arte di scrivere presuppone l’arte di leggere, che a suo volta “reclama la difficile, impervia arte di ereditare”. Traditio, in senso pieno.

Adottò il nom de plume per sfuggire agli sguardi del mondo e rendersi più prossima all’invisibile. Visse “per pura cortesia” e consegnò la poesia “a quattro sfingi sorelle: memoria, sogno, paesaggio e tradizione”. A Guido Ceronetti apparve una creatura in contatto con l’inesprimibile, esile e leggera. ‘Due mondi e io vengo dall’altro’… Scrisse con rara densità e con densa rarità, le sue prose hanno l’incanto dello stupore infantile: “con quale ipnotica lentezza battono le ciglia di un bambino che ascolta rievocare”… Tutti viviamo di stelle spente…Una vita pura – scrive Cristina ne Gli imperdonabili – è interamente ritmata su questa musica leggera e veemente, tutta oblio e sollecitudine, sorriso e pietà. La sua succinta e delicata esistenza è percorsa come un filo d’amore da una “profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto”.

La liturgia, scrive Cristina, “è fonte e meta di ogni poesia”, “è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile”; la liturgia è iniziatrice sovrana e “splende, lume coperto, sulle rocce più inaccessibili, come il Monte Athos o qualche abbazia benedettina”. La grande poesia, per Cristina, “è bellezza geroglifica, decifrabile solo in chiave di destino”; ma aggiungeva di non conoscere “poesia universale senza una precisa radice: una fedeltà, un ritorno”. Il poeta è là per nominare le cose; ma “oggi sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte”. Scrive i nomi sull’acqua. Tutto muore appena affiora la tecnica, che spegne ogni artigianato del vivere. Eppure dice Cristina, “amo il mio tempo in cui tutto vien meno e insieme è forse è proprio per questo il vero tempo della fiaba”. L’uomo ha distrutto tappeti volanti e specchi magici quando ha preteso di fabbricarli, dice la poetessa; ma “siamo nell’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire”. Cristina non disprezza ma ama il suo tempo, di cui coglie la bellezza sulle soglia del tramonto; un modo insolito, intenso e struggente, di affrontare la decadenza, senza trattenerla, piangerla o fingere che si possa tornare indietro.

I suoi versi raccolti ne La tigre assenza, includono il suo primo libro di poesie; il titolo, Passo d’addio, indica il saggio che le ballerine eseguono a fine corso per congedarsi dalla scuola e dalle altre allieve. ‘T’insegnerò anima mia questo passo d’addio’…Un commiato dalla giovinezza in punta di piedi ma anche il primo esercizio di una più grande cerimonia d’addio. ‘Con lieve cuore, con lievi mani’…La immagini così svanire con un accenno di danza e un leggero sorriso, allusivo della destinazione. “Non si può nascere ma si può morire innocenti”.