Tutto è cominciato con il colonialismo, quando iniziammo a far violenza alla Terra
di Amitav Ghosh - 11/12/2022
Fonte: Corriere della sera
Amitav Ghosh, oggi lo scrittore indiano più importante, ha scritto spesso della devastazione della Terra: il fatto di vivere da tanti anni fra New York e la sua Calcutta gli permette di essere anche un osservatore di facce diverse del fenomeno. Nei suoi romanzi (pubblicati in Italia da Neri Pozza) - tra cui la “trilogia dell’oppio” - ha raccontato l’origine del sacco dell’Occidente nei confronti delle ex colonie fra Asia e Africa. Nel nuovo libro, La maledizione della noce moscata, segue la lunga parabola del colonialismo, considerato con la sua furia devastatrice alla base delle conseguenze irreversibili che vediamo oggi sul pianeta rispetto al clima.
Che cosa è la maledizione della noce moscata, e perché l’ha scelta come punto di partenza?
«Avrei potuto scegliere la storia di mille cose diverse che stavano accadendo nello stesso momento. Ma la peculiare storia della noce moscata davvero presentava un’analogia chiara con ciò che avviene oggi. Gli abitanti dell’isola Banda, tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, all’inizio del 1600 avevano questa pianta incredibile che ha portato loro ricchezze e prosperità, fino a quando un giorno ha portato il loro sterminio (ad opera degli olandesi della Compagnia delle Indie orientali, ndr). Allo stesso modo, noi abbiamo questo meraviglioso pianeta, che ci ha anche dato ricchezze di tipi diversi. Ma invece abbiamo seguito un modello economico che ci spinge tutti alla distruzione».
Quando ha scoperto quanto accaduto a Banda?
«Ho letto storie sull’Oceano Indiano per molto tempo, sapevo già ciò che era successo là. Ma andare sulle isole e vedere cosa era avvenuto mi ha fatto riunire le idee in forma narrativa».
Lei cita scrittori e filosofi provenienti da culture diverse, libri più o meno noti di epoche differenti, con cui ha costruito un nuovo modo di vedere lo sviluppo storico.
«Tutto ciò a cui pensavo da anni ha preso forma a causa della pandemia. Mia madre era malata e poi è mancata, e così anche i miei suoceri. New York era simile a Milano e Bergamo. A pochi isolati da casa mia c’era un ospedale con camion frigoriferi per le vittime. Uno sconvolgimento mai visto, che però ci stava dicendo qualcosa sul futuro».
Che cosa?
«Ci ha mostrato che gli impatti sul cambiamento climatico, i loro effetti sulla società, saranno assai diversi da ciò che ci è stato detto. La narrazione consolidata, in Occidente, è che la crisi sarà terribile per i più poveri, “non-bianchi”. Invece sarà sì molto negativo per la povera gente, ma colpirà anche i Paesi ricchi, in modi diversi, con effetti altrettanto devastanti. E penso che se c’è una lezione che dobbiamo imparare da questa esperienza è che le megacrisi richiedono una risposta collettiva. Che non si è manifestata ovunque. L’Italia resta una nazione con una cultura comune, una lingua comune: quando è stato chiesto di fare sacrifici, la gente ha risposto. Non così negli Stati Uniti, che hanno avuto pessimi risultati. E tuttora vivono fra disagio sociale, sfiducia e polarizzazione politica. Idem il Regno Unito. In America la società ha una fede enorme nella tecnologia come fonte di salvezza. Pensavano che il vaccino li avrebbe salvati. Ma dopo che il vaccino è diventato disponibile, la diffidenza sociale ha preso il sopravvento, e ancora oggi la sfiducia è il vettore principale».
Lei retrodata la riflessione sul presente al colonialismo, con l’idea che l’imperialismo, con le sue armi, venga prima del capitalismo come causa della devastazione del pianeta.
«Negli ultimi anni, l’intero discorso sul cambiamento climatico è stato focalizzato sul capitalismo come il principale motore del disastro che stiamo attraversando. Certo, c’è molta verità in questo. Ma allo stesso tempo il nostro capitalismo non è nato da sé, è venuto fuori dal colonialismo che lo ha reso possibile. Le disuguaglianze, specie quelle geopolitiche, sono simili a ciò che esisteva nel XVII secolo. Il dominio globale dell’Europa d’allora corrisponde a quello odierno dell’Occidente».
Quale è stato il momento chiave?
«Quello in cui l’Europa ha conquistato le Americhe. Un evento che ha comportato una violenza su una scala mai vista prima, con la soppressione di 80-90 milioni di persone. Quella violenza ha creato una nuova società. Con l’eliminazione di decine di milioni di persone, ma anche con l’idea di sostituirli con africani schiavi. Un intervento demografico su quella scala non era mai avvenuto, mai».
Una riflessione in tal senso su questo argomento non è ancora avvenuta del tutto.
«Da qui la tentazione di attribuire la realtà d’oggi a sistemi astratti come il capitalismo, compresa la violenza che ha creato quel sistema».
Collegata c’è l’idea che il genocidio dei nativi americani e degli schiavi fosse giustificato dalla convinzione che non fossero completamente umani, e che quindi l’uomo bianco potesse fare di loro ciò che voleva. Proprio come avviene nei confronti della natura. Siamo superiori e padroni: ecco è il pilastro su cui tutto è costruito.
