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Sotto l’universalismo niente. L’appartentemente impossibile quanto necessario abbandono dell’universalismo occidentale

di Gennaro Scala - 17/11/2025

Sotto l’universalismo niente. L’appartentemente impossibile quanto necessario abbandono dell’universalismo occidentale

Fonte: Gennaro Scala

Le sacrosante proteste contro il genocidio in Palestina hanno subito mostrato i limiti, all’apparenza insuperabili, che incontrano i movimenti politici in Occidente. Tali proteste erano indubbiamente giuste dal punto di vista morale, ma con i soli principi morali non si costruiscono i movimenti politici.
Ho partecipato alle manifestazioni, ma subito sono stato preso da un forte sensazione di deja vu. In piazza a Bologna, esclusa la prevalente presenza giovanile studentesca, i volti, soltanto un po’ invecchiati (come quello di chi scrive), in particolare di coloro che visibilmente erano gli organizzatori, erano gli stessi del movimento “no-global” (gli era stata appioppata questa definizione, ma in realtà si mirava ad “un’altra globalizzazione”). Mi è parso un po’ di tornare indietro nel tempo.
Lo stesso nome dell’iniziativa che ha fatto da volano alle manifestazioni di massa, la “Global Sumud Flotilla”, voleva indicare un “movimento globale” a favore della Palestina, ma che è stato invece soprattutto occidentale. Il carattere prettamente simbolico della spedizione in Palestina, che non aveva speranza di superare il blocco della marina israeliana, mi faceva pensare alle “linee rosse” da superare dell’estate del 2001 a Genova. In generale, le manifestazioni sono avvenute soprattutto nei paesi occidentali, in particolare in Italia. Il movimento per la Palestina metteva in scena delle questioni fondamentali interne all’Occidente, in un certo senso riguardava più l’Occidente che la Palestina stessa. Il movimento per la Palestina ha voluto essere il lato buono dell’universalismo occidentale, ma per quanto le motivazioni siano moralmente condivisibili, e bersagliare di proposito la popolazione civile fa schifo ad ogni essere umano degno di questo nome, tuttavia per questa strada non si costruisce un movimento politico, ma un “movimento emotivo” (com’è stato definito) che ha appunto la stessa durata che hanno le azioni che avvengono sulla spinta della sola emozione. 
Cosa vuol dire entrare nelle dinamiche politiche per quanto riguarda la questione palestinese lo si può illustrare con la storia dei passati decenni. In Italia la causa palestinese ha avuto nel passato un’ampio appoggio, in tutto lo spettro politico, per un motivo preciso: l’Italia aveva bisogno del petrolio mediorientale, e quindi voleva avere un buon rapporto con le nazioni mediorientali, per questo Craxi mise in gioco le forze dello stato con l’episodio di Sigonella o Andreotti affermava nel 2001 che se fosse nato in un campo palestinese sarebbe diventato un terrorista. Quella “sovranità limitata” che fu indispensabile, come il petrolio, per lo sviluppo industriale italiano del dopoguerra è oggi scomparsa. Per cui i movimenti che pur partono da questioni indubbiamente giuste non trovano una sponda significativa in ambito politico.
Tale sovranità limitata è terminata con il periodo della cosiddetta globalizzazione seguita alla sconfitta dell’Urss. Se il bipolarismo Usa-Urss offriva lo spazio di manovra per quanto ridotto alla realtà particolari, come l’Italia,  questo è scomparsa con la la fine del bipolarismo, il quale era il conflitto tra due universalismi particolari, quello liberale e quello comunista sovietico. Il periodo della globalizzazione ha significato anche la scomparsa di quel residuo di identità culturale sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, le società europee si sono americanizzate definitivamente, ma si è voluto guardare a ciò che come a una sorta di globalismo necessario, un mondo in cui le identità particolari non avevano più un senso. Ma non è stato così per Cina, Russia, India, Iran, Brasile, Argentina, ecc. 
