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Si prepara un nuovo scontro fra Georgia e Ossetia del sud

di Giulietto Chiesa - 16/04/2007

 



 

Tzkhinvali (Ossetia del Sud) - Lo stanzone è disadorno e polveroso, ma grande. Annesso alla biblioteca cadente. Esercizi di ballo, ma non è rock. Si chiama Simd ed è la danza nazionale degli osseti, del nord e del sud. Fa freddo e non c'è riscaldamento. Sono una ventina, metà maschi, più due fisarmoniche e una batteria. Una danza in punta di piedi, a passi brevissimi e movenze di straordinaria delicatezza su un ritmo frenetico.

Tra i diciotto e i venti, hanno votato tutti al referendum. Hanno votato tutti per l'indipendenza, e tutti per Eduard Kokoity, il presidente della Repubblica indipendente dell'Ossetia del Sud.

Tzkhinvali è la capitale di questo stato, “inesistente” per l'Europa e per il mondo. Ma che esiste, eccome, per la Russia. Che lo sostiene “al 102%”, commenta un amico russo. “Pari e patta - ironizza uno dei miei accompagnatori ossetini – non è forse vero che Saakashvili e tutto il suo governo sono pagati dal governo americano?”

Saakashvili è infatti il presidente della Georgia, da cui l'Ossetia si è staccata, probabilmente per sempre, nel 1990.

Sedici anni fa arrivai per la prima volta qui. Era l'inizio del 1991, quando già scorreva il sangue per le vie di Tzkhinvali e nei 230 villaggi stesi tra la pianura e il versante sud delle imponenti vette del Caucaso. Il presidente Zvjad Gamsakhurdia, appena eletto quasi per acclamazione prima ancora della fine dell'Unione Sovietica, aveva deciso che la Georgia doveva essere solo dei georgiani. I primi morti caddero il 6 e 7 gennaio del 1991. Tutti giovani. Tzkhinvali ha tanti cimiteri, molti più di quelli che spetterebbero di diritto a una popolazione di 70 mila abitanti, ora ridotta a meno di 30 mila.

Gamsakhurdia fu cacciato dopo aver perduto due regioni autonome, appunto l'Ossetia del sud e l'Abkhazia. Venne Shevardnadze, l'ex ministro degli esteri di Gorbaciov, e gli toccò di fare un'altra guerra, contro Tzkhinvali e contro Sukhumi. Ma le perdette entrambe. E non solo perché ossetini e abkhazi sono gran combattenti, ma perché Mosca è intervenuta. Per proteggere i fratelli, ma anche per dare una lezione ai georgiani.

Sono passati 16 anni da quella mia esperienza di inviato speciale della Stampa, quando, dopo aver visto i morti di qua, passai la linea del fuoco e andai a intervistare l'assassino dall'altra parte. Questi ragazzi che ballano il Simd avevano cinque o sei anni. E hanno vissuto la loro giovinezza in questa città ancora quasi senza lampioni, con voragini al posto delle strade, che si riscalda con il gas russo, dove le pensioni arrivano dall'Ossetia del Nord, la repubblica sorella che sta sull'altro versante delle montagne più alte d'Europa. Non è cambiato niente, salvo che i cimiteri si sono moltiplicati. Ti raccontano di stragi di cui noi non abbiamo saputo e sentito nulla. L'Ossetia non fa notizia. Lungo la strada che porta al valico, oltre 2000 metri d'altezza, mi mostrano il luogo di uno degli eccidi del 1992. Trentasei persone, civili in fuga verso il nord, massacrati da un commando di Shevardnadze.

Poi anche l'ex capo del KGB georgiano fu costretto a scappare, rovesciato da Saakashvili, un avvocato che parla americano. E nel 2004 ecco la terza guerra. E, ancora una volta, gli ossetini hanno resistito, con molti morti e feriti. Per altro l'esercito georgiano non aveva ancora acquisito le armi che, con l'intermediazione americana, gli arrivano ora dalla Repubblica Ceca, dalla Bulgaria, dalla Macedonia. Adesso pare siano arrivati anche gli elicotteri di fabbricazione russa, “regalati” a Mikhail Saakashvili dalla ex repubblica sorella di Ucraina, ora guidata – non si sa per quanto – dall'ex leader della rivoluzione arancione, Jushenko.

La prossima guerra sarà dunque più sanguinosa delle altre. Perché ci sono pochi dubbi, guardando il livello di preparazione militare degli ossetini, che loro si aspettano brutte nuove.

Infatti stanno costruendo a ritmi forzati la “via della vita”, una deviazione della strada che porta al valico e che consente loro di evitare il passaggio dei rifornimenti attraverso i sette villaggi georgiani che si frappongono tra la pianura e le montagne. Del resto due dei personaggi che ho potuto incontrare a Tzkhinvali, il presidente Kokoiti e Boris Ciociev, il negoziatore che rappresenta l'Ossetia del Sud nella SKK (la Commissione mista di controllo quadrilaterale, delle due Ossetie, con Russia e Georgia, e la supervizione dell'OSCE), fanno parte di un elenco di 13 persone che il ministro degl'Interni georgiano, Merabishvili, parlando in tv il 25 novembre 2005, ha promesso di “o fargli pagare i crimini commessi o di toglierli dalla faccia della terra”.

