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Ultime notizie dal mondo 1-15 Aprile 2007

di Redazionale - 22/04/2007


Somalia. 1 aprile. Inferno a Mogadiscio. Un centinaio di morti negli ultimi tre giorni di scontri nella capitale somala. Truppe etiopiche, secondo alcune fonti militari almeno 2500 uomini, appoggiate da elicotteri d’assalto e artiglieria pesante continuano con le forze governative somale l’offensiva su larga scala contro non meglio specificati «insorti», presumibilmente guerriglieri legati alle Corti islamiche. Migliaia di persone in fuga dalla città. Dopo tre giorni di scontri, le stime, approssimative, parlano di circa un centinaio (o di «centinaia») di morti e di almeno 400 feriti. I profughi invece sarebbero in tutto circa 57mila, di cui 12mila solo nell’ultima settimana. E in molti, ha denunciato ieri Human Rights Watch, sarebbero incappati nelle maglie di un programma segreto di detenzioni arbitrarie e maltrattamenti vari messo in atto da USA, Etiopia e Kenya.

 

  • Somalia / Etiopia. 1 aprile. I mesi di relativa pace e sicurezza che Mogadiscio aveva vissuto dopo la vittoria delle Corti islamiche lo scorso giugno sono ormai un lontano ricordo. Gli scontri di questi giorni sono un triste (ma prevedibile) risultato dell’intervento etiopico. Che, stando alle dichiarazioni ufficiali di Addis Abeba, sarebbe dovuto servire a sconfiggere «gli islamisti legati ad al-Qaeda», sostenere le «legittime istituzioni transitorie somale» e portare la pace. Nulla di tutto questo è finora successo. L’Etiopia, che doveva rimanere in Somalia poche settimane per permettere al governo transitorio somalo di entrare per la prima volta a Mogadiscio e assicurarsi il potere, è ancora nel paese. Le Corti islamiche hanno battuto in ritirata, non accettando l’impari (per i mezzi di cui dispone l’Etiopia e quelli forniti dagli USA) confronto militare, ed stanno rispondendo con la guerriglia, contando sul sostegno di ampi strati di popolazione. Intanto le truppe ugandesi, prima tranche delle forze di cosiddetto peace-keeping dell’Unione Africana, sono già state prese di mira più volte dal loro arrivo a Mogadiscio poche settimane fa e ora rimangono chiuse nella loro base nei pressi dell’aeroporto. Gli altri paesi africani si stanno guardando bene dal confermare la loro partecipazione alla “missione di pace”.

 

  • Nicaragua. 1 aprile. Nominata a sorpresa, come ministra del Lavoro, Jeannette Chávez. Rappresenta l’ala sinistra del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). Le sue posizioni critiche l’avevano portata negli anni Novanta ad allontanarsi dal FSLN.

 

  • Venezuela. 1 aprile. Iper- e supermercati e sovranità alimentare nazionale: termini che possono essere in contrapposizione. Ce lo insegna il Venezuela, colpito dall’operazione targata CIA “Scaffali Vuoti”, il cui obiettivo è appunto svuotare gli scaffali dei supermercati e dei negozi del Venezuela per innescare il malcontento popolare contro il presidente Hugo Chávez. Che ha il torto di fare riforme sociali a vantaggio soprattutto della fetta più povera della popolazione. L’operazione “Scaffali Vuoti” è stata organizzata dalle maggiori catene di distribuzione alimentare del paese, controllate dall’oligarchia locale avversa a Chávez, e dalle società d’importazione alimentare che, in buona parte controllate da capitali degli Stati Uniti, è negli States che si riforniscono.

 

  • Venezuela. 1 aprile. L’Operazione è scattata ai primi di febbraio, con la “Fase 1”: un ingiustificato quanto mostruoso aumento dei prezzi dei generi di prima necessità come la carne, lo zucchero e i cereali, rendendoli inaccessibili alla popolazione e creando così serie difficoltà nell’approvvigionamento alimentare. Prezzi aumentati mediamente del 66%, con punte che hanno toccato il 245%. Un’impennata peraltro illegale, giacché, tra le leggi varate da Chávez, ce n’è una, del 2005, che limita gli aumenti dei prezzi di prima necessità, sanzionando anche penalmente chi la viola. È applicando questa legge che il governo Chávez ha multato i supermercati colpevoli di lievitare i prezzi a dismisura. E siccome i rei insistevano, Chávez ha fatto ricorso al bastone e alla carota: da un lato ha eliminato l’IVA sugli alimentari in questione, e lungo tutta la filiera: dalla produzione alla trasformazione industriale alla vendita. Regalando così agli imprenditori del settore un risparmio del 14%, e seminando diserzioni tra le loro schiere. E con coloro che non si sono contentati di questa regalia e hanno perseverato nel vendere a prezzi esorbitanti, Chávez ha usato il bastone: requisizione dei prodotti troppo cari e smercio dei medesimi, a prezzo ribassato, nei supermercati popolari. Se questa misura non dovesse bastare, Chávez si è detto pronto a sequestrare i supermercati e nazionalizzare catene di distribuzione, industrie alimentari e società d’importazione.

