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Imparate a conoscere le culture altrui. Intervista al presidente siriano Bashar al-Assad

di Bashar al-Assad/Reese Erlich - 18/04/2007

"Più delegazioni impegnate nell’incontro di altre culture, e nel dialogo in generale"
Sebbene in passato il Presidente Assad era stato visto come un potenziale riformatore, più recentemente è stato oggetto di aspre critiche per la sua gestione dei dissensi interni e dei conflitti internazionali, tra cui la guerra in Libano. Nell’intervista con Reese Ehrlich di Mother Jones, Assad ha discusso di questi argomenti e ha messo in guardia dai pericoli di un eventuale attacco Usa all’Iran

Da diverso tempo, agli occhi di Washington, la Siria è il paese che in un qualche modo finanzia il terrorismo, che si schiera a favore dell’Iran e contro Israele. La realtà è probabilmente un po’ più complicata.

Il Presidente siriano Bashar al-Assad ha collaborato con gli Stati Uniti nei mesi successivi all’11 settembre. Il suo Paese è tuttora interessato ad una risoluzione del conflitto iracheno, anche perché ad oggi la Siria ospita più di mezzo milione di rifugiati iracheni.

Sebbene in passato il Presidente Assad era stato visto come un potenziale riformatore, più recentemente è stato oggetto di aspre critiche per la sua gestione dei dissensi interni e dei conflitti internazionali, tra cui la guerra in Libano. Nell’intervista con Reese Ehrlich di Mother Jones, il Presidente Assad ha discusso di questi argomenti e ha messo in guardia dai pericoli di un eventuale attacco Usa all’Iran.

Anzitutto, Ehrlich ha chiesto l’opinione di Assad sulla presunta intenzione dell’amministrazione Bush di rovesciare il governo siriano.

Bashar al-Assad: Sono solo chiacchiere, nient’altro che chiacchiere. Io posso solo parlare dei fatti. E vorrei rivolgere un messaggio fondamentale a chiunque intendesse destabilizzare la Siria: così facendo toglierebbe stabilità all’intera regione, perché noi ne siamo la valvola di sicurezza.

Mother Jones: La valvola di sicurezza?

BA: Proprio così, la valvola di sicurezza della regione.

MJ: E come funzionerebbe questa valvola?

BA: In modo politico. La storia della Siria, il suo ruolo nella regione, i rapporti instaurati con i paesi vicini, i legami sociali, ideologici e gli interessi che ci legano alla regione. Tutto ciò funge da collante per l’intera area.

MJ: Presidente, lei ha detto che in passato la Siria ha cooperato con gli Stati Uniti nel fornire notizie utili a sventare azioni terroristiche, come quelle di al-Qaeda e altri. Ci spieghi meglio e ci dica quando è terminato questo rapporto di collaborazione.

BA: In effetti, avevamo iniziato a collaborare con gli Stati Uniti, sulla scia degli eventi dell’11 settembre. Abbiamo contribuito a sventare più di sette ipotesi di attacco di al-Qaeda contro gli Usa. Ma tutto è terminato nel marzo del 2005. In primo luogo, a causa di errori compiuti dagli Stati Uniti. E la politica estera Usa si è rivelata nel suo complesso piuttosto ostile alla Siria.

MJ: E quali sarebbero stati questi errori?

BA
: Superficialità di tipo tecnico, che hanno impedito il proseguimento della collaborazione.

MJ: Nel frattempo Washington acuì le pressioni in merito al ritiro delle truppe siriane in Libano e al caso Hariri. Ciò ha inasprito i rapporti?

BA: Senz’altro.

MJ: Pensa che l’amministrazione Bush attaccherà l’Iran con la scusa della proliferazione delle armi nucleari?

BA: La sua è solo una domanda ipotetica. Ma se vuole che le risponda alla luce della logica e degli interessi che legano la regione, gli Stati Uniti e tutto il mondo, direi che non sarebbe una buona mossa. Il prezzo da pagare sarebbe altissimo.

MJ: Quali sarebbero le conseguenze se gli Stati Uniti cercassero di imporre in Iran delle sanzioni o addirittura uno sciopero dell’esercito?

BA: Le sanzioni non servirebbero a niente. Lo dico guardando ad esempio alla storia dell’Iraq e di molti altri paesi. Sanzioni, azioni militari o qualsiasi altro mezzo per destabilizzare la regione avrebbero l’effetto di destabilizzare l’intero Medio Oriente. La vera domanda è: quali sarebbero le conseguenze sul mondo se fosse il Medio Oriente ad essere destabilizzato?

