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La nullità arrogante della Bocconi

di R. C. - 05/04/2007

 
 
 
Università Bocconi di Milano

Un lettore, che ringraziamo, ci manda una testimonianza vissuta sull'università Bocconi, una delle più ridicole contraffazioni italiane della «modernità»; lì tutto è un trucco, come gli ultimi scudetti nel calcio.
Ultimamente hanno chiamato a tenere una lezione il noto Briatore, quello del «Berlusconi è un uomo che ho imparato molto…».


In «Selvaggi col telefonino» Blondet tratteggia in modo magistrale e fulminante «l'archetipo dell'italiano, che nonostante il telefonino, l'auto fuori serie e la laurea alla Bocconi rimane sempre uno zappatore. Dalla mancanza di rigore mentale e in un secondo momento morale, emergono gli unici attuali interessi: il sesso, il mangiare, i capi griffati e il calcio. Estraneo all' arte, alla cultura, al pensiero, alle attività umane alte che costituiscono la civiltà, con fiducia totale nei venditori di amuleti e imbonitori del pensiero, il selvaggio impone il suo stile: maleducazione, rozzezza, vile violenza e svaccata ineleganza».
Scrive anche della «nullità arrogante della Bocconi».
Ebbene, vorrei descrivere brevemente la mia personale esperienza dell'Università Bocconi, che - ahimé! - ho avuto la sventura di frequentare.
Quanto segue può forse essere un'utile voce alternativa per quei giovani che si stanno orientando alla scelta universitaria.
Mi sono laureato qualche anno fa con il massimo dei voti e lode in «economia aziendale».
Pur tuttavia ho conservato sempre viva l'impressione di aver subito una grande fregatura.
Se quello che Blondet descrive è l'archetipo dell'italiano, tale è precisamente il tipo umano che la Bocconi intende forgiare ed incoraggiare.
Non dico ovviamente che tutti i suoi laureati siano così, ma il tipo umano medio che più frequentemente si incontra lì dentro, dal professore all''ultima delle matricole è esattamente quello che Blondet definisce il «fellah», con l'aggravante dello snobismo, poiché il bocconiano presume di possedere in più rispetto al compaesano ignorante un titolo di studio di particolare prestigio.
Che sia questo l'uomo più adatto ad imporsi oggi sul mercato del capitalismo globale, marcescente e terminale?
A giudicare dai brillanti risultati conseguiti dal'economia italiana si direbbe proprio di sì.
Ma procediamo dunque con  ordine.
Innanzitutto, è da dire che alla base della scelta dei giovani di frequentare la Bocconi stanno una serie di motivazioni apparentemente razionali, ma in realtà profondamente condizionate da un'attentissima campagna di immagine e di marketing, che è probabilmente l'unico punto di eccellenza dell'università, la quale, come tutti gli «esamifici» della penisola, ragiona più che altro in termini di profitti, ricavi, costo del prodotto.
Come ben noto il marketing forte compensa un prodotto debole o al più mediocre.
Hanno così creato negli anni il mito di un'università di tipo americano, stile campus.
Alla Bocconi però il campus è virtuale.
Solo a guardare le strutture fisiche del complesso universitario cascano le braccia: casermoni di cemento armato da paesaggio urbano periferico, strutture asettiche, assenza di spazi verdi dove poter giocare a baseball o anche al più familiare calcetto.
Intorno alla Bocconi c'è solo il «parco Ravizza», non proprio frequentato dalle elites, soprattutto al calare del sole.