 

  • Venezuela. 1 aprile. In molti supermercati del Venezuela è scattata la “Fase 2” dell’operazione “Scaffali Vuoti”: gli scaffali dei supermercati erano, se non proprio vuoti, poco forniti. I distributori hanno ridotto drasticamente o accantonato gli approvvigionamenti di prodotti come la carne. Sintomatico il caso di Unicasa, una catena con più di 28 supermercati, dove si commerciano al dettaglio carne, verdura e pesce, già recidiva nel 2003, quando fu chiusa per 48 ore dal Ministero dell’Industria e del Commercio insieme a Lubrevas, impresa affine, perché mentre aumentava il prezzo della carne, del pollo e del pesce, consegnava alla Minibruno (impresa che tratta gli avanzi di carne) tonnellate di carne di prima scelta, interi capi di bestiame non squartati per la modica somma di 1000 bolivares al kilo (circa 35 centesimi di euro), lasciando vuote le sue stesse dispense! Con la manipolazione diretta del mercato, rifiutandosi di acquistare i capi di bestiame dai piccoli allevatori e al contempo accaparrandosi e facendo scarseggiare la carne (magari inviata al processo di produzione di cibo per cani e gatti, con la complicità di multinazionali come la Nestlè), intendono generare scontento e confusione nel popolo contro Chávez.

 

  • Venezuela. 1 aprile. All’aumento dei prezzi va però rilevato anche il ruolo della psicosi popolare –dinanzi alla paura di non riuscire più a fare la spesa a causa dell’esaurirsi delle scorte, i più si sono precipitati a rifornirsi anche a costo di spendere il doppio del solito– ed il concorso di molti commercianti e industriali che, pur non coinvolti nell’operazione, hanno seguito la corrente approfittando dell’aumento dei redditi che le riforme di Chávez hanno generato. Un miglioramento economico determinato in parte direttamente, con l’incremento delle retribuzioni più basse e un aumento dell’occupazione, e in parte indirettamente, con il passaggio allo Stato di costi (sanità, assistenza sociale e istruzione in primo luogo) in precedenza a carico delle famiglie. La minaccia di usare pesantemente il bastone, cioè di nazionalizzare la filiera alimentare, ha placcato quest’ennesima iniziativa golpista della CIA, in combutta con le oligarchie locali.

 

  • Venezuela. 1 aprile. C’è chi definisce questo il quarto tentativo di USA ed oligarchie venezuelane di far fuori o quantomeno provare a sobillare il popolo contro Chávez. Il primo risale all’aprile 2002. Un golpe militare in stile cileno, con la differenza che questa volta il grosso delle forze armate è stato ed è fedele a Chávez. Sicché i complottardi hanno fatto ricorso a una messinscena: con la collaborazione delle quattro maggiori emittenti televisive del Paese (Globovision, Televen, Venevision e RCTV) che controllano oltre il 90% del mercato, l’11 aprile hanno fatto credere che non già qualche centinaio di militari traditori, ma una sollevazione popolare stava rovesciando il governo Chávez. E quando, tre giorni dopo, una sollevazione popolare autentica ha concorso a riportare Chávez al palazzo presidenziale, le quattro emittenti in questione hanno sospeso i notiziari e mandato in onda esclusivamente vecchi film e cartoni animati. Non paghe dell’insuccesso, CIA & Co. ci riprovano nel dicembre dello stesso anno quando, manovrando le multinazionali del petrolio controllate dagli Stati Uniti, hanno tentato di bloccare sia la produzione che l’export boliviano.

