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Un potere minaccioso da combattere

di Stefano De Rosa - 09/06/2022

Un potere minaccioso da combattere

Fonte: Italicum

La sfida referendaria aperta nel 2021 da Partito Radicale e Lega è un’occasione imperdibile per ricondurre un distorto potere giudiziario nell’alveo costituzionale e per rimuovere sacche di consociativismo eversivo. Il 12 giugno corriamo alle urne per saldare azione politica e volontà popolare e porre termine a trent’anni di follia giacobina

 cinque “sì” per una “giustizia più giusta”

 Gli insegnamenti di Montesquieu, grazie ai sei referendum sulla giustizia (nel frattempo ridotti a cinque dalla scure della Corte Costituzionale) depositati unitariamente in Cassazione da Partito Radicale e Lega nel giugno 2021, possono sperare di vedere difesa quella separazione delle funzioni essenziali dello Stato (esecutiva, legislativa e giudiziaria) tratteggiata nell’Esprit des lois, ma da trent’anni calpestata dall’aggressione della Magistratura militante e dallo speculare arretramento di una politica incapace di fronteggiarla. È su questa iniziativa di democrazia diretta prevista dall’art. 75 della Costituzione che intendiamo prendere le mosse per le nostre riflessioni. Ma un passo indietro è necessario.

 IL “SISTEMA” PALAMARA

 Ad inizio 2021, il caso editoriale fu rappresentato dall’intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara, intitolato “Il Sistema”. Nel libro, l’ex presidente dell’Anm ed ex consigliere del Csm getta luce sulle ombre dei meccanismi segreti che sovrintendono al mercato delle nomine e alle negoziazioni delle carriere dei magistrati. Così come sulle alchimie e sugli intrighi nei palazzi del potere giudiziario italiano posti in essere per promuovere inchieste o insabbiarne altre, pilotare accanimenti investigativi, processi, sentenze di assoluzione o di condanna e per compiacere un certo modo di gestire la giustizia a senso unico (quello – per dirla con Palamara – dell’egemonia culturale della sinistra giudiziaria) distorcendone, attraverso lo strapotere correntizio del sindacato delle toghe, equilibrio ed imparzialità.

 L’installazione nel maggio del 2019 di un virus informatico, il cosiddetto trojan, da parte della Procura di Perugia nel cellulare dell’ex zar delle nomine, nell’ambito di un’indagine avviata su di lui nel dicembre 2017, fa emergere il “sistema” che regola il funzionamento e le connessioni tra Magistratura e politica. Un “metodo” – fatto di relazioni, frequentazioni, promozioni, trasferimenti, siluramenti – del quale Palamara per una dozzina di anni è stato l’indiscusso riconosciuto regista e che relegava le audizioni del Csm a semplici pro forma.

 Salvo poi, una volta rese pubbliche le intercettazioni di mail, chat e colloqui telefonici compromettenti, ritrovarsi solo, disconosciuto da tutti, soprattutto – ovviamente – dai suoi numerosi ed autorevoli beneficiati. Unico ed utile capro espiatorio, modello Craxi. Perché al “sistema”, dal di dentro, non ci si può opporre. Un libro che non ha determinato il grave discredito del quale oggi soffre la Magistratura; ma che ha contribuito almeno a spiegarlo e giustificarlo, e a far prendere coscienza ai lettori e all’opinione pubblica dell’allontanamento dal modello orizzontale, diffuso dell’ordine giudiziario tratteggiato in Costituzione e dell’approdo a quello verticale, gerarchico, centralizzato (e forse eversivo) del quale l’ufficio del pubblico ministero rappresenta la pericolosa sintesi.

 Un sistema, dunque, distorto basato sul potere asimmetrico delle Procure, unico caso al mondo di ufficio privo di responsabilità, in cui il pm (peraltro capo della polizia giudiziaria) gode di indipendenza, autonomia ed inamovibilità, ma finisce per non rispondere a nessuno del suo operato. Non ha responsabilità, ma ha un enorme potere. “Non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e con i colori della giustizia”. Con tale significativa citazione di Montesquieu si chiude il clamoroso caso editoriale del 2021, seguito quest’anno dal secondo volume intitolato “Lobby e Logge”.