MJ: Se così fosse, l’Iran potrebbe reagire in modi diversi. Per esempio, contrariamente a quanto accade finora, Teheran si potrebbe coordinare con i suoi sostenitori in Iraq per attaccare le forze americane. Ha sufficiente influenza sugli Hezbollah per mettere benzina sul fuoco. Ritiene questi potenziali esempi di destabilizzazione?

BA: Credo che la domanda dovrebbe essere girata agli iraniani. Per quanto riguarda me, le conseguenze potrebbero avere un impatto molto più profondo. Consideri l’Iraq, e vedrà che lì non ha senso parlare di fazioni, partiti o gruppi. Si tratta di una questione ben più profonda. Lì c’è il caos, il caos totale, e così rimarrà in futuro.

MJ: Di recente il Presidente Bush ha fatto una visita fuori programma a Baghdad. Al-Zargawi non c’è più da tempo. Pensa che l’amministrazione Bush stia cercando di comunicare una volontà di far progressi in Iraq? O crede che comunque gli Stati Uniti abbiano già perso definitivamente la loro guerra?

BA: Perdere la guerra e fare progressi sono due concetti correlati, quindi serve chiedersi qual è il vero obiettivo. Se lo scopo è instaurare la democrazia, allora la risposta è ovvia. La situazione è peggiorata di molto rispetto al passato, perfino rispetto ai tempi di Saddam – che noi in Siria non abbiamo mai sostenuto. Se si considera il punto di vista della qualità di vita, dello sviluppo, delle infrastrutture, non si può non notare che tutto sta andando a rotoli. Ogni cosa è peggiore ora. Quindi, bisogna vedere qual è lo scopo reale della guerra – tralasciando il concetto di occupazione, perché quello è solo un mezzo. È mietere vittime ogni settimana, americane o irachene che siano? A questo serve la guerra, anche da un punto di vista militare? Non credo proprio. Per noi il giudizio è lampante.

MJ: Ma anche da un punto di vista strettamente militare, gli Stati Uniti in Iraq hanno perso il controllo di alcune aree strategiche. La loro autorità è precaria, anche nel sud e nell’area di Basra. Insomma, la situazione per gli americani è peggiorata complessivamente, non pensa?

BA: Certo, è ovvio. Nessuna potenza militare, nemmeno quella americana, può imporre il proprio controllo in un paese. Lo si può fare solo se la gente del posto te lo permette. Quando un popolo occupato ti si rivolta contro – ed è assolutamente normale che accada in Iraq come in qualsiasi altro paese – non si hanno possibilità di controllo. È così che funziona.

MJ: Come vede il contesto da qui a qualche anno? Pensa qualcosa cambierà in Iraq?

BA: Se si vuole parlare dell’avvenire dell’Iraq, bisogna tener presente che dovrà esserci un consenso su qualcosa, e che il suo futuro dovrà essere considerato all’interno della sua costituzione. Da tutte le delegazioni irachene che abbiamo ricevuto finora in Siria abbiamo sentito solo lamentele riguardo al trattato costituzionale. Alcuni ritengono ad esempio di esserne oppresse, e ne vogliono una revisione. Senza consenso sulla costituzione, si avranno solo conflitti, che non è escluso possano dar luogo prima o poi ad una guerra civile vera e propria. Da parte nostra, sosteniamo i processi di cambiamento politico, ma non ci si deve fermare a questo. Queste sono soluzioni a breve termine, nel lungo periodo si dimostreranno insufficienti.

MJ: Ho saputo da alcune fonti che lei Presidente è interessato a promuovere le negoziazioni tra la resistenza sunnita e il governo. È una notizia vera?

BA: In verità, quello che cerchiamo di promuovere è un Iraq unificato. Questo è il nostro unico obiettivo. Prima cerchiamo di individuare i possibili punti di convergenza tra tutte le comunità del paese, poi tentiamo la via del negoziato. In sostanza, sostenere progetti che, anche secondo gli stessi iracheni, possano promuovere l’unificazione dell’Iraq o che aiutino il Paese a mantenersi unito. È così che si gioca il nostro ruolo.

MJ: Ma, più concretamente, lei ha agevolato i colloqui tra la resistenza – cioè coloro che si schierano contro gli Stati Uniti – e il governo iracheno?

BA: In realtà, non sappiamo se coloro che vengono in visita presso di noi siano o meno degli oppositori. Sono iracheni. E nessuno sa, perché solo gli iracheni stessi lo sanno, da che parte stanno. Quindi, se qualcuno le dice di sapere da che parte sta un iracheno, non gli creda [ride]. Certo, c’è da dire comunque che gran parte degli iracheni che abbiamo incontrato sono dalla parte degli oppositori, almeno politicamente.

MJ: State cercando di agevolare nel paese le negoziazioni con il governo?