 

  • Venezuela. 1 aprile. A qualche mese fa risale il terzo tentativo, con l’utilizzo del monopolio mediatico delle solite quattro emittenti per diffondere notizie false, allarmismi e paure allo scopo di sobillare la popolazione contro Chávez. Che a questo punto è insorto decidendo di non rinnovare la licenza del gruppo audiovisivo Radio Televisione Caracas (RCTV) che scadrà il 28 maggio 2007: i segnali d’emissione appartengono d’altronde allo Stato, che dispone del diritto di concessione, mentre le infrastrutture, il materiale e le sedi delle emittenti sono di proprietà privata. Subito la gerarchia della Chiesa cattolica è insorta, facendo coro con le televisioni private nel denunciare «la censura del regime». È la stessa gerarchia che non ha mai condannato il golpe militare del 2002 e che si guarda bene dal condannare ora l’operazione “Scaffali Vuoti”, che pure mira ad affamare i poveri.

 

  • Francia / Sri Lanka. 2 aprile. Arrestati a Parigi 17 tamil per finanziare le Tigri. Questo il bilancio della retata che ieri ha interessato la capitale francese e dintorni. L’accusa: lavorare per trovare finanziamenti per la guerriglia delle Tigri per la Liberazione della Patria Tamil (LTTE) che lotta contro la dominazione cingalese. L’Unione Europea ha incluso l’LTTE nella sua lista delle organizzazioni «terroriste» nel 2006.

 

  • Iran / Israele. 2 aprile. «Un conflitto in Medio Oriente, con epicentro l’Iran, potrebbe esplodere a causa del coinvolgimento di molti attori e non perché una parte o l’altra sia realmente interessata alla guerra». Il capo dell’Intelligence militare israeliano, generale Amos Yadlin, è preoccupato. E mette le mani avanti. Israele non intende attaccare l’Iran ma, ha spiegato durante la riunione settimanale del governo a Gerusalemme, Teheran, Damasco e in Libano Hezbollah stanno mettendo in atto misure difensive «perché temono un attacco americano, non israeliano, in estate». Hamas, dicono i militari a Tel Aviv, ha scavato tunnel e bunker a Gaza e creato un esercito di diecimila uomini per fronteggiare un eventuale attacco israeliano. In Libano, Hezbollah, grazie ai rifornimenti ricevuti attraverso la Siria, è di nuovo in grado di infliggere danni notevoli a Israele in caso d’attacco. Stesso rafforzamento anche in Siria. Tutte misure difensive, puntualizza Yadlin.

 

  • Afghanistan. 2 aprile. Trattare o no con i talebani? Sulla questione è intervenuto sul sito peacereporter.net Fabio Mini, ex comandante di KFOR, la forza d’intervento della NATO in Kosovo, nel 2004 decorato addirittura dall’allora capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, «per il servizio eccezionalmente meritorio svolto in qualità di comandante della Forza per il Kosovo dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003». Un intervento che lascia a tratti a bocca aperta. «Parliamo con i Talebani, con il Nemico, con i Terroristi? Ammetto di non essere il più indicato a rispondere a queste domande. Ho imparato ad onorare i padri della patria che, per i regimi politici del loro tempo, erano terroristi e ribelli. Da militare, ho dovuto salutare e presentare le armi a vari personaggi compresi quelli che in periodi della loro vita erano stati fuorilegge o terroristi. Da comandante di operazione internazionale nei Balcani ho dovuto stringere mani che grondavano ancora sangue e dialogare con responsabili di crimini che il mutato clima politico considerava eroi. Oggi non abbiamo, come nel passato, neppure una definizione condivisa di terrorismo e mai come in questo periodo è difficile separare il terrorismo come strumento dal terrorismo come ideologia, il terrorismo dalla lotta di liberazione, i ribelli dai criminali e gli insorti dai terroristi. Inoltre, ogni militare sa che conoscere il nemico è fondamentale per il successo delle operazioni e che non esiste mezzo migliore della conoscenza personale per capire gli avversari. Quando il rapporto diretto non è possibile, come spesso succede nei conflitti, si chiede all’intelligence di fare da intermediario, di fornire informazioni dettagliate e di tracciare i profili professionali e personali degli avversari. Se è raro e difficile incontrare i propri nemici prima della battaglia per parlare di guerra, è invece naturale per un militare pensare e perfino sperare d’incontrare l’avversario durante il conflitto per discutere di tregua o al termine dei combattimenti per discutere di pace».