 Non deve stupire, allora, che l’8 giugno 2021 la Procura generale della Cassazione abbia chiesto al Csm la conferma della radiazione di Luca Palamara dalla Magistratura. Un processo per connivenze con la politica concluso nell’ottobre 2020 a tempo di record (si parlò di “turbo-processo”), con sentenza di condanna “già scritta” e votazione “bulgara”, nel quale – sia detto per inciso – non furono ammessi 133 testi indicati dall’autore del “Sistema”. Testimonianze che, se rilasciate, avrebbero determinato la cacciata di molti giudici e soprattutto pm nominati e promossi in tutti i gangli delle strutture giudiziarie con un metodo superficialmente denominato dal giornalismo collaborazionista al servizio delle Procure “metodo-Palamara”. Una radiazione confermata dalle Sezioni unite civili della Cassazione nell’agosto del 2021.

 UNA POLITICA SOTTO RICATTO

 Il clima che ha incrinato irreversibilmente il rapporto fiduciario tra Magistratura ed opinione pubblica è stato esasperato dalle vicende tratteggiate nel libro; tuttavia l’incontrollabilità del potere giudiziario risale semmai al funesto triennio 1992-94, l’era di “mani pulite”, e al frutto politico più velenoso che quell’epoca lasciò in eredità: la legge costituzionale n. 3/1993 che abrogò l’istituto dell’improcedibilità contro i parlamentari, senza la previa autorizzazione a procedere. La nuova formulazione dell’art. 68 della Costituzione fu l’atto di sottomissione di una politica fragile che in quell’inferno giustizialista non ebbe la forza di opporsi allo strapotere giudiziario e che con quella norma sottoscrisse la sua abdicazione alla piena sovranità. Da allora i rapporti di forza non hanno fatto che sbilanciarsi ulteriormente.

 Difficile, quindi, pensare che le storture all’interno della Magistratura e dei suoi organi di vertice possano essere corrette da una autoriforma o da un intervento del Parlamento. Ancor meno ipotizzabile che improbabili risoluzioni di un potere politico impotente (dal 2018, per giunta, in larga parte succube del fascino delle toghe) o di quello giudiziario possano produrre benefici al popolo. Tuttavia la Magistratura vive, come detto, periodi di sbandamento e di crisi di fiducia.

 Ne costituisce un significativo esempio la clamorosa richiesta di informazioni inoltrata lo scorso anno dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo al governo italiano sulle modalità con le quali la Cassazione nel 2013 condannò Berlusconi, sul relativo godimento di un equo processo e sull’imparzialità del giudice che l’ha condannato. Lecito per la CEDU fu il sospetto che i giudici non sarebbero stati imparziali, non avrebbero applicato la legge, ma avrebbero espresso il giudizio basandosi sulle loro convinzioni politiche essendo – come sostenuto dallo stesso Palamara – condizionati da certi ambienti della Magistratura associata a fini di favore politico.

 L’unica concreta e credibile riforma della giustizia può allora giungere, sebbene circoscritta ad alcuni particolari aspetti ordinamentali, attraverso l’altra modalità legislativa prevista dal Costituente, lo strumento referendario. Proprio in un momento, dunque, nel quale il tessuto delle toghe inizia a palesare qualche scucitura è politicamente propizio ed opportuno sollevare il velo della credibilità e del prestigio di un sistema giudiziario corroso.

 LA GHIGLIOTTINA DELLA CONSULTA

 Una precisazione, al proposito. Nel mancato accoglimento da parte della Corte Costituzionale del quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati, quello di maggior richiamo e trascinamento alle urne, è possibile ravvisare un assist corporativo alle toghe, alle loro gerarchie, ai loro orti conchiusi. Ciò che più sconcerta, tuttavia, è il perché il medesimo quesito fu dichiarato ammissibile dalla Consulta nel 1987 (votato con una partecipazione superiore al 65% e con una prevalenza dei Sì pari ad oltre l’80% dei voti espressi, poi tradito dalla successiva legge Vassalli nel 1988), ma bocciato dalla stessa Corte nel 2022. Qualcosa non quadra.

 L’unica spiegazione potrebbe poggiare sul fatto che il biennio 1986-1987, con il caso Tortora ancora caldo, non aveva conosciuto il fenomeno di “Mani pulite” ed il relativo tentativo di realizzare un regime change per via giudiziale. Oggi, vigente ancora il “Terrore” giudiziario instaurato nel biennio 1992-1993, la Consulta ha avuto buon gioco nel ghigliottinare, tra i sei proposti, il quesito più mediatico e accreditare attraverso l’informazione compiacente i rimanenti, comunque pericolosi, come tecnici e difficili.

