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Dâr Fûr (VII)

di Miguel Martinez - 21/04/2007

 

La mistificazione del Darfur non sta nell'orrore che si vive lì, ma nell'immaginario mediatico occidentale.

La mistificazione consiste, primo, nel distacco totale di un unico punto dal suo contesto, che è quello della tragedia complessiva che scorre da Mogadiscio fino ad al-Zwara, il porticciolo libico da cui tutto si riversa in mare: solo la scorsa estate, secondo le incerte statistiche ufficiali italiane, tremila morti per fame, sete o annegamento tra lì e Lampedusa.

Secondo, la mistificazione consiste nell'invenzione di spiegazioni menzognere o fuorvianti a ciò che succede nel Darfur.

La spiegazione menzognera dice che i musulmani stanno sterminando i nostri fratelli cristiani.

In realtà, tutti gli abitanti del Darfur sono musulmani, e anche sunniti e senza particolari differenze settarie.

La spiegazione fuorviante dice che gli arabi stanno sterminando i neri.

I termini, come vedremo vengono effettivamente usati. Solo che al Mediatizzato Medio italiano, fanno pensare a qualcosa come libanesi contro ghanesi.

Ora, non c'è dubbio almeno su una cosa: tutti gli abitanti del Darfur sono uniformemente neri di pelle e - secondo chi ci è stato - anche indistinguibili in termini di tratti somatici.

Matrimonio di "arabi" Baggara

Forse riusciamo a capire meglio, se partiamo dalla considerazione che in Darfur ci sono circa ottanta diverse popolazioni. Certamente tutte più diverse tra di loro, di quanto i giovani macdonaldizzati di Palermo lo siano oggi da quelli di Dublino.

Siccome si fa fatica a impararsi a memoria ottanta nomi, i vari gruppi vengono raggruppati a loro volta in vari modi.

Uno di questi raggruppamenti distingue appunto "arabi" da "neri". Qui troviamo anche gli echi dell'unico censimento su basi etniche della storia sudanese, quello del 1956: ognuno poteva scegliere a che tribù apparteneva, ma le tribù stesse venivano arbitrariamente raggruppate in poche categorie, tra cui "arabi".

Questi termini non indicano né il colore della pelle e nemmeno la lingua.

La lingua, infatti, si definisce attraverso la scolarizzazione di massa: gli ortodossi e i cattolici dei Balcani sono diventati "serbi" e "croati" quando i maestri di scuola hanno insegnato loro alfabeti diversi. Oggi, nel Darfur, circa un terzo dei bambini frequenta la scuola elementare, ma anche a loro manca tutto il contesto che ci obbliga in ogni momento a leggere e quindi identificarci con una lingua.

Certamente, tutti i darfuriani vedono nell'arabo del Corano l'unica lingua culturalmente degna, e quasi tutti conoscono qualche forma di arabo; mentre nella pratica, ognuno parla un proprio dialetto, che si può basare sull'arabo oppure su lingue non arabe.

Però i darfuriani passano facilmente da una lingua all'altra, secondo il contesto, come quella famiglia di Rom che conosco che ha smesso di parlare albanese in casa e si è messa a parlare in serbo, a causa dell'espulsione dei Rom dal Kosovo. La stessa famiglia parlava tranquillamente il romanè con altri parenti e seguiva la televisione turca.

In realtà, i termini "arabo" e "nero" indicano una genealogia: pensiamo a quei lunghi elenchi di nomi che troviamo nell'Antico Testamento e che sembrano oggetti alieni in un libro su cui noi abbiamo proiettato varie filosofie universaliste di tutt'altra origine.

La genealogia è un bene prezioso in particolare tra le culture nomadi, perché chi non ha un posto, ha comunque dei parenti; e chi non ha libri, sviluppa una memoria prodigiosa per ricordarseli e ritrovarli.

Queste genealogie assumono la forma di lunghi testi recitati, spesso nel contesto di complessi poemi epici, in cui ognuno traccia la propria collocazione, risalendo - come in Somalia - fino ad Adamo.

Gli etnologi hanno scoperto che le genealogie in realtà cambiano continuamente, in funzione delle alleanze e dei conflitti.

L'antenato di una popolazione confinante, che ieri era solo il fratello di un trisnonno, viene promosso a fratello del nonno quando le due popolazioni diventano alleate.

Una parte degli abitanti del Darfur rivendica genealogie arabe, cosa che permette anche al più misero cammelliere di presentarsi come discendente di qualche cugino del Profeta.

La genealogia non solo è una creazione artificiale, ma non coincide con le divisioni linguistiche.

Ci sono, infatti, comunità come i Berti che parlano l'arabo, ma non rivendicano una genealogia "araba".

Le comunità del Darfur non sono chiuse: moltissimi si sposano al di fuori della propria comunità. E questo vuol dire che la lingua madre in tutti i sensi è spesso diversa dalla lingua "padre".

La divisione simbolica tra "arabi" e "neri" non ci serve più di tanto per leggere i conflitti attuali.

Ad esempio i Tunjur, che hanno fondato il regno del Darfur (ma la madre del fondatore della dinastia era una Fur, cioè una "nera"), sono arabofoni e vantano una genealogia araba (anche se vengono considerati dagli altri i meno musulmani di tutti), ma oggi sono tra i protagonisti della rivolta contro il governo di Khartum.

Forse il modo più sensato per raggruppare le comunità del Darfur è secondo gli stili di vita: i Baggara - nomadi che allevano bestiame; gli Aballa - nomadi che allevano cammelli; gli Zurga - i contadini "non arabi"; e gli abitanti dei centri urbani. Curiosamente gli "Zurga" coincidono all'incirca con ciò che i media chiamano i "neri", ma il termine vuol dire "gli azzurri".

Allora, "nomadi arabi" contro "neri (o azzurri) sedentari"?

Nemmeno: gli Zaghawa allevano cammelli, ma non hanno una genealogia araba e sono attivi nella rivolta contro il governo di Khartum.

Però il conflitto tra Baggara e Aballa divide anche gli stessi arabi, come si può vedere da alcuni massacri avvenuti recentemente

Tutto questo temo che sia perfettamente incomprensibile a chi si interessa al Darfur solo per dare addosso al proprietario del negozio di kebab sotto casa.