  • Afghanistan. 2 aprile. Tanto indirette quanto fulminanti le frecciate che Mini rivolge alla politica “anti terrorismo” degli USA. «Oggi, come ieri, è evidente che il nemico in Afghanistan è rappresentato dai talebani, o da quelli che noi stessi occidentali vogliamo dipingere come talebani. Non sappiamo se sono gli stessi con i quali mezzo mondo ha trattato prima dell’11 settembre; quelli che, mentre abbattevano con furia iconoclasta le grandi statue dei budda, mentre imponevano feroci restrizioni alle donne, ai bambini e agli oppositori politici, venivano corteggiati dalle diplomazie e dalle intelligence di mezzo mondo comprese quelle statunitensi. Non sappiamo se sono gli stessi con i quali si è trattato per mesi dopo l’11 settembre prima che gli Stati Uniti iniziassero la guerra globale contro il terrore. Non sappiamo se sono gli stessi ai quali vengono elargiti milioni di dollari in presunte taglie perché denuncino il vicino di casa o soltanto il nemico di faida. Non sappiamo neppure se quelli stessi rinchiusi a Guantanamo sono i veri talebani e finché non ci saranno processi aperti e seri non lo sapremo mai. Non sappiamo chi sono questi “talebani” del 2007, cosa vogliono e fino a che punto possono sperare di assumere il controllo dell’Afghanistan. Non sappiamo se sono collegati con Al Qaeda, come sono collegati con il Pakistan, l’Arabia Saudita, l’Iran e la ribellione irachena. Non sappiamo dove prendono i finanziamenti e le armi. “Non sappiamo”, ed è questo il vero problema. Oppure ciò che sappiamo è insufficiente e deviante perché superficiale e perfino banale».

  • Afghanistan. 2 aprile. Mini rileva «che tra le centinaia di bande private, di criminali comuni, di milizie della droga, di polizie più o meno ufficiali e di mercenari che combattono indifferentemente l’uno contro l’altro o ciascuno contro gli occupanti di turno ci sono anche gruppi di fanatici islamici, agguerriti e “giovani”, che semplicisticamente chiamiamo “talebani”. Non è molto, perché essere fanatici non è una prerogativa degli islamici e nemmeno dei talebani. Essere agguerriti non è una novità per i popoli dell’Afghanistan che hanno sempre dovuto lottare contro le invasioni ed essere “giovani” in quella terra è una condanna piuttosto che una benedizione: l’aspettativa di vita in Afghanistan è di 43 anni. Se non si combatte tra i 15 e i 35 anni vuol dire che si è già morti. E ogni “vecchio” dai 43 anni in su che sopravvive fa statisticamente abbassare l’età di quelli che muoiono». Mini scrive sconsolato che «questo si sa, e non è molto per fare la guerra in Afghanistan ed è addirittura niente per fare la pace. Per questo, in termini prettamente tecnico-militari, la domanda sull’opportunità di incontrare i talebani, i ribelli, gli avversari o gli stessi terroristi mi sembra un falso problema un po’ strumentale e un po’ ipocrita. Da militare, non solo dovrei incontrarli, ma li dovrei conoscere perfettamente, dovrei avere qualcuno dei miei infiltrato nelle loro file, dovrei conoscere vizi e virtù di tutti i capi e dovrei avere ben chiaro il loro modo di pensare e di agire. Dovrei avere patti segreti con loro, come li avevano gli inglesi del “Grande gioco” (e mi meraviglierei se non li avessero ora), come li avevano i sovietici con il ribelle Massoud, e come li avevano gli americani con i mujaheddin prima e con i signori della guerra e della droga poi (e mi meraviglierei se non li avessero ora)».

 

  • Afghanistan. 2 aprile. Il generale Mini, invitando seriamente a “conoscere” e capire il proprio “nemico”, parla di ipocrisia nell’atteggiamento del governo italiano: «si rifiuta “a priori e a prescindere” di conoscere, incontrare e capire in un quadro di legalità qualcuno con il quale si è poi disposti a trattare in condizioni di ricatto (…) L’Italia di questi ultimi anni ha adottato una linea politica schizofrenica: si è affiancata con grande lealtà, disinteresse e generosità agli alleati nelle guerre ma si è accontentata di conoscere dell’avversario soltanto ciò che faceva loro comodo. Si è poi allontanata dalla loro linea nel momento in cui veniva sottoposta a pressioni e ricatti. La politica interna e gli equilibri fra i poli e le molteplici anime che compongono ciascuno di essi hanno determinato la scelta del coinvolgimento diretto e immediato delle massime istituzioni di governo (…) In contrasto con l’apparente motivazione umanitaria di voler salvare vite umane –che avrebbe dovuto ispirare una strategia di contatto con i ricattatori e i terroristi affidato alle sole organizzazioni umanitarie– si è istituzionalizzato il compromesso coinvolgendo in maniera plateale sia i massimi organi di governo sia le istituzioni più sensibili e riservate».