 I CINQUE QUESITI

 Questo, in sintesi, il contenuto dei quesiti. Il primo riguarda le elezioni del Csm e lo strapotere dell’associazionismo. Per tagliare le unghie alle degenerazioni correntizie è necessario modificare i criteri per l’elezione dei magistrati a Palazzo de’ Marescialli. Le regole vigenti prevedono, per chi voglia candidarsi, la raccolta di un numero di firme tra le 25 e le 50; un obiettivo facilmente conseguibile soltanto con l’appoggio determinante di una corrente. Il quesito referendario vuole abrogare il vincolo delle firme e così colpire la patologia correntizia.

 Il secondo attiene alla responsabilità diretta dei magistrati. Il successo del quesito permetterebbe al cittadino leso da una sentenza errata di chiamare in giudizio direttamente il magistrato e così, dopo trentacinque anni, riparare alla beffa del cosiddetto “referendum-Tortora” sostenuto e vinto nel novembre 1987 con l’80,21% di Sì (e il 65,11% dei votanti), ma aggirato da una successiva legge (la n. 117/1988, o legge Vassalli) la quale sotto forti pressioni della Magistratura al Parlamento delegittimò il voto popolare prevedendo la responsabilità diretta dello Stato e solo quella indiretta del magistrato.

 Il secondo si occupa della equa valutazione dei magistrati. Nel Consiglio direttivo della Cassazione e nei Consigli giudiziari (i piccoli Csm nei distretti), dove si valuta la professionalità delle toghe, oggi non possono prendere parte avvocati e professori universitari; l’intento del referendum è quello di prevederne invece la partecipazione. Una riforma che consentirebbe di esprimere una valutazione di professionalità e qualità anche in relazione all’esito e alla tenuta dei processi nei gradi successivi. Il numero esorbitante di innocenti in galera, il numero di procedimenti che si chiude perché “il fatto non sussiste” e la contestuale percentuale, pari a circa il 99%, di valutazioni positive conferite alle toghe dimostrano che la matematica mal si coniuga alla meritocrazia e alla trasparenza, ma spesso all’appartenenza alla lobby correntizia più attrezzata.

 

Il terzo, cruciale, riguarda la separazione delle carriere tra giudici e pm e l’instaurazione di due distinti Csm, uno per la funzione giudicante, l’altro per quella requirente. Qui ad entrare in gioco è addirittura la terzietà del giudice, così come sancita dal principio costituzionale dell’equo processo (art. 111). Intercettazioni, sequestri, misure cautelari, rinvii a giudizio sono provvedimenti disposti dai pm, ma chi li convalida è un giudice. Il libro-confessione di Palamara ha chiarito che le Procure hanno acquisito una connotazione politica e rispondono ad interessi extra-istituzionali. Gli inquirenti ormai scelgono le indagini da fare e quelle da insabbiare. Il rapporto tra richieste dei pm e relativi accoglimenti da parte di gip o gup dimostra che la loro funzione di controllo giurisdizionale delle indagini semplicemente non esiste, con percentuali che sfiorano il 100%.

 La spiegazione potrebbe, forse, risiedere nel fatto che le sedi nelle quali si esprime l’indirizzo politico del potere giudiziario (Csm, Consigli giudiziari, Anm) ed in cui, molto prosaicamente, interessi, trasferimenti e promozioni dei togati trovano le loro stanze di compensazione, risultano egemonizzate numericamente dal partito dei pm. Non a caso negli ultimi trent’anni l’Anm è stata pressoché sempre presieduta da un pubblico ministero. Quindi è proprio la mancanza di autonomia (e di terzietà) del giudice a pregiudicare l’attendibilità delle sentenze e a costituire un pericoloso vulnus di equilibrio democratico dei poteri e di garanzia dei cittadini al quale il quesito referendario intende porre rimedio.

 Il quarto intende limitare gli abusi della custodia cautelare, per evitare che il carcere preventivo si trasformi in un ingiusto anticipo della pena; una prassi che viola il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Occorre, cioè, superare il giustizialismo manettaro di Travaglio & Davigo, per il quale gli innocenti sono colpevoli non ancora scoperti.