«Se oggi queste idee vivono è grazie all’esperienza coloniale delle Americhe. Poche centinaia di bianchi violentissimi dell’Estremadura scoprirono di poter sterminare centinaia di migliaia di nativi. Così è entrata in testa l’idea di esser simili a Dio, padroni del mondo. Che tutto esista per servirli».
Dove poggia sul piano culturale e filosofico?
«L’Illuminismo è di sicuro legato a questa esperienza. L’idea che gli esseri umani siano al di sopra di tutto. Penso, quindi sono. È da qui che discende quell’incredibile violenza. E infatti diversi pensatori chiave del tempo erano connessi strettamente al colonialismo. Cartesio ha trascorso gran parte della sua vita in Olanda quando questa era il perno del dominio globale. Il filosofo inglese Locke investiva nelle piantagioni e comprava schiavi. Anche Hegel ripeteva che gli africani erano inferiori, senza storia. Mentre parlava di libertà dello spirito».
Nel libro ritroviamo Cristoforo Colombo, che sbarcato nelle Americhe commette atrocità.
«Era un uomo violento e selvaggio, un puro sadico. So che gli italiani non lo ricordano. I nativi delle Americhe invece sì. Il fatto è che gran parte della storia che viene insegnata serve a far sembrare belli l’Europa e gli occidentali».
Lei ricorda anche come dare il nome alle cose, come facevano gli scienziati del ‘700, fosse uno dei modi per dominarle.
«Il sistema con cui Linneo battezzò animali, piante e minerali deriva interamente dal colonialismo. L’idea era avere un sistema che potesse oggettivare le risorse che il mondo offriva. E il sistema linneano ha trionfato non perché fosse il migliore ma perché l’impero spagnolo l’adottò».
A proposito di nessi causali, lei sottolinea come il riscaldamento globale non sia un accidente, ma è la conseguenza centrale del comportamento degli esseri umani.
«Credo sia chiaro come il global warming segua questi modelli. Una delle caratteristiche più marcate del colonialismo è ciò che si potrebbe chiamare “violenza per omissione”. Permettere alle malattie di fare strage. O agli interventi sull’ambiente di provocare disastri contro i popoli nativi».
Noi abbiamo l’idea che i conquistadores non avessero colpa per la diffusione di malattie che hanno sterminato le civiltà americane.
«I nativi-americani sanno da sempre la verità».
Discendiamo dall’Impero Romano, che controllava la Terra conosciuta. Vede un’idea di dominio nella psicologia dell’uomo bianco?
«I romani riconoscevano il potere della natura su di loro. Non se ne consideravano i padroni».
È un problema di potere. Potere politico, rappresentato anche dal potere sull’energia.
«L’energia diventa il perno della geopolitica globale alla fine del XVIII secolo, quando i combustibili fossili che gli inglesi cominciano a usare diventano centrali nelle loro strategie imperiali. E i combustibili fossili sono divenuti importanti perché - a differenza dell’energia dei mulini - potevano essere portati ovunque, quindi controllati».
Cosa le fa pensare che le fonti rinnovabili - a gestione diffusa - possano arrivare a sostituirle? Per le élite significa rinunciare al potere.
«I modelli che ho indicato nel libro, possiamo vederli all’opera oggi. Questa guerra Russia-Ucraina è così centrata sull’energia che l’energia stessa diventa un’arma di guerra da entrambe le parti. Se avessimo rinnovabili su larga scala, il gas russo conterebbe poco, ma questo varrebbe anche per il gas Usa. E non dimentichiamo che esiste il petrodollaro ( il sistema per cui il petrolio è pagato in dollari, ndr): Saddam è stato uno dei primi a iniziare a non commerciare in dollari, e guardi com’è finito. Il Venezuela di Chavez anche, ed è morto per un misterioso tumore. Russia e Cina che si scambiano combustibili fossili non sul dollaro diventano una minaccia per la sua egemonia».
Lei scrive che nei Paesi ricchi si pensa che la crisi climatica sia una preoccupazione tecnica con effetti economici, mentre in quelli poveri è un problema di disuguaglianza e giustizia.
«Se chiede a chiunque in Occidente qual è la posta in gioco con il clima tutti risponderanno che si tratta di ridurre l’impronta di carbonio. Di soluzioni tecniche. Nel Sud globale, se dite a qualcuno cosa pensa di fare al riguardo? La risposta sarà sempre: “Perché dovrei far qualcosa? La nostra impronta pro-capite è ancora piccola rispetto a quella dell’Occidente! Tocca a loro agire. Sono diventati ricchi quando eravamo poveri, a nostre spese. La percezione è di profonda ingiustizia».
Quindi, come se ne esce? Come si può arrivare alla decarbonizzazione necessaria al pianeta?
«C’è solo un modo: che l’Occidente riduca le emissioni cambiando stile di vita. Fino a quando ciò non accadrà qui, non accadrà da nessun’altra parte. È la cruda realtà».
Lo ritiene davvero possibile?
«L’abbiamo visto in Cina, con l’enorme calo della domanda dei consumatori. Lì, come in India, la gente ancora ricorda com’è vivere in modo più frugale. Toccherà agli occidentali imparare a farlo».
a cura di Edoardo Vigna