  • Afghanistan. 2 aprile. E così, rileva Mini, «la soglia della capitolazione è stata abbassata a limiti impensabili sia nei tempi sia nelle modalità sia nella quantità e qualità del prezzo del riscatto. La stessa spettacolarizzazione è diventata una parte del prezzo da pagare dando così incredibile e inaspettata visibilità agli stessi terroristi. Sono stati mobilitati i vertici dei servizi per azioni che avrebbero richiesto un semplice intermediario affidabile e discreto. Alti funzionari dello Stato sono stati trasformati in spalloni frontalieri per consegnare nelle mani e nei conti numerati di non si sa chi del denaro proveniente da conti pubblici o da quelli di non si sa chi». Soprattutto, rileva seccato Mini, «sono state seguite procedure e modalità in contrasto con la semplice logica della sicurezza, ma soprattutto in contrasto con le norme imposte dagli stessi alleati, facendo correre rischi tanto alti quanto ingiustificati. È questa combinazione d’innalzamento del livello di coinvolgimento istituzionale e abbassamento della soglia di capitolazione ad averci fatto perdere la credibilità politica internazionale che avevamo guadagnato anche con le nostre missioni militari».

  • Afghanistan. 2 aprile. Ancora più indignato Mini nel rilevare un altro elemento di contraddizione della politica italiana: «alla capitolazione totale sul fronte della sorte dei civili e dei giornalisti (che nessuno ha obbligato a mettersi nei guai) hanno fatto riscontro una fermezza ed una freddezza inconsuete per le sorti e i rischi delle forze militari inviate per motivi istituzionali. Non ci si è fatto alcuno scrupolo di mandarle in condizioni inadeguate ai compiti e in situazioni di rischio sottovalutato (…) Una vita civile sembra che valga più di una militare. Oggi abbiamo ancora Caduti che aspettano un riconoscimento ufficiale, abbiamo responsabilità ancora da accertare e, per azioni nei teatri di guerra, abbiamo più militari sotto processo che terroristi». Per il generale italiano, il dibattito sull’Afghanistan è falsato. «Sono pochi a sollevare le vere questioni e ad individuare i veri rischi che militari e civili corrono nei teatri operativi e le conseguenze delle politiche schizofreniche. Contrariamente a quanto affermato da molti e blasonati osservatori, non è vero che la capitolazione nel ricatto riguardante giornalisti o civili ha innalzato i rischi per le forze militari. Fino a quando la vita dei militari non avrà considerazione, ma solo rassegnazione, e quella dei civili varrà milioni di dollari e scambi pregiati saranno questi ultimi ad essere gli obiettivi “remunerativi”».

 

  • Afghanistan. 2 aprile. Il bilancio della politica italiana in Afghanistan è per Mini del tutto deludente. «A causa dello spettacolo offerto dalla nostra capitolazione, dalla disunione e dal protagonismo, abbiamo creato le basi per una ulteriore perdita di credibilità internazionale ed abbiamo innalzato i costi politici della missione e i rischi personali dei civili. Abbiamo contratto debiti con il presidente Karzai, ma ci siamo alienati molti settori del suo governo, quasi non ci fossimo ancora accorti che il presidente ha difficoltà nel controllo del suo stesso gabinetto. Ci siamo alienati una parte del dipartimento di Stato americano e buoni settori degli alleati, fingendo di sorprenderci delle reazioni che avremmo dovuto considerare scontate ed essere pronti a controbattere». Ma un danno lo hanno subito, rileva infine Mini, anche Emergency e Gino Strada, «che nelle ultime due vicende hanno speso molti dei crediti accumulati in anni di servizio umanitario. Oggi rischiano più di ieri e la capitolazione politica di cui si sono fatti intermediari potrebbe contribuire a delegittimarli nei confronti del governo afgano attuale e degli stessi talebani, che potrebbero considerarli non più utili o addirittura “spendibili”».

 

  • USA / Iraq. 2 aprile. Una vittoria militare «non è più possibile» in Iraq e la situazione nel paese del Golfo è oggi molto più complessa di quanto non fosse la guerra in Vietnam. È il giudizio dell’ex segretario di Stato USA Henry Kissinger, intervistato dall’Associated Press, che ritiene che i combattimenti in Iraq proseguiranno per anni. Le caratteristiche «anonime» dell’insurrezione («la guerra del Vietnam coinvolse Stati e si poteva negoziare con dirigenti che controllavano un’area definita») e le divisioni tra sunniti e sciiti, prosegue l’ex segretario di Stato, rendono più difficile qualsiasi negoziato di pace. Kissinger ha aggiunto però di ritenere che un ritiro improvviso delle forze USA avrebbe come risultato il caos nel paese e che la migliore possibilità per il futuro del paese stia nel cercare di riconciliare le differenze tra le diverse fazioni. Positiva, dice, una conferenza internazionale.