Questo processo non ha trovato opposizione nei partiti della sinistra comunista occidentale, perché anch’essa era fondata su basi universalistiche. Per comprendere l’universalismo comunista bisogna andare un po’ indietro nel tempo. Ho cercato di mostrare nel mio libro Per un nuovo socialismo come l’impostazione universalistica in Marx fosse una via d’uscita utopica dalla decadenza europea, che inizia con la sconfitta di Napoleone e termina con le due guerre sul piano globale che hanno segnato la fine della civiltà europea. Marx fu sostanzialmente favorevole l’espansione globale inglese, e, come ogni rivoluzionario del suo tempo, era decisamente antirusso, considerava la Russia il bastione della reazione. Tant’è che Guy Mettan nel suo libro Russofobia lo indica come uno dei principali esponenti della russofobia di sinistra. Marx aveva le sue ragioni per essere universalista e anti nazionalista, cominciava ai suoi tempi quella degenerazione dei nazionalismi che sarebbero stati protagonisti delle due guerre mondiali. Inoltre le altre civiltà mondiali sembravano inerti per cui era necessario “trascinare nella storia” la Cina, come scrivevano nel Manifesto del partito comunista. Sembravano, ma già dopo neanche mezzo secolo dalla morte di Marx il contesto era cambiato radicalmente, proprio la Russia diventava protagonista della prima rivoluzione formalmente comunista. Rimando sempre al mio libro per quanto riguarda l’analisi delle cause della rivoluzione sovietica che, secondo la classica eterogenesi dei fini, si presentava come rivoluzione comunista, ma era l’inizio del mondo multipolare, ovvero la fine di mezzo millennio e passa di espansione globale della civiltà europea. Lenin afferrò il ruolo della questione nazionale, ma volle inserire quello che fu in realtà un cambiamento di paradigma radicale all’interno dell’ortodossia marxista. L’appoggio alla questione nazionale era solo di carattere tattico, perché in realtà il fine ultimo era di carattere universalistico ovvero la vittoria del comunismo in tutto il mondo. Tale eredità fu funzionale all’Unione sovietica vincitrice della II guerra mondiale per la creazione di un universalismo alternativo a quello liberale, poiché la competizione con gli Usa avveniva sul piano globale. Se tale universalismo fu efficace per un certo periodo in questo senso, in quanto consentì all’Urss di aver una certa influenza soprattutto nel “terzo mondo”, ad es. nella “decolonizzazione” del dopoguerra, fu anche la causa della rottura con la Cina comunista, e fu una delle principali cause della sconfitta dell’URSS (ho affrontato la questione con maggiori dettagliati nel mio scritto La teoria del mondo multipolare e il pensiero marxista). Il contrasto tra le due grandi nazioni comuniste fu sfruttato dagli USA di Kissinger per portare la Cina dalla loro parte, superando la grande crisi che subì l’occidente a guida statunitense con la sconfitta in Vietnam, che fu all’epoca anche una grande crisi egemonica. La Cina diventava la fornitrice di manodopera a basso costo per il mondo occidentale, gli Usa hanno delocalizzato in Cina la loro manifattura e hanno affidato il loro dominio sul piano economico al dominio finanziario, pensando in tal modo di integrare in tal modo definitivamente la Cina nel loro sistema. Sono stati gli anni della globalizzazione, le imprese andavano in Cina, David Bowie si divertiva a giocare con una “china girl”, ed eravamo tutti dei consumatori felici e contenti grazie alle merci a basso costo cinesi. Ma è stato un gioco in cui i dirigenti cinesi hanno avuto la vista più lunga, perché conservando il controllo dello stato hanno in tal modo hanno acquisito i capitali, le conoscenze, e la tecnologia per arrivare a diventare una potenza che anche sul piano economico sfida l’egemonia statunitense. L’universalismo, in questo caso liberale, è stato fatale questa volta all’Occidente.
Con il crollo dell’Urss, quel tipo di universalismo comunista ha subito una sconfitta definitiva trasformandolo in uno dei tanti movimenti politici che ormai risiedono nel cimitero della storia. Uno degli studiosi che più coerentemente ha riflettuto sulla fine del comunismo storico novecentesco è stato Costanzo Preve. Fondamentalmente la sua critica individua come cruciale questione dell’universalismo, egli applicava al comunismo storico la stessa critica di Hegel alla rivoluzione francese in cui vigeva “furia del dileguare”, ovvero il passaggio dall’individuale all’universale che annullava le comunità intermedie, tra cui lo stato. E in effetti questo tipo di universalismo fu fatale  per l’Unione Sovietica per quanto riguarda il suo rapporto con la Cina. 