BA: Sì, noi lo abbiamo ribadito, siamo pronti a collaborare in qualsiasi modo. Lei intende, ad esempio, attraverso dibattito e conferenze?

MJ: Sì, o vere e proprie negoziazioni per risolvere i contrasti politici.

BA: La Siria è stata ed è assolutamente disponibile a questo genere di accordi.

MJ: Di recente c’è stato un attacco alla spiaggia di Gaza, Hamas ha interrotto il suo cessate il fuoco con Israele. Sembra che in Palestina si stiano riaccendendo le ostilità. Cosa pensa succederà a breve?

BA: Dal nostro punto di vista, è una questione che riguarda i palestinesi, una faccenda umanitaria. Noi li consideriamo nostri fratelli; credo che i palestinesi stiano innanzitutto pagando il prezzo del Trattato di Oslo del 1993 e quello di una paralisi nel processo di pace – soprattutto dopo le negoziazioni del 2000 a Camp David e il conseguente punto di non ritorno della questione mediorientale. Da parte sua, l’amministrazione americana ha condotto con negligenza il processo di pace.

MJ: Vorrei farle alcune domande sulla situazione qui in Siria. Partiamo da quella lettera Damasco-Beirut i cui 13 firmatari sono stati poi arrestati. Ci può spiegare come e quando potrebbero essere rilasciati?

BA: In realtà, la lettera in questione è stata scritta da un gruppo di libanesi che incitavano gli Stati Uniti ad occupare la Siria. Hanno prestato la loro collaborazione a stilarla, e ciò è considerato un atto di tradimento. Secondo la legge siriana, in questi casi ci si deve presentare in tribunale, e infatti così è andata.

MJ: Quindi verranno accusati, formalmente?

BA: Non so, dipende dal giudice. Direi comunque di sì.

MJ: Quindi il loro rilascio non è imminente?

BA: Non direi. Di fronte al giudizio di un tribunale, nessuno può ottenere scappatoie.

MJ: Alcuni curdi in Siria rimangono senza cittadinanza. Parlando di cifre, alcuni dicono che sono 70.000, altri ben 300.000. Sono venuto a sapere di una legge che riconoscerebbe loro la cittadinanza siriana, ma che manca la sua firma. È esatta questa notizia? Se sì, come se ne può uscire?

BA: È una lunga storia; risale al 1962, quando molti immigrati curdi dai paesi limitrofi vennero in Siria per sfuggire ai conflitti. Diciamo che furono commesse alcune “imprecisioni” nelle procedure, che causarono problemi sociali e che in seguito vennero strumentalizzate per fini politici. Quindi, abbiamo deciso di risolvere il problema estendendo il riconoscimento della nazionalità siriana a tutti i membri delle famiglie. Non è ancora stata messa la firma perché siamo in attesa di ricavare da certi documenti il numero esatto delle persone – chi è fratello di chi, chi è venuto in Siria e quando, e altri dati del genere. Sono questioni tecniche, non politiche.

MJ: Mi sa quantificare all’incirca di quante persone stiamo parlando?

BA: Lei stesso ne ha dato risposta nella sua domanda quando parlava di 300.000 o di 70.000. Qualcuno dice anche 100.000. È necessario essere più precisi; se non lo siamo, rischiamo di peggiorare le cose.

MJ: Quella di cui stiamo parlando è anche una questione politica. I curdi in altri paesi sono forze instabili. Gli Stati Uniti vogliono sfruttare la questione curda a proprio vantaggio. In questa faccenda esiste o meno una componente politica oltre che tecnica?

BA: Secondo il nostro punto di vista?

MJ: Sì.

BA: Alcuni lo vedono come un argomento politico, altri si spingono oltre e strumentalizzano la questione. In realtà, è una questione sociale. Non la consideriamo una faccenda politica perché noi in merito non abbiamo problemi. Chi è siriano è siriano. Chi non lo è, non lo è. Come accade ovunque altrove. Chi non è siriano o torna nel proprio paese o vive in Siria come residente, non come cittadino.

MJ: L’anno scorso in un articolo pubblicato dal New York Times lei affermava di essere al lavoro per una legge multi-partitica, pronta nel giro di un paio d’anni. A che punto è il progetto?

BA: Prima di tutto serve avviare un vero e proprio dialogo fra le parti. Anche se non abbiamo mai avuto una legge multi-partitica, non significa che non abbiamo un sistema multi-partitico; stiamo emanando leggi più moderne, per permettere ai partiti di godere di maggiore libertà. Aprire un dialogo è di primaria importanza per definire il futuro della Siria. Ci vorrà almeno un altro anno perché le parti possano dialogare e definire la struttura portante di tutti i futuri accordi. Dopo questa fase, si potrà decidere. Sarà un dialogo che interesserà l’intera nazione, non il solo governo.

