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Sull'orlo dell'abisso

di Franco Cardini - 17/10/2023

Sull'orlo dell'abisso

Fonte: Franco Cardini

Quel ch’è accaduto sabato 7 ottobre, per quanto non tutto sia chiaro e molto sia da confermare, lascia agghiacciati. Le duecento persone assassinate mentre partecipano felici a un rave party ci hanno commossi profondamente: andare a una festa e trovarci una fine così spaventosa è indicibile. Per fortuna, viceversa, pare che la questione dei quaranta bambini decapitati a Kfar Ata sia una delle tante fake news che ormai sono divenute un incubo per chiunque cerchi di orientarsi nel dedalo degli avvenimenti: ma su ciò segnalo i due articoli, in differente maniera disincantanti, di Manlio Dinucci e di Enrica Perucchetti. D’altronde, chi ha memoria un po’ meno corta di quella della media degli italiani, ricorderà il 1991 e l’aggressione dell’Iraq di Saddam Hussein all’emirato del Kuwait: allora si parlò di neonati brutalmente uccisi mentre si trovavano nell’incubatrice, e anche allora la cosa si rivelò una bufala confezionata a scopo propagandistico.
L’attacco è stato comunque grave. E molti israeliani si saranno pentiti di aver preso per lunghi anni Hamas alla leggera, anzi, di averlo appoggiato – come Netanyahu fece con l’abituale pesantezza – usandolo come una clava contro al-Fatah al fine si spezzare il fronte patriottico palestinese e indebolire la sua istanza di libertà e di unità.
Quattro parole chiare, comunque, non saranno inutili. E allora andiamo concretamente, brutalmente, all’osso del problema.
Sapevamo che i tempi in cui stiamo vivendo sono duri e che se ne stanno forse preparando altri ancora peggiori.
La crisi ebraico-palestinese dura dal 1948, per quanto avesse già avuto un drammatico prologo lungo almeno una trentina d’anni, dall’indomani delle “paci di Parigi” che nel 1919 dettero l’avvìo a un gioco pirotecnico d’inganni, di tradimenti e di menzogne che da allora ha arrossato il Vicino Oriente e il mondo intero e del quale noi subiamo ancora le conseguenze. Ma da tre quarti di secolo il dramma di due popoli per tanti versi in fondo – quanto meno nelle pur lontane origini – così simili tra loro che si odiano e si contendono un fazzoletto di terra grande quanto una media regione italiana ha avuto modo di tradursi in una lunga, sanguinosa serie di conflitti e di delitti che noi – con tutte le nostre buone intenzioni, le nostre sagge dichiarazioni d’intenti, il nostro pacifismo, la nostra democrazia – non siamo stati in grado non dico di risolvere, ma nemmeno di arginare. O non abbiamo voluto farlo.
Di più: l’impressione alla quale oggi non si può sfuggire è quella di aver perfino sottovalutato la tragedia che si stava consumando poche centinaia di chilometri a sudest da casa nostra. Come abbiamo potuto esser ciechi fino a questo punto?
Eppure ci sono stati momenti – almeno tra la metà degli anni Sessanta e quella degli anni Settanta, prima dell’Intifada – nei quali la pace sembrava dietro l’angolo. Poi, con il crescere del fondamentalismo musulmano, l’ondata del terrorismo, l’urto delle scissioni in seno all’Islam e il radicalizzarsi della stessa opinione pubblica israeliana, tutto è volato in pezzi: frattanto anche il nostro Occidente, dove dall’inizio del nuovo secolo (le “due torri” dell’11 settembre del 2001, i conflitti in Afghanistan e in Iraq e via dicendo) tutto si è aggravato, ha dato l’impressione di star cavalcando lungo una china che potrebbe trasformarsi in un abisso.
Tutti siamo d’accordo sul fatto che Israele ha il diritto di esistere e di difendersi. Ma nemmeno esso può permettersi di agire al di fuori delle leggi internazionali, che non cessano di esistere in tempo di conflitto (se non ci fosse una legge di guerra sarebbe insensato parlare di “crimini di guerra”).
Lo stesso immenso peso della Shoah subìta dal popolo ebraico non può conferire il diritto di agire al di fuori dei limiti imposti dall’umanità.
