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L'impero, il Grande Medio Oriente, l'Iran e il nucleare

di Amir Madani - 21/04/2007





 

In che modo gli affari e gli interessi legati alle risorse energetiche condizionano il complesso intreccio delle relazioni internazionali in una zona cruciale per gli equilibri strategici e geopolitici? Le recenti complicazioni, successive al provocatorio atteggiamento dei vertici iraniani, offrono lo spunto per valutare l'aggressiva politica estera dell'amministrazione Bush con la consapevolezza che, a motivarla, non è soltanto il desiderio di promuovere libertà e democrazia formale.

Le radici dei problemi del Medio Oriente d'oggi risiedono non solo nelle spartizioni coloniali e neocoloniali ma anche e soprattutto nel desiderio delle classi dominanti Usa di mettere le mani sugli approvvigionamenti energetici per mettersi in una posizione di vantaggio rispetto ai competitori eurasiatici (Zbigniew Brzezinski). La tradizionale politica americana chiamata free trade, attraverso la promozione della libertà e democrazia formale, mira ad abbattere le sovranità nazionali e le barriere doganali per allargare i mercati e favorire i grandi gruppi. Questa politica è descritta e analizzata con molta lucidità da Paul Bigioni nel suo libro sulla persistenza del fascismo:

“When people think of fascism, they imagine rows of goose-stepping storm troopers and puffy-chested dictators. What they don't see is the economic and political process that leads to the nightmare. A warning, by observing political and economic discourse in North America since the 1970s leads to an inescapable conclusion: the vast bulk of legislative activity favours the interests of large commercial enterprises. Big business is very well off, and successive Canadian and U.S. governments, of whatever political stripe, have made this their primary objective for at least the past 25 years” 1 .

In quest'ambito si aspira a costruire una nuova forma di società attraverso il controllo dei mezzi di produzione e dei mercati, che trasforma l'individuo-cittadino apparentemente libero in un consumatore puro (vedi anche Gillez Deleuze, 1925-1995, L'autre journal , n. 1, maggio 1990, ora in Gilles Deleuze, Pourparlers, 1972-1990, Minuit, Paris 1990, pp. 240-247, che studia le società di controllo in generale).

Da ciò l'imposizione di libertà e democrazia formali allo scopo di una penetrazione capillare finalizzata al dominio per promuovere il free trade. Una politica alla ricerca del dominio attraverso l'uso e controllo dei media ed i canali di comunicazione (softpower) che continua nella sostanza il colonialismo tradizionale, che per diversi secoli ha devastato tradizionali equilibri mondiali. L'esempio di questa continuità è mostrata dalla presenza di tutti i governi inglesi tory o labour accanto agli Usa a prescindere dal colore delle amministrazioni.

Parte da questa politica, che fonda le radici nel colonialismo, il nuovo desiderio di egemonia sul globo attraverso la costruzione dell'impero. Il progetto già delineato nell'“American New Century” ha solo accelerato il corso, legittimando anche l'uso della forza, a partire dalla campagna nei Balcani, per iniziare a dominare l'Eurasia, dalla Jugoslavia fino all'Afghanistan. L'accelerazione è dovuta anche alla nascita dell'Europa unificata che è divenuta la prima potenza economica mondiale. Intanto è emerso il polo asiatico dai lineamenti ancora non definiti che per ora gravita intorno alla Sco (Shanghai Cooperation Organization).

Gli Usa, nel mondo bipolare, in nome della partnership contro l'ex Unione Sovietica, avevano affermato la propria leadership, ma con la fine del blocco sovietico l'Europa, sia nell'atteggiamento che nell'agire delle cancellerie, ma soprattutto nel desiderio delle sue opinioni pubbliche, ha preso la via di un progressiva autonomia. D'altro canto l'Asia , dal vastissimo sfondo che parte dal Pacifico per comprendere Asia sud Occidentale e la Russia in via di spopolamento, ha cominciato ad assorbire gran parte delle risorse determinando un cambio strutturale nell'uso e consumo del petrolio. Questa nuova realtà basata sul protagonismo euro-asiatico ha accelerato le istanze ed i piani delle classi dominanti Usa nel preparare una aggressiva politica per perpetuare il dominio ed evitare il declino, attraverso il controllo dell'Eurasia ma soprattutto del Medio Oriente, fonte primaria delle risorse di idrocarburi.

