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Una parabola comune

di Luciano Fuschini - 20/07/2019

Una parabola comune

Fonte: Il giornale del Ribelle

Da tre quarti di secolo una traiettoria comune segna il percorso di tre grandi nazioni, Giappone, Germania e Italia. Si tratta di un parallelismo tanto sorprendente che meriterebbe maggiore attenzione. Sono le potenze dell’Asse, sconfitte nella guerra mondiale. Uscirono distrutte dal conflitto. Città sventrate dai bombardamenti a tappeto, anche con ordigni al fosforo su Germania e Giappone e con bombe atomiche sul Giappone. Ponti, strade, infrastrutture demoliti. Potenziale industriale quasi azzerato.
Ebbene, proprio quei tre Paesi nei decenni successivi furono i protagonisti di uno spettacolare “miracolo economico”, che li pose fra le maggiori potenze economiche del mondo. In quelli che ora sono chiamati “i Trenta gloriosi”, i decenni della prosperità e dello sviluppo impetuoso, tutto il mondo che convenzionalmente chiamiamo “occidentale” fece registrare una grande crescita, ma il vero e proprio “miracolo” fu quello di Giappone, Germania e Italia. Vero è che Germania e Italia usufruirono del piano Marshall e che il Giappone a sua volta poté contare su massicci prestiti per la ricostruzione, forniti da quegli Stati Uniti che avevano raso al suolo l’arcipelago, tuttavia quegli investimenti produssero effetti grandiosi perché c’era la volontà di ricostruire, una coesione nazionale, una fiducia nell’avvenire, disponibilità al sacrificio e al risparmio, in una parola c’erano valori morali e civici.
Oggi Giappone, Germania e Italia detengono il record mondiale di denatalità. Sono nazioni in estinzione. Il fenomeno è in genere spiegato con motivazioni di ordine sociologico. Non si fanno figli per la crisi economica, per l’allentamento dei legami parentali, per la carenza di scuole materne, per la precarietà e la mobilità del lavoro. Tutto vero, ma più per l’Italia che per Giappone e Germania. Tutto vero ma non sufficiente a spiegare questa sorta di suicidio programmato di intere nazioni. I decenni di boom economico hanno determinato quella mutazione antropologica che Pasolini aveva intravisto già negli anni ’70. Consumismo, individualismo, mentalità fortemente competitiva, narcisismo. Intere generazioni educate all’idea che ciò che conta è l’affermazione di sé, l’efficienza del corpo, l’apparenza, il godersi la vita, la libertà come assenza di vincoli e di doveri verso la collettività. Il tessuto sociale fatto di solidarietà parentale, di radicamento nel territorio, di rispetto dei ruoli e di assunzione delle rispettive responsabilità, si è prima sfilacciato e poi dissolto. I figli sono un peso e un costo, limitano la libertà di viaggiare, di curarsi di sé, di divertirsi.
Il fenomeno è comune al mondo occidentale ma tanto più appariscente proprio in quelle nazioni che con più successo erano entrate nell’età dell’abbondanza e meglio avevano assimilato il modello dei loro vincitori, gli Stati Uniti d’America. Avere tradito la propria cultura, le proprie tradizioni, l’avere divelto le proprie radici, in una crescita economica dapprima consentita dall’energia morale di popoli sconfitti ma ancora vitali, poi degenerata in consumismo, è la causa profonda del processo di estinzione in atto. La mentalità del “siamo al mondo per goderci la vita” è ai fini della preservazione e del rafforzamento della comunità più devastante della bomba atomica. Il lusso è il vero fattore di decadenza dei popoli. Riaffermarlo, seguendo le denunce dei grandi saggi dell’umanità, oggi espone all’accusa di moralismo.
È inutile sperare in una rivoluzione, è inutile affidarsi a un Comandante. La maledizione è stata scagliata. Niente e nessuno potranno revocarla.