Con la fine dell’Unione Sovietica il tentativo degli Usa di diventare l’unica potenza globale si presenta come una forma di universalismo: le guerre per i diritti umani, l’esportazione della democrazia, i bombardamenti “etici”. Gli eredi dei partiti del movimento operaio si trasformano in partiti per i diritti civili quale foglia di fico per l’abbandono di qualsiasi proposito di difesa delle classi popolari. 
Sono convinto che per quanto diventi sempre più diffusa l’idea che tale sistema stia diventando pericoloso, e la barbarie in Palestina ne è la dimostrazione, la massa degli occidentali non riesca però a immaginare un mondo diverso, in cui l’Occidente è una civiltà come le altre. Sia perché si teme che la perdita del primato occidentale significhi un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita, che comunque per alcune fasce medio-alte consentono ancora un certo livello di consumo. Sia perché in questa universalizzazione la civiltà europea poi occidentale ha smarrito se stessa. E ancora di più gli europei, per la questione particolare della civiltà europea, motivo per cui non possono che essere con l’Ucraina “fino alla fine” … sia dell’Ucraina che dell’Europa (questa volta definitiva). E allora si preferisce continuare e perseguire un utopico universalismo occidentale buono ed etico, che  non vi potrà mai essere. Già la parola universalismo occidentale è una sorta di ossimoro, è il particolare che si presenta come universale. 
Per questo sotto l’Universalismo non c’è niente. Già Todd nel suo libro La sconfitta dell’Occidente ha mostrato il nichilismo in cui affonda l’Occidente. Nichilismo vuol dire soprattutto smarrimento dei propri riferimenti culturali. Il nichilismo si supererebbe solo ripartendo dalla nostra cultura, quale passaggio ineliminabile nella nostra appartenenza al genere umano. Ma qual è la nostra cultura? 
Molti sostengono (ad es. Lucio Caracciolo) che nell’esasperare il conflitto con la Russia l’Occidente stia commettendo un grave errore strategico, poiché se il principale avversario dell’egemonia occidentale è la Cina, spingere la Russia ad una stretta alleanza con essa la rafforza. Tuttavia una diversa politica nei confronti della Russia significherebbe realmente agire come una potenza tra le altre, e ciò l’Occidente non è disposto e non è in grado di farlo.
Questa incapacità di abbandonare l’universalismo sia da parte delle classi dominanti sia da parte della popolazione occidentale è il motivo per cui i vari movimenti “sovranisti”, la cui presenza pur segnala il problema, non sono riusciti a trasformarsi in movimenti consistenti. Si pone un problema di “Palestina free”, ma si pone anche un problema di “Italia free”, sicuramente meno drammatico, ma reale. Eppure nessuno fa questo collegamento, non sembra neanche pensabile. Questa impensabilità non è dovuta a fattori oggettivi, ma alla formattazione mentale dei passati decenni di “globalizzazione”. In particolare, le giovani generazioni in tal senso hanno subito un bel lavaggio di cervello attraverso il politicamente corretto. C’è da dire che si tratta di una questione più complessa della pura e semplice occupazione militare dell’Italia da parte di un’altra potenza, cosa che pure è vera. Le due guerre mondiali segnano il crollo della civiltà europea. Consegnarsi agli Usa fu soluzione, che ormai appare temporanea, a questo autentico fallimento di civiltà che ha riguardato non solo l’Italia e la Germania, ma anche le nazioni europee formalmente vincitrici della guerra come la Francia e l’Inghilterra, la quale perse il suo “impero” (in realtà impero in senso classico non lo fu mai) che dovette consegnare all’“impero informale” degli Usa.
Dunque, prima di “aiutare i palestinesi” dovremmo aiutare noi stessi, riconquistando quella sovranità che, seppur parziale, nel passato ci consentiva di intervenire politicamente in un’area che per noi è molto importante in quanto nazione mediterranea. Citavo prima il caso di Sigonella come risultato di una sovranità seppur limitata che ci consentiva di aiutare la causa palestinese in modo ben più che simbolico. Certo, l’ottica nazionale è ristretta, in un periodo di grandi potenze, e comunque l’Italia va vista come un pezzo di un sistema più ampio della civiltà europea poi occidentale, ma in ogni caso una nuova alleanza tra le nazioni europee passa per il recupero della sovranità nazionale, e la fine di quell’obbrobrio chiamato UE. 
