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Il libro della settimana: Richard R. Wilk, Economie e culture

di Carlo Gambescia - 05/04/2007

Il libro della settimana: Richard R. Wilk, Economie e culture. Introduzione all'antropologia economica, Bruno Mondadori 2007, pp. 264, euro 13,00

Che cos’è l’economia senza la cultura e la politica? Nulla. Ad esempio, quante volte capita di sentir parlare di “filosofia aziendale”, del consumatore, eccetera. Il che indica, quanto sia viva l’idea, proprio tra la gente comune, che l’economia non nasce e si sviluppa nel vuoto. L’uomo qualunque, chiamiamolo pure così, è un essere sociale e culturale che sente spontaneamente il bisogno di riferimenti etici. Ma anche la necessità di un potere politico, capace di garantire, attraverso la legge, la libertà di tutti, dall’imprenditore al suo dipendente.
Si dirà: ecco le solite banalità sociologiche. Visto che storia dell’Occidente mostra a sufficienza come la libertà economica, abbia radici culturali nel cristianesimo. Va però ricordato che la marcia del mercato non è stata così solitaria e travolgente, come oggi asserisce il pensiero liberista. Si pensi solo all’abrogazione delle famose Corn Laws (leggi sul grano), per cui lottarono i liberisti inglesi nella prima metà del XIX secolo. Che richiese successive e mirate politiche legislative e sociali. Cosicché le riforme liberiste furono frutto non tanto della mano invisibile del mercato, quanto di quella visibile dello Stato. E, comunque sia, l’apertura del grande mercato inglese dell’Ottocento, padrone di tutti i mari, presuppose, la preventiva e graduale conquista militare dell’India e un altrettanto preventivo cambiamento culturale di mentalità, e in senso liberale. Il che, se ci passa l’espressione, non fu proprio un passeggiata, perché vi furono conflitti sociali e politici. Insomma, la cultura ha la sua importanza e i suoi tempi.
L’abbiamo presa da lontano per una ragione: oggi l’immagine prevalente è quella del mercato come Deus ex machina: una specie di divinità, calata dal cielo, due o tre secoli fa, per renderci tutti ricchi e felici. Il che è vero, ma è semplicistico. Come abbiamo cercato fin qui di spiegare.
Di sicuro, lo spiega molto meglio di noi Richard R. Wilk, in un libro finalmente ristampato ad alcuni anni dalla sua prima apparizione in Italia: Economie e culture. Introduzione all’antropologia economica ( Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 264, euro 13,00). Peccato che l’editore italiano non abbia potuto tenere conto della seconda edizione americana, da tempo in preparazione, uscita anch’essa nel 2007 (scritta con Lisa Cliggett, Westview Press,). Che contiene un nuovo capitolo sull’economia del dono e una bibliografia aggiornata.
Il sottotitolo lombrosiano non deve scoraggiare il lettore. Il testo di Wilk, il quale insegna antropologia economica all’ Indiana University, e di grande chiarezza, e tra l’altro è tradotto molto bene. E poi a dirla tutta, l’antropologia dai tempi di Cesare Lombroso ( per carità, studioso eccellente) ne ha fatta di strada. E, sostanzialmente, oggi, si occupa dei comportamenti culturali dell’uomo. Lasciando agli studiosi di antropometria il compito di misurare i crani.
Il libro di Wilk è interessante per due ragioni.
In primo luogo, perché smonta - ed è proprio il caso di usare questo termine - l’idea che il mercato nasca dal nulla. E che il ruolo della politica sia residuale. Wilk ricostruisce molto bene come l’idea di un uomo dedito solo ad acquistare e scambiare beni, sia frutto di una concezione razionalista, volta a ridurre le persone al solo agire economico, perché più facilmente misurabile… Wilk, sembra invece accettare, la visione di Amitai Etzioni, importante pensatore comunitarista americano: “il fulcro della società sono le istituzioni e non gli individui”. Prima vengono la famiglia, la comunità locale, le associazioni private e pubbliche: istituzioni che sono il sale di ogni “buona economia”, anche di libero mercato Gli uomini agiscono, non come macchine calcolatrici, ma sulla base “di giudizi morale e sociali” E, soprattutto, come “membri di determinate categorie, invece che come individui autonomi”. Di qui l’importanza della politica, come decisione e partecipazione. E della cultura, in particolare quella morale, come sfondo per qualsiasi tipo di azione umana. Poiché è solo dal giusto mix tra cooperazione e competizione che può svilupparsi una società ricca e sana. Gli estremisti di ogni tipo sono perciò avvisati.
In secondo luogo, il libro è fitto di esempi su come in concreto lavori l’ antropologo dell’economia. E su quanto sia importante per la politica, disporre non solo di dati economici sul funzionamento del mercato, ma anche sui presupposti culturali dalle scelte fatte dalle persone. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Wilk racconta di una sua ricerca, commissionata dallo Stato della California, per verificare i diversi criteri impiegati dalla popolazione per far fronte all’eccessivo consumo energetico domestico. Bene, dopo avere circoscritto un campione rappresentativo e intervistato le famiglie, Wilk si accorse, che le maggioranza delle persone, non si comportava assolutamente secondo criteri freddamente ragionieristici, come invece pretendono certi economisti. Perché? Alcuni intervistati non avevano neppure l’idea di quando spendessero in consumi energetici. Altri rifiutavano l’offerta statale di procedere alla coibentazione degli ambienti domestici per ridurre i consumi energetici, solo perché consideravano non consona al proprio stile di vita la riduzione dei consumi di aria condizionata. Altri ancora non capivano che cosa si chiedesse loro: se c’era da fare manutenzione, riparazione, miglioramenti… Il che poteva provocare grande disagio e tensione con le autorità. Di qui la necessità di una successiva informazione (“culturale”) mirata alle famiglie.
Sappiamo benissimo, che qualche lettore penserà: le solite “americanate”… In realtà, al di là, del dato canonico, forse folcloristico, dell’antropologo che va a intervistare con penna, blocchetto e registratore. Oppure dell’ennesima conferma - importante - sul comportamento spesso economicamente irrazionale dell’uomo c’è un problema serio: di documentazione per la politica. Alla quale spetta sempre la decisione finale. Un’ “arte”, quella delle indagini sociali, in cui gli Stati Uniti, rispetto all’Italia, sono avanti di decenni. E allora, visto che li imitiamo in tutto, perché non iniziare seriamente a imitarli anche in questo campo?