Ora è dunque il momento di agire – se sapremo farlo – con lucidità, rigore e decisione. Dopo il raid criminale di Hamas, le priorità sono due: lavorare per ottenere la liberazione degli ostaggi in mano ai guerriglieri (possibilmente per mezzo di negoziati diplomatici, per non alimentare la spirale della violenza) ed evitare l’aggravamento del conflitto. A tale scopo Israele – al quale tutti riconosciamo il sacrosanto diritto di difendersi – potrebbe impartire a tutto il mondo un’esemplare lezione di civiltà limitando al minimo possibile la tentazione di dare alla sua risposta il carattere di una rappresaglia e di una ritorsione. Quando tutto sarà passato (il prima possibile, si spera), anch’esso dovrà riconoscere la sua parte di responsabilità nella mancata soluzione del problema palestinese: la politica dei muri di separazione e dei continuamente nuovi insediamenti di coloni israeliani con relativa sottrazione di territori al futuro (possibile?) stato palestinese dev’essere abbandonata, e il progetto “due popoli due stati” dev’essere ripreso con energia e in buona fede reciproca.
Ma oggi si è lontani da tutto ciò. Le azioni del governo israeliano, cioè la scelta dei bombardamenti e l’ultimatum rivolto ai civili affinché abbandonino il centro di Gaza, appaiono ispirate all’esclusiva logica della vendetta. Sgombrare circa 1.200.000 persone e instradarle verso il sud della striscia in poche ore è impossibile e impensabile; d’altronde non si può permettere che il popolo palestinese sia morso tra l’incudine del fuoco israeliano e il martello di quello di Hamas che – in risposta all’ordine israeliano di evacuazione – insiste nell’imporre alla gente di Gaza di non abbandonare le sue residenze: cioè di far da “scudi umani”.
Siamo alla logica del massacro. E, se le guerre sono sempre una cosa infame, una guerra combattuta senza il presupposto dell’aspirazione a una pace sulla base della riconquistata giustizia è semplicemente disumana.
Netanyahu ha dichiarato esplicitamente di voler annientare Hamas. Ma anch’egli deve riconoscere che Hamas e i palestinesi non sono affatto la stessa cosa, né meritevoli di uguale trattamento. Se ciò accadesse, si sarebbe fuori dai limiti della giustizia e della natura umana.
E, allora, come si diceva al tempo della “rivoluzione studentesca” del ’68-’77, “siamo realisti: chiediamo l’impossibile”. Perché questa tragica occasione potrebbe paradossalmente rovesciarsi nel suo contrario, l’avvìo di un’autentica pacificazione. Intendiamoci: io personalmente non lo credo e non ci spero; ma ho il dovere morale di esigerlo e di denunziare come nemici dell’umanità quelli che non vorranno farlo.
Le priorità sono evidenti.
Primo: rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi nelle mani di Hamas (piantiamola con l’ipocrita pregiudizio del “con Hamas è impossibile trattare” e col falso moralismo del “coi terroristi non si scende a patti”: qua non ci sono vergini, qua nessuno è innocente).
Secondo: altrettanto immediato bilaterale “cessate il fuoco”.
Terzo: ritiro delle forze armate israeliane e avvìo di trattative di pace totale sulla base di due condizioni di fondo: esplicito e definitivo riconoscimento da parte araba del diritto (e del dovere) della coesistenza dei due popoli e dei due stati israeliano e palestinese nei confini della pace del 1967, nonché rilascio da parte israeliana di tutti i detenuti e gli ostaggi palestinesi salvo quelli sui quali pendono gravi e comprovate accuse per effettivi crimini commessi.
Quarto: restituzione all’Autority palestinese riconosciuta come base legittima del nuovo stato di tutti i territori in passato illegalmente invasi dai coloni ebrei, con connessa apertura di trattative e di risarcimenti nei casi che ciò appaia impossibile.
Tutto ciò si deve avviare con effetto immediato, senza voltarsi all’indietro; pena il proseguimento e l’espansione del conflitto.
Se ciò non si verificherà nei prossimi giorni, aspettiamoci il peggio.