Mi offrono il te nei loro gabinetti modestissimi.

Sembrano tranquilli e io li guardo e penso che, magari, tra qualche mese… Ecco perché il KGB dell'Ossetia del Sud non li perde di vista un solo attimo, e gl'ingressi dei modesti palazzi del governo di Tzkhinvali sono tutte chiuse a chiave. Si fa presto a percorrere i due chilometri che separano l'ultimo posto di blocco ossetino dalla piazza centrale dell'antica città – mi dicono orgogliosi – fondata dall'imperatore persiano Asparukh. E che si chiamò Stalinir fino al 1964. Il povero Krusciov l'ebbe vinta, in Ossetia del Sud, dopo avere destalinizzato la Russia, solo poche settimane prima di essere deposto da Leonid Brezhnev.

Ma, per andare al mercato – pieno di babushke georgiane che vengono dai villaggi nemici a vendere frutta e verdura – devo passare per la via Stalin e per la Via Lenin, mentre mi spiegano che Stalin stesso non si chiamava Dzhugashvili, ma Dzhugaty, e non nacque a Gori, come forse molti georgiani (non tutti) vorrebbero dimenticare, ma in un villaggio ossetino che gli ossetini rivendicano con orgoglio.

Incontro un altro gruppo di ragazze e ragazzi, altra ventina, nel “Centro per lo studio della democrazia”. Sembra uno scherzo, e non lo è, trovare un posto come questo, molto bene organizzato e arredato, dentro un palazzo cadente come tutti gli altri. A differenza dei danzatori di Simd, che avevo colto di sorpresa, questi mi aspettavano. Ma sono preparati. Non vogliono tornare in Georgia. Una ragazza bionda si alza e spiega: “ho perduto madre e padre nel massacro del 1992. Avevo tredici anni. Cosa pretendete da noi, voi europei?” C'è anche una ragazzina georgiana. Anche lei è per l'indipendenza. Lei è nata qui e vuole restare fuori dalla Georgia. Ma – chiedo – voi volete l'indipendenza? Qualcuno si ferma qui. Ma la netta maggioranza ha un obiettivo chiaro: prima l'indipendenza, poi la riunificazione con l'Ossetia del Nord. Che vuol dire l'ingresso in Russia.

Possibile? Molto difficile, per non dire impossibile. Ma la risposta di questi giovani, che sono nati senza discoteche, e senza comsumi, che hanno studiato e mostrano passione civile, è uguale a quella che mi darà poco dopo l'anziano presidente del Parlamento, Thorez Gheorgevic Kolumbekov, colui che andò a trattare a Mosca con Mikhail Gorbaciov e poi a Tbilisi con Gamsakhurdia, e fu arrestato mentre negoziava: “Noi siamo legati alla Russia. Non siamo russi ma è la Russia la nostra patria, la nostra madre, come l'Ossetia del Nord e la nostra sorella. Migliaia di osseti giacciono nei campi russi della Grande Guerra Patriottica e scarponi tedeschi non hanno mai calpestato il suolo dell'Ossetia”.

I russi si vedono poco. Dalle finestre della stanza dove ho dormito sentivo ogni notte il rombo possente delle colonne di blindati che andavano a dare i cambi nei punti misti di controllo, dove stanno fianco a fianco, disarmati, accanto a georgiani e osetini.

Ma è una commedia. Tutto attorno le armi ci sono e sparano spesso. Impossibile controllare un confine frastagliato dove tra un villaggio ossetino e georgiano corrono mille sentieri che in tempo di pace erano battuti ogni ora e adesso sono coperti d'erba. La SKK si riunisce a ogni morte di papa e non può decidere niente. L'ultima volta si sono visti per pochi minuti a Istanbul, il 21 e 23 marzo, appena prima che i rappresentanti di Tbilisi si alzassero perché non volevano firmare nessun documento.

Infatti si prepara lo scontro. Saakashvili – mi dicono – sta armando 2000 riservisti nuovi di zecca. E chiede a gran voce di entrare in Europa e nella Nato. “E noi non vogliamo che il popolo di Ossetia sia diviso in due campi opposti”, dice Eduard Kokoity. E se la Nato accetta la Georgia che cosa succederà? “Brutte cose, la guerra, perché le truppe della Nato si troveranno a contatto con i soldati russi. E i russi sono nostri fratelli e ci aiuteranno. E lo stesso accadrà in Abkhazia. L'Occidente sta commettendo un errore grave. Non riconosce la nostra esistenza e contrappone l'intangibilità delle frontiere al diritto dei popoli all'autodeterminazione. Io penso che la pace e la sicurezza dell'Europa non devono essere messe a repentaglio per soddisfare i nostri oppressori”.

Mi chiedo, ma non chiedo, perché non mi daranno risposta, quanti uomini armati ha Kokoity. Qualcuno mi ha sussurrato 600, un migliaio, forse duemila. Certo non sono molti, anche se non sono soli. Ma l'Ossetia del Sud è una moneta sul grande tavolo europeo, e mondiale, come lo è l'Abkhazia, l'Oltrednestr, il Nagorno-Karabakh, la Crimea, il Kosovo. E nessuno sa chi e come giocherà queste monete.