L’universalismo occidentale quando entra in crisi mostra il suo vero volto di bieco particolarismo, che non si presenta oggi come nazionalismo, ma come occidentalismo, anche i partiti formalmente eredi del fascismo, come quello della Meloni, sono occidentalisti non nazionalisti, ma anzi sono disposti a sacrificare la nazione ai dettami dell’élites occidentali. Lo stesso vale per la Germania che ha accettato senza fiatare la distruzione del Nord Stream, o la Francia che fa mostra di voler essere protagonista di una guerra contro la Russia, di cui non ha i mezzi, né si capiscono le motivazioni.
La disgregazione del dominio globale occidentale proseguirà. Quando il dominio globale statunitense, fondato sul sistema globale delle basi finanziate dal dominio del dollaro, andrà definitivamente in pezzi, le nazioni europee saranno le prime ad essere sacrificate, anzi questo processo è già iniziato. Allora non ci resterà che rassegnarci a essere polvere della storia, oppure riscoprire la nostra identità. Chi pensa che difendere la cultura e l’identità italiana sia fascista è semplicemente un idiota, o è stato idiotizzato dalla propaganda. Difendere la propria cultura è il presupposto necessario per apprezzare e rispettare anche le altre culture. Nessun autentico universalismo può aversi attraverso l’imposizione delle nostre norme culturali, che noi consideriamo universali, ma per altri popoli tali non sono. 
Scriveva Costanzo Preve in Elogio del comunitarismo:
«Il comunitarismo, così come ho cercato di delinearlo, resta la via maestra all’universalismo reale, intendendo per universalismo non un insieme di prescrizioni dogmatiche “universali”, ma un campo dialogico di confronto fra comunità unite dai caratteri essenziali del genere umano, della socialità e della razionalità. Quando si parla di universalismo, infatti, non si deve pensare a un insieme di prescrizioni, bensì a un campo dialogico costituito da dialoganti che hanno imparato a capire le lingue degli altri, anche se forse non le parlano con un accento perfetto.»
Si arriva all’universalismo passando per le comunità particolari. La socialità dell’essere umano quale “animale politico” (Aristotele)  è fatta così: l’appartenenza al genere umano passa per l’appartenenza a comunità particolari quali la famiglia, l’appartenenza di classe, lo stato, e l’appartenenza ad una determinata civiltà. Quando si disgregano quelle forme più ampie di comunità quali lo Stato e la civiltà, scompare anche il conflitto di classe perché perde il contesto in cui possa svolgersi. La società si trasforma in tanti individui che seppure sono oppressi sono incapaci di trovare un comun denominatore, un comune orizzonte di senso, dato principalmente dalla cultura di appartenenza.
Se vogliamo avere un esempio di quella che Costanzo Preve definiva riconfigurazione gestaltica del pensiero, del pensiero politico, in questo caso, necessaria per superare gli universalismi dominanti, dobbiamo guardare al Pkfr di Zjuganov, l’erede del Pcus, del partito comunista sovieti. È  il secondo partito russo, ha assunto la difesa della cultura, delle tradizioni e della civiltà russa, compresa la religione, pur restando un partito delle classi popolari che recentemente ha svolto una battaglia importante per il ripristino dell’età pensionabile a 60 anni (sic!). Magari questo partito non sarà perfetto, ma ha un ruolo nella società che i residui del comunismo occidentale neanche sognano, ed è la dimostrazione che quel tipo di universalismo affermatosi storicamente nei partiti comunisti è superabile, ed è necessario superare. Ma per quale motivo il Pkfr ha potuto effettuare questa trasformazione? Soprattutto perché la Russia non appartiene all’Occidente. Non sto certo riproponendo di riconsiderare il Pkfr come il “partito guida” secondo un certo internazionalismo comunista, ormai anch’esso definitivamente defunto, ma superare un certo provincialismo occidentale  e guardare maggiormente a cosa si fa al di fuori dell’Occidente, dalla Russia, alla Cina, all’India, all’Iran. In ogni caso il Pkfr resta un modello per il superamento di quell’universalismo che prima o poi si porrà come una necessità.
Voglio chiarire che ciò non vuol dire fare il tifo per la Cina o la Russia, come fanno alcuni gruppi “antimperialisti” a vocazione minoritaria. Noi viviamo in Italia, che fa parte di un più grande insieme che prima era l’Europa e poi è diventato l’Occidente. Quando finalmente arriveremo a considerarci come una civiltà tra le altre, sarà un nuovo giorno, e forse l’inizio del superamento della crisi apparentemente irreversibile in cui versano le nostre società.