Molti credono ancora che si tratti di un'università esclusiva, adatta ad un ceto di privilegiati, con elevati contenuti formativi e - cosa non di poco conto al giorno d'oggi - in grado di piazzare i propri laureati nei migliori posti manageriali del mondo nel giro di poche settimane.
Anche io, stolto, ci sono cascato, benché fossi uscito da un ottimo Liceo classico ed avessi profondi interessi culturali, nonché una naturale inclinazione allo studio.
Ma questo è quanto: spinto dalla famiglia, a sua volta influenzata dal marketing strisciante, mi ritrovai a tentare il test di ingresso ed ebbi la sventura di passarlo.
All'epoca almeno il test appariva selettivo.
Poi si trasformò rapidamente in una farsa e l'università si orientò verso il gigantismo strutturale, che contrasta ictu oculi con la qualità dell'insegnamento.
Ora mi dicono che non c'è più neppure il test per quanti si iscrivono alla laurea triennale.
Lo svacco italiota finale.
Immediatamente ebbi una sensazione fortemente negativa.
Le strutture fisiche stesse dell'università, del più gelido razionalismo, mi incutevano però un senso di malessere, un istintivo desiderio di fuga.
Volevo rinunciare, ma credevo ciecamente anch' io nel prestigio dell'università.
Mi resi conto dopo qualche mese che l'ateneo aveva esattamente tutti i difetti di un'università di massa italiana.
Semplicemente costava molto di più.
Le classi erano sovraffollate, almeno per i corsi fondamentali (gli unici che meritassero poi di essere frequentati) tipo matematica, statistica, economia politica.
Il contatto con i «luminari» dell'economia era altrettanto distante e distaccato che in qualsiasi università baronale italiana.
La disorganizzazione è quella tipicamente italiana: code su code, burocrazia inefficiente, per dare un esame fissato alla mattina alle 9 si doveva spesso attendere sino alle 18.00, perché lorsignori gli economisti e manager del c., dovevano dimostrare l'incolmabile distacco tra loro e quella pletora indistinta di postulanti che sbavava per fare l'esame.
Mi capitò perfino una volta che un «professore» non mi lasciasse fare l'esame perché invece di aspettare prostrato in aula il mio turno me ne ero andato fuori a ripassare: in tal modo, secondo sue testuali ed indimenticabili parole «avrei messo in atto un comportamento opportunistico».
Insomma, tutte le angherie ed i mezzucci per avvilire l'individualità degli studenti, omologarli al più cieco conformismo, all'ideale «homo oeconomicus» non pensante, sedotto dai soli valori materiali, obbediente all'«autorità».
Il servo noachico per eccellenza.
Aggiungasi che spessissimo le lezioni erano tenute da grigi assistenti appena laureati, a stento capaci di recitare a memoria la lezioncina.


Il contenuto dei programmi era mediamente peggiore di quello di altri atenei.
Esami importanti come «Politica economica» e «Scienza delle finanze» erano accorpati in uno solo, con un derisorio librettino scritto da qualche assistente neo laureato per conto del professore.
Si lasciava ampio spazio a materie del tutto fumose ed inconsistenti quali «Ecologia e sicurezza dell'azienda industriale».
Un laureato poteva uscire dall'università quale «dottore in economia aziendale» senza aver mai dato un esame di matematica finanziaria (sic!).
C'erano però circa 20 indirizzi, tra cui il povero studente doveva scegliere dopo solo un anno e mezzo: doveva subito sapere se preferiva diventare governatore della Banca d'Italia o della Federal Reserve (in tal caso era meglio facesse economia politica), oppure si vedeva più adatto a fare il manager rampante e in tal caso andasse a fare l'aziendale.
Così i programmi risultavano spezzettati, incoerenti, ripetitivi.
Non parlo dei libri di testo, spesso scritti da illetterati, con sconvolgenti errori di sintassi, linguaggio oscuro per nascondere pensieri talvolta di una banalità infantile.
Non parlo dei modelli matematici sgangherati e mai funzionanti nel mondo reale (ma questo è un difetto della «scienza economica» in generale), delle matrici per prendere le decisioni.
Roba da ridere.
E così di delusione in delusione, benché il mio disgusto fosse a livelli elevati, tenni duro per cinque anni nella beata speranza di uscire e di trovare un buon posto di lavoro.
Anche per fare l'esame di laurea l'ultima terribile coda.
I posti per iscriversi erano stati limitati da un'insensata circolare interna: non più di x bocconcini per appello di laurea.
Per non essere rimandato all'appello successivo mi misi in coda alle cinque di mattina davanti al computerino che raccoglieva le iscrizioni.
E poi finalmente la laurea, il discorso delle autorità, una specie di cerimonia massonica con grandi frasi ed incoraggiamenti a perseguire la «missione», premiazione e medaglia d'oro per i migliori laureati (tra cui io, mi vergogno quasi a dirlo), insomma la grande beffa finale.
Pago di questi trionfi cominciai a cercare un lavoro.
E qui il mito si infranse!
Sembrerà quasi incredibile ma con quella laurea, pur conseguita magna cum laude ed in corso, non riuscii a trovare lavoro.
Feci decine di colloqui presso banche, società di consulenza, aziende: niente.
Non riuscii ad inserirmi neppure attraverso l'ufficio «placement» della Bocconi.
Niente di niente.