 Il quinto quesito auspica l’abolizione del decreto Severino, norma che, in caso di condanna per determinati reati, prevede la sanzione accessoria della incandidabilità a parlamentare, consigliere o presidente regionale, sindaco o amministratore locale; se abrogata, cesserebbe l’automatismo della pena (filiazione differita, ma sempre in linea diretta della stagione giacobina intrapresa trent’anni fa), che invece sarebbe affidata alla decisione, caso per caso, del giudice.

 LE CRITICHE PRETESTUOSE

 Due sono state – e costituiscono tuttora – le principali direttive di critica che da un anno e mezzo (dall’inverno 2021) hanno accompagnato il percorso di questa complessa iniziativa referendaria: da una parte la frammentarietà degli argomenti e l’asserita sovrapposizione ad un tragitto di riforme intrapreso dal nuovo corso avviato a Via Arenula. Dall’altra lo scetticismo suscitato dall’impegno della Lega giudicato opportunista.

 Sul primo punto siamo convinti che i referendum non possano costituire un intralcio al riformismo giudiziario del governo. Stante la composizione parlamentare scaturita dal voto politico del 2018, non è una sorpresa che la cosiddetta riforma Cartabia sia stata snaturata; non certo per la concomitante scadenza referendaria quanto per la persistente natura giustizialista del connubio Pd-M5S. Ben venga allora il fecondo stimolo di un voto popolare sostitutivo e non ausiliario del potere legislativo.

 Sull’altro rilievo, ci permettiamo di osservare che da un punto di vista costituzionale il referendum, quale fonte di diritto, rappresenta la “seconda scheda” a disposizione del popolo per esercitare la sua sovranità, per farsi a suo modo legislatore. Stigmatizzare la condivisione del fronte referendario tra Lega e Partito Radicale dimostra di ignorare che simili iniziative sono per loro natura trasversali. È la stessa logica binaria che consiglia, anzi impone, il superamento delle appartenenze politiche. Ed è la storia del referendum che lo insegna. Fornirne una lettura viziata dalla geografia politico-parlamentare o ideologica è riconoscersi prigionieri di quella presunta superiorità morale che ha condotto alle disfunzioni narrate da Palamara.

 

A proposito di alterità morale, da stigmatizzare, semmai, è la posizione del Partito democratico che su questi temi referendari ha registrato una presa di posizione davvero sconcertante del suo segretario, per il quale essi sarebbero solo “un modo per fare lotta politica”. Una ipotesi che al Nazareno evidentemente si guardano bene dal praticare, preferendo agire da fiancheggiatori delle toghe. D’altra parte, il Pd – partito-stato, partito-apparato, partito-poltronificio, partito-garante delle burocrazie europee, presidio politico dell’insegnamento gramsciano sull’egemonia culturale – è il riferimento parlamentare della Magistratura militante, quello cioè dove maggiormente si registra il fenomeno delle cosiddette porte girevoli tra politica e giustizia. Sarà solo una coincidenza o propaganda della controrivoluzione.

 UN POTERE MINACCIOSO DA COMBATTERE

 La gravissima minaccia del presidente dell’Anm di considerare i referendum radical-leghisti una intollerabile valutazione del gradimento dell’operato della Magistratura e la relativa invocazione di una “ferma reazione” della stessa Associazione – tradotta poi nello sciopero, il 16 maggio 2022, contro la cosiddetta pagella dei magistrati, rivelatosi un flop – non solo tradiscono il timore per il giudizio del popolo sul verminaio raccontato nel libro, ma mostrano – fatto forse ancora più grave – di misconoscere che il referendum costituisce un bilanciamento istituzionale del potere del Parlamento voluto dall’Assemblea Costituente. La Magistratura organizzata che invoca la mobilitazione contro la volontà popolare: a questo potere totalitario è ridotto il sistema giudiziario italiano.

 Non sembri un paradosso, ma il porsi – con questi referendum – in posizione dialettica rispetto alle istituzioni rappresentative consentirà all’elettore di correggere a favore della politica un potere sbilanciato verso una certa Magistratura ricattatoria e priva di controlli e di riconciliare così volontà popolare e azione politica. Ponendo fine a trent’anni di giacobinismo giudiziario, abbandonando la costituzione reale e tornando a quella scritta.