MJ: La fase del dialogo è già iniziata?

BA: No. Per il momento stiamo radunando le idee. Non inizieremo a confrontarci finché non riceveremo argomenti di riflessione dai partiti e dai gruppi di intellettuali. Quando avremo qualcosa in mano faremo proposte, che saranno il punto di partenza del dialogo nazionale.

MJ: E ha idea di quando comincerà questo dialogo su scala nazionale?

BA: Quando la Siria non riceverà più pressioni dal mondo esterno, quando potremo finalmente prenderci il tempo necessario.

MJ: Quindi le pressioni di Bush non fanno altro che ottenere l’effetto inverso?

BA: Certo. Non viviamo isolati da quello che succede nella nostra regione. Risentiamo dei problemi di chi ci sta intorno.

MJ: State pensando di ridelineare i confini con il Libano o di istituire delle ambasciate nel paese dei cedri?

BA: In merito alla prima domanda, le posso dire che abbiamo ricevuto una lettera ufficiale dal Primo ministro libanese, alla quale abbiamo risposto affermando la nostra volontà di occuparci dei confini fra i nostri due paesi. Non c’è nessun problema per noi, se ne avessimo no ci muoveremmo. Se prende l’ambasciata come concetto, nessuno può dire di non volere un’ambasciata in un altro paese, ma a monte è necessario che fra i paesi ci siano dei rapporti stabili. Ad oggi, i nostri rapporti con il Libano non sono così buoni, quindi la questione per noi è rinviata.

MJ: Che tipo di questioni devono essere risolte prima di poter dire di avere dei buoni rapporti?

BA: Prima di tutto, non avere un governo che non fa gli interessi del suo popolo. Poi, i siriani devono potersi fidare dei propri vicini, senza temere che nel paese accanto sia un covo di terroristi pronto all’attacco.

MJ: Sta alludendo al tentato attacco terroristico alla TV siriana. Pensa sia stato promosso da forze esterne, dal Libano?

BA: Direi di no. Quell’attacco in particolare non è stato attuato da un altro paese; in realtà, tutto nasce da una questione interna, che comunque trova le sue origini nei conflitti dei paesi vicini, soprattutto per quanto riguarda l’Iraq. È il risultato di quello che accade oggi in Iraq.

MJ: Politicamente parlando, chi erano le forze coinvolte? Le conosce?

BA: Intende il gruppo?

MJ: Sì.

BA: Solo il gruppo?

MJ: Di che gruppo si trattava?

BA: Terroristi. Estremisti. In realtà, molti dei gruppi che rintracciamo nelle nostre indagini da ormai due anni si sono formati in reazione a ciò che vive l’Iraq oggi, in reazione alla guerra. Gruppi jihadisti. Pensano che gli Stati Uniti abbiano occupato i paesi islamici, ed è per questo che vi si oppongono, così come si scagliano contro tutti quelli che non la pensano come loro e che non si comportano come loro.

MJ: Un’ultima domanda: che cosa contribuirebbe a migliorare i rapporti Stati Uniti-Siria? Che iniziative/provvedimenti potrebbero essere presi?

BA: Sicuramente l’iniziativa dovrebbero prenderla gli Stati Uniti, non la Siria. Noi abbiamo già fatto molto. Non abbiamo raggiunto granché perché non c’era volontà da parte loro. Per prima cosa dovrebbero conoscere e capire la situazione nella nostra regione, apprezzare il nostro ruolo. Dovrebbero capire gli interessi che abbiamo in comune. Dovrebbero affrontare le nostre cause con un atteggiamento imparziale. Solo così riusciremmo a recuperare il rapporto che ci contraddistingueva.

MJ: Vuole specificare meglio rispetto alle vostre cause Presidente?

BA: Sì, certo. La questione che ci sta più a cuore è quella della nostra terra occupata, l’altopiano del Golan; gli Stati Uniti dovrebbero capire che noi siriani vediamo tutto attraverso la prospettiva di questa occupazione. Se non si avvia un processo di pace per recuperarla, è difficile che i nostri rapporti possano migliorare.

MJ: Nient’altro che voglia aggiungere? Un messaggio agli americani?

BA: Penso che dopo la pesante lezione dell’11 settembre – pesante non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo – dovreste pensare di iniziare a conoscere meglio cosa succede al di là dell’oceano, nel resto del mondo in generale. Ci dovrebbero essere più delegazioni impegnate nell’incontro di altre culture, nel dialogo e nella conoscenza in generale.

 

Fonte: Mother Jones
Traduzione a cura di Anna Pietribiasi per Nuovi Mondi Media