Dopo anni di sacrifici e di salate rette sborsate da mia madre, non certo miliardaria, nulla di nulla!
Anzi, l'ufficio «placement» fu particolarmente scortese e scoraggiante.
Arrivarono a dirmi, dopo diverse volte che mi presentavo da loro CV alla mano: «Ma come, lei pretende di trovare un posto? Ma lo sa ormai quanti bocconiani ci sono, sono come carne da cannone?».
Testuali parole.
Dopo i colloqui non mi davano neppure una risposta: a volte mi dicevano che ero troppo qualificato (sic!) a volte mi facevano strane domande, come mi capitò in una banca d'affari anglo-ebraica: del tipo «Che cosa avrebbe la nostra banca a temere da Lei?».
Rimasi alquanto sconcertato e mi chiesi subito se non avrei dovuto fornire la risposta in codice di qualche loggia massonica.
Altre volte mi dicevano che non ero sufficientemente specializzato, che era necessario fare un master da 40.000 euro, magari di nuovo alla Bocconi, per dare un taglio più specialistico alla mia formazione (ma come, se avevo già fatto un indirizzo specialistico?), che oggi vige la specializzazione, che la semplice laurea non basta più.
Mi resi allora conto che il titolo di laurea in sé in quelle istituzioni finanziarie che avrebbero dovuto essere il naturale sbocco del laureato bocconiano, valeva molto meno (nel mio caso non è servito anzi a nulla) senza i soliti appoggi, raccomandazioni, affiliazioni, fratellanze, appartenenze etnico religiose e quant'altro.
Tutto quello che riuscii a rimediare fu uno stage semestrale in una banca.
Finito quello vi fu un'altra offerta di un altro stage in un'altra banca a 400.000 lire al mese nel '97 - '98.
A quel punto indignato rifiutai.
Mi feci coraggio e ripresi gli studi in un'università statale.
Grazie alla seconda laurea, conseguita con nuovi sacrifici della mia famiglia ormai quanto me esterrefatta, riuscii a trovare un buon lavoro.
Ma tutto questo mi aveva logorato, condotto oltre i trent'anni e con un sovraccarico di fatica psico-fisica inimmaginabile.
Rimpiango amaramente di non aver impiegato quelle energie giovanili per studiare materie serie e «vere», le materie di sempre e di non essermi orientato subito ad una professione vera, quelle di sempre, quelle nelle quali occorre «saper fare» qualche cosa.
Al limite credo che sia molto più utile alla sopravvivenza, anche nel mondo attuale, la filosofia tomista o la lettura di Dante piuttosto che l'accozzaglia di nozioni indistinte che la Bocconi spaccia per «scienza».


Eh già, la «scienza» del bottegaio che si è dato una teoria, confortato dalla statistica e nobilitato dalla matematica.
La caricatura della vera scienza.
Tuttavia per essere un buon bottegaio non è necessario studiare all'università, basta l'istinto, che nessuna laurea può dare.
Vi sono bottegai che con la terza elementare hanno creato imperi economici.
E i bocconcini fanno appunto una laurea per studiare come uomini in possesso della terza elementare siano riusciti a crearsi imperi di tal fatta.
La cosa rasenta il ridicolo, ma molti continuano a cascarci.


R. C.