 

  • USA / Iran. 2 aprile. Washington finanzia gruppi terroristici in Iran. Lo scrive il Sunday Telegraph. Gli USA stanno segretamente finanziando gruppi etnici armati separatisti in Iran nel tentativo di far montare la pressione contro Teheran. Ufficiali CIA sono presenti fra le milizie di numerosi gruppi di minoranza etnica stanziati nelle regioni di confine dell’Iran, come il Sistan-Baluchistan. Secondo il giornale inglese, «le operazioni sono controverse perché comportano relazioni con movimenti che, per ottenere ragione delle proprie istanze, ricorrono a metodi terroristi contro il regime iraniano. L’anno passato si è verificata un’ondata di tumulti nelle zone di confine abitate dalle minoranze etniche dell’Iran, con una campagna di attentati anche dinamitardi contro soldati e rappresentanti governativi». Tali attentati sono stati eseguiti da «Curdi nell’ovest, Azeri nel nord-ovest, Ahwazi (arabi-iraniani) nel sud-ovest e Baluchi nel sud-est. Quasi il 40% dei 69 milioni di abitanti dell’Iran non sono persiani, con circa 16 milioni di Azeri, sette milioni di Curdi, cinque milioni di Ahwazis ed un milione di Baluchi».

  • USA / Iran. 2 aprile. I fondi per tali gruppi proverrebbero direttamente dal bilancio riservato della CIA. Secondo un ex alto ufficiale della CIA che anonimamente ne ha parlato a The Sunday Telegraph, questo non è più «un grande segreto». Le sue dichiarazioni sono supportate da quelle di Fred Burton, un ex agente del dipartimento di Stato per il contro-terrorismo USA, che disse: «Gli ultimi attacchi verificatisi in Iran hanno visto il coinvolgimento statunitense nell’approvvigionamento e la formazione delle minoranze etniche iraniane per destabilizzare il regime». John Pike, capo dell’influente think tank Sicurezza Globale di Washington ha dichiarato: «Le attività dei gruppi etnici si sono surriscaldate negli ultimi due anni e sarebbe uno scandalo se non fosse almeno in parte il risultato dell’attività della CIA».

  • USA / Iran. 2 aprile. Anche se Washington ufficialmente nega, Teheran sostiene da molto tempo di aver scoperto la mano statunitense ed inglese dietro gli attentati contro le forze di sicurezza interne. Si tratta però di una politica carica di rischi persino per Washington. Secondo quanto riporta il giornale, «la “Brigata di Dio” dei Baluchi, che l’anno scorso rapì ed uccise otto soldati iraniani, è un’organizzazione sunnita dagli obiettivi incerti e che potrebbe, dopo averne preso i danari, rivoltarsi contro Washington. È anche in corso una dura polemica a Washington se sguinzagliare o meno il braccio armato del Mujahedeen-e Khalq (MEK), un gruppo di opposizione iraniano con una lunga e insanguinata storia di opposizione armata al regime. Il gruppo è attualmente nell’elenco delle organizzazioni terroriste del dipartimento di Stato USA, ma Pike ha detto che una fazione del Dipartimento della Difesa li vuole usare perché, anche se non sono in grado di rovesciare il regime iraniano, possono comunque provocare molto danno». Un’affermazione significativa: attualmente nessuno dei gruppi di opposizione costituisce una vera preoccupazione per Teheran, ma gli analisti USA credono possano rinvigorirsi in concomitanza con un attacco statunitense e israeliano al paese.

  • USA / Iran. 2 aprile. Procede intanto il dispiegamento militare USA ed “alleato” al largo dell’Iran. La scorsa settimana una seconda portaerei USA ha raggiunto il concentramento delle forze navali statunitensi nelle acque litoranee meridionali dell’Iran. Washington ha inoltre trasferito sei caccia bombardieri dalla base britannica dell’isola Diego Garcia nel Pacifico alla base di Al Udeid nel Qatar. Ieri intanto il vice-presidente USA Dick Cheney ha ribadito che l’intervento militare costituisce una alternativa realistica. «Sarebbe un grave errore se una nazione come l’Iran divenisse una potenza nucleare (…) Tutte le opzioni sono ancora possibili», ha minacciato Cheney durante una visita in Australia.