Per effettuare questo piano G. W. Bush è stato prima nominato e poi eletto presidente dell'amministrazione neocon, la quale ha promosso l'uso della guerra preventiva senza confini e senza limiti di tempo a seguito della tragedia terroristica del 9/11. In questo quadro è stata scatenata la campagna afgana, apparentemente per abbattere il mostro dei taliban, ma in realtà per mettere le mani sull'Asia Centrale fonte vergine di ogni tipo di risorsa; quel che Nixon già negli anni 70 chiamava “ la chiave d'oro dell'Asia Centrale” . La presenza in Afghanistan significa de facto poter controllare la Cina e l'India e tenere sotto pressione la ridimensionata ed umiliata Russia a seguito delle vicende caucasiche e non solo.

Dopo la campagna afgana e la crescita esponenziale del terrorismo, come è noto, è iniziata la campagna irakena nel 2003 basata sull'uso consapevole della menzogna per il controllo delle regioni petrolifere. Nel Gennaio del 2004 il vicepresidente Dick Cheney, a Davos in Svizzera, annuncia pubblicamente il progetto “Great Middle East” dell'amministrazione Bush, dando forma e lineamenti al desiderio Usa di riorganizzare il Medio Oriente secondo volontà Usa e attraverso la guerra e il “regime change”. Nel quadro di questa volontà l'Iran, incuneato tra le risorse tradizionali del Golfo Persico e il nuovo eldorado del Caspio e con un estensione culturale che dal Kashmir arriva fino al Libano con un potere dichiaratamente ostile, diventa un elemento essenziale e l'installazione di un regime amico l'obiettivo principale. Desiderio e volontà annunciata in più occasioni e per voce di diversi esponenti neocon dell'amministrazione Bush. S. Hersh, il celebre giornalista investigativo del New Yorker, sempre contestato dalla Casa Bianca ma mai confutato, in varie analisi ha evidenziato la ferrea volontà dell'amministrazione neocon di Bush di reinsediarsi in Iran anche attraverso l'uso della forza (vedi per esempio “The Coming War” o “The Next Act”, The Redirection).

Il progetto del nucleare iraniano e l'emergere del caso può essere capito soltanto in quest'ambito. L'Iran, come è noto, esercita una notevole influenza in Afghanistan e in Irak (vedi Vali Nasr, When the Shiites Rise, Foreign Affairs , July/August 2006) e in molte regioni petrolifere e non solo.

Anche se l'impantanarsi della macchina bellica Usa in Afghanistan e l'Irak e la sconfitta israeliana nella campagna libanese dell'estate 2006 e la vittoria democratica nelle elezioni mid term hanno ridimensionato gli ardori della politica imperiale Usa, bisogna notare che la spesa militare più alta di tutta la storia americana è stata approvata a seguito di tutte queste vicende con il voto favorevole dei democratici, parte integrante dell'establishment Usa. In realtà non sono le amministrazioni a decidere e agire; il quadro come sempre viene determinato e deciso dall'establishment, l'espressione degli ambienti del capitalismo e quei potentati che vogliono essere e sono quasi sempre all'origine di ogni legge.

Perciò il caso del nucleare iraniano è soprattutto, se non esclusivamente, un caso politico per tenere sotto pressione il potere ostile in Iran. Una pressione e minaccia costante che si effettua anche attraverso la presenza militare in Irak e in Afghanistan, continui voli dei droners e varie attività di spionaggio. Una pressione che sul piano interno iraniano ha favorito le forze conservatrici e ha punito duramente le istanze di riforma e l'ottenimento e il rafforzamento della democrazia. Perciò dopo le tragiche vicende del golpe del 1953 contro il governo democratico di Mossadegh, gli Usa un'altra volta barrano il cammino del movimento per la democrazia, che nonostante le difficoltà estreme e il quadro drammatico, con molto coraggio continua a marciare. Un movimento che, basandosi sulle solide e millenarie tradizioni civili della società iraniana e partendo dai presupposti della rivoluzione costituzionalista del 1905, trae la propria forza dalle istanze democratiche provenienti del mondo del lavoro, della cultura, del mondo giovanile e femminile che lottano per ottenere e rafforzare la democrazia partendo dalle dinamiche interne e rifiutando interventi armati esterni.

Finora nulla ha dimostrato che il progetto dell'Iran, come membro dell'NPT a differenza di Israele, India, Pakistan, Corea del Nord (i quali non sono membri dell'NPT e posseggono l'atomica) abbia una deviazione militare. L'Iran, durante la presidenza Khatami nella sede dell'Onu, è stato promotore di un'iniziativa per un Medio Oriente denuclearizzato. La proposta, sostenuta anche dall'Egitto e dalla Giordania, per la minaccia del veto americano, che ha voluto come sempre in modo acritico proteggere Israele e questa volta i suoi missili, è stata ritirata. Anche se una serie di problemi ha attenuato momentaneamente gli ardori imperiali, la politica Usa rimane comunque imperniata sull'egemonia. Secondo le parole di Zbigniew Brzezinski, consigliere Usa per la sicurezza nazionale: “L'egemonia è antica come il genere umano”.

L'obiettivo primario della politica Usa rimane quello di reinsediarsi in Iran attraverso nuove vie. Dopo l'insuccesso della costruzione del “Great Middle East” attraverso la promozione formale della democrazia in collaborazione con i regimi arabi (le repubbliche con presidenti a vita come quella di Mubarak o monarchie assolutiste come quelle dell'Arabia Saudita e della Giordania) alleati degli Usa e dopo l'insuccesso dell'ultima campagna bellica d'Israele in Libano:

“The term New Middle East was introduced to the world in June 2006 in Tel Aviv by U.S. Secretary of State Condoleezza Rice (who was credited by the Western media for coining the term) in replacement of the older and more imposing term, the Greater Middle East . This shift in foreign policy phraseology coincided with the inauguration of the Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) Oil Terminal in the Eastern Mediterranean. The term and conceptualization of the New Middle East , was subsequently heralded by the U.S. Secretary of State and the Israeli Prime Minister at the height of the Anglo-American sponsored Israeli siege of Lebanon. Prime Minister Olmert and Secretary Rice had informed the international media that a project for a New Middle East was being launched from Lebanon. This announcement was a confirmation of an Anglo-American-Israeli military roadmap in the Middle East. This project, which has been in the planning stages for several years, consists in creating an arc of instability, chaos, and violence extending from Lebanon, Palestine, and Syria to Iraq, the Persian Gulf, Iran , and the borders of NATO-garrisoned Afghanistan” 2 .

Questi piani in continua evoluzione conservano in generale il germe di una politica basata sull'egemonia e determinano continui scontri, promuovendo la belligeranza nelle controversie internazionali e il conseguente terrorismo. L'unico rimedio possibile è l'impegno collettivo per una politica alternativa, basata sull'uso razionale ed equo delle risorse con il rispetto per la natura nell'ambito di una giustizia distributiva e non punitiva ed un progetto realmente democratico che lavori per un'economia civile e dia un sostegno effettivo ai movimenti democratici che lottano contro i regimi irrigiditi per effetto della presenza e della politica Usa. Un progetto alternativo può partire nell'ambito di una Onu riformata e riempita di nuovi contenuti che ripudi e vieti l'uso della forza nelle controversie internazionali e riconosca una “sicurezza culturale” ai popoli autoctoni e i diritti all'autodeterminazione e alla sovranità pur limitata nel rispetto delle leggi universalmente approvate. L'impegno per un'economia democratica nei paesi industrializzati e soprattutto negli Stati Uniti, de facto aiuta l'emergere e il consolidarsi dei movimenti democratici come risultante delle dinamiche endemiche. Una reale democrazia nella sua trasparenza è una garanzia per la sicurezza generale. La regola vale soprattutto per il caso del nucleare iraniano.

NOTE

Paul Bigioni: Fascism then. Fascism now? Star, 27 novembre 2005. “Quando la gente pensa al fascismo, immagina file di truppe al passo dell'oca e impettiti dittatori. Quello che non vedono è il processo politico e economico che porta all'incubo. Osservando il discorso politico e economico in Nord America fin dagli anni Settanta si giunge inevitabilmente a questa conclusione: la grande massa di attività legislativa favorisce gli interessi dei grandi gruppi commerciali. I successivi governi canadesi e statunitensi, di qualsiasi colore, hanno fatto degli affari il loro principale obiettivo per almeno 25 anni”.

Mahdi Darius Nazemroaya, Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a “New Middle East”, Global Research. “Il termine New Middle East è stato introdotto nel Giugno 2006, a Tel Aviv, dal Segretario di Stato statunitense Condoleeza Rice (che è stata ritenuta dai media occidentali come creatrice del termine) in sostituzione del più datato e imponente termine Great Middle East. La svolta nella terminologia della politica estera ha coinciso con l'inaugurazione del nuovo oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) nel Mediterraneo Orientale. Il termine e la concettualizzazione del New Middle East sono stati successivamente annunciati dal Segretario di Stato statunitense e dal Primo Ministro israeliano in occasione dell'assedio israeliano al Libano, sponsorizzato dagli Anglo-americani. Il Primo Ministro Olmert e il Segretario Rice hanno informato i media internazionali che un progetto per un New Middle East era stato avviato a partire dal Libano. L'annuncio è stato la conferma di una roadmap militare congiunta Anglo-americana-israeliana nel Medio Oriente. Il progetto, rimasto in una fase di programmazione per anni, si basa sulla creazione di un arco di instabilità, caos e violenza in estensione da Libano, Palestina e Siria all'Iraq, al Golfo Perisco, all'Iran, sino ai confini dell'Afghanistan occupato dalle truppe della Nato.”