 

  • Euskal Herria. 3 aprile. Arnaldo Otegi, portavoce di Batasuna, partito indipendentista basco illegalizzato, è stato assolto ieri sera dall’accusa di «apologia di terrorismo» dall’Audiencia Nacional di Madrid, dove è stato trasferito dal Paese Basco dalla polizia spagnola dopo un ordine di arresto. Nel processo la procura ha ritirato la richiesta di 15 mesi di carcere contro Otegi e quindi il tribunale lo ha assolto dall’accusa di «apologia di terrorismo» per un discorso pronunciato durante i funerali dell’etarra Olaia Castresana, morta mentre manipolava una bomba nel luglio 2001. Otegi ha detto che si era limitato a rivendicare il diritto di autodeterminazione dei baschi e di non aver fatto «apologia di terrorismo» e di non avere la «certezza assoluta» che Castresana fosse membro dell’ETA.

 

  • Euskal Herria. 3 aprile. Batasuna pensa a liste civiche per le elezioni comunali. Il partito indipendentista (fuorilegge dal 2003 a causa della “Legge dei partiti”, varata dal Partito Popolare dell’allora primo ministro Aznar) studia la possibilità di candidarsi alle elezioni municipali del prossimo 27 maggio attraverso liste civiche nelle quali si presenterebbero membri della sinistra indipendentista. Lo scrive El Pais, citando fonti basche. Alle ultime elezioni del 2003 le sue liste, integrate da dirigenti di Batasuna, sono state annullate dai tribunali. Nelle elezioni autonome basche, nell’aprile 2005, vennero accettate le liste del Partito comunista delle terre basche (Ehak-Pctv), per il quale Batasuna chiese il voto: 9 i seggi ottenuti, in un parlamento di 75.

 

  • Euskal Herria. 3 aprile. Il leader di Batasuna Arnaldo Otegi ha detto che la richiesta che viene posta a Batasuna di condannare la violenza per diventare legale «non è prevista dalla Legge dei partiti».

 

  • Somalia. 3 aprile. Gli etiopici inviano rinforzi a Mogadiscio. I militari sono entrati in città lungo la strada che arriva da Baidoa, a nordovest, dove ancora si trova il parlamento transitorio somalo. Il premier di transizione Ali Mohammed Gedi ha intanto ieri gettato ulteriore benzina sul fuoco dichiarando, con riferimento alle Corti islamiche, che «nessuna tregua è possibile con insorti e terroristi islamici».

 

  • USA / Iran. 3 aprile. Aggressione USA all’Iran? Inevitabile. Questa in estema sintesi la valutazione dell’analista Carlos Pereyra Mele, del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos (CEES), specializzato in geopolitica del Sudamerica. Il geopolitico consiglia di prendere le mosse dalla politica statunitense dall’11 settembre in poi, «che rappresenta il concretizzarsi non solo delle idee-forza dei neoconservatori, bensì pure degli interessi del complesso militare-industriale nordamericano; sviluppi che s’inquadrano nella decisione di controllare le risorse energetiche al fine di ridisegnare il mondo garantendosi una superiorità tanto in campo strategico-militare, quanto in quello economico». In tale contesto, il rischio di un’escalation persino nucleare con l’Iran è molto alto, «essendo in gioco una partita decisiva per modellare un nuovo ordine mondiale (…) il controllo geopolitico del Medio Oriente e delle sue risorse».

 

  • USA / Russia / Iran. 3 aprile. Dentro questo risiko, Mele mette in evidenza gli intrecci Mosca – Teheran e come un eventuale controllo USA dell’Iran nuocerebbe molto alla geopolitica energetica di Putin. «Per esempio: l’Iran potrebbe impedire il dislocamento della flotta petrolifera che oggi naviga per il Golfo Persico (e raccoglie il 40% del petrolio vicino-orientale) sbarrandole il passaggio per lo Stretto di Hormuz; inoltre l’Iran possiede la quarta riserva mondiale di petrolio e la seconda di gas, sicché la Russia necessita del suo accordo strategico per poter esportare la propria produzione idrocarburica e quella delle repubbliche postsovietiche dell’Asia Centrale tramite i porti iraniani. Dunque, un attacco all’Iran servirebbe a spezzare la strategia di Putin, impedendogli di consolidare un nuovo asse contrario agli interessi imperiali del Nordamerica».

 

  • USA / Iran. 3 aprile. Secondo Mele, un altro aspetto geopolitico da tenere in considerazione è che l’Iran «si trova in una posizione geografica determinante per controllare il triangolo petrolifero (Mar Nero - Mar Caspio - Golfo Persico), ed è perciò di capitale importanza per Washington impedire che l’Iran si trasformi in una potenza regionale grazie all’influenza sul mondo musulmano sciita, anche perché già vanta un invidiabile sviluppo delle forze armate convenzionali, con armamento altamente tecnologico d’origine russa ed una possibile futura componente nucleare: allo stato attuale l’Iran dispone di missili in grado di raggiungere il sud dell’Europa (Turchia e Grecia) ed altri vicini (Afghanistan e Pakistan), oltre all’Iraq ed allo stesso Israele».

 

  • USA / Iran. 3 aprile. Per il geopolitico argentino, già queste considerazioni rendono inevitabile un conflitto armato che molto probabilmente assumerà vaste proporzioni. «Ci troviamo in una situazione molto simile alla vigilia della Prima Guerra Mondiale quando, in presenza di un sistema d’accordi strategici di mutua difesa, l’assassinio d’un principe austro-ungarico da parte di un terrorista serbo a Sarajevo bastò a scatenare la Grande Guerra. Già allora si diceva: da entrambe le parti si mettono in mostra tanti cannoni, che inevitabilmente prima o poi si finisce con lo spararsi e dopo non c’è modo di tornare indietro. Oggi la flotta statunitense sta muovendo verso la zona, sono state mandate due nuove portaerei, si stanno per inviare nuovi contingenti militari in Iraq, è stato richiesto un contributo straordinario per la Difesa (700 miliardi di dollari)... Evidentemente sono pronti a consolidare la politica della guerra infinita, ideata dai neoconservatori quale mezzo per rimodellare a proprio piacere il mondo successivo alla disgregazione dell’URSS, accaparrandosi il controllo delle risorse ed impedendo agli avversari d’accedervi. Il solo metodo per realizzare questa strategia è quello d’utilizzare l’argomento della guerra preventiva», commenta Mele.

 

  • USA / Iran. 3 aprile. Per Mele, il fatto che la politica condotta da Bush e Cheney incontri una resistenza interna tra la popolazione, settori democratici e persino nel mondo militare non è rilevante: «tutti questi elementi, al momento di prendere le decisioni, sono completamente irrilevanti per la Casa Bianca, essendo in gioco la grande partita per il dominio geopolitico ed energetico mondiale, ed in più –almeno secondo i neoconservatori– anche la sopravvivenza dello Stato d’Israele: e gli interessi strategici nordamericani nella regione stanno al primo posto per qualsiasi amministrazione, repubblicana o democratica che sia». Stilato il quadro generale, l’analista argentino passa in rassegna alcuni dei principali segnali di allarme degli ultimi mesi. Ad esempio l’allarme di Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale nel governo del presidente Jimmy Carter, di fronte alla commissione del Senato sulle relazioni con l’estero, (febbraio 2007), «secondo cui alcuni settori degli Stati Uniti potrebbero organizzare (o quantomeno non ostacolare) un nuovo attentato terrorista per sfruttarlo quale pretesto di una guerra già pianificata contro l’Iran». O i ripetuti avvertimenti di generali russi. Mele rileva inoltre che «esiste una nuova dottrina nucleare statunitense per l’utilizzo preventivo delle armi atomiche tattiche, conosciuta come CONPLAN 8022, che fu posta in essere dall’ex segretario alla difesa Donald Rumsfeld ed è tutt’oggi in vigore. Quasi sicuramente essa s’applica alla situazione bellica e geopolitica del Vicino Oriente, perché fa parte di una tattica militare della guerra preventiva, come fu il lancio delle bombe atomiche sul Giappone (paese già praticamente arreso) per spaventare l’URSS».

 

  • USA / Iran. 3 aprile. Il network statunitense ABC manda un servizio che mostra miliziani sunniti di Jundallah, i «soldati di Allah», partire dal Pakistan per andare a compiere, sostenuti dagli 007 di Washington, attentati in Iran. Nessuna smentita dall’amministrazione Bush al lungo servizio giornalistico preparato da Brian Ross e Christopher Isham. I miliziani sunniti di Jundallah, una organizzazione estremista sunnita, partono dalla regione pakistana ricca di gas del Beluchistan, per andare a compiere attentati sanguinosi in territorio



    iraniano (dove vivono un milione di baluchi). Un appoggio di cui, hanno riferito alla ABC fonti governative pakistane, hanno discusso il presidente pakistano Pervez Musharraf e il vice presidente statunitense Dick Cheney durante il loro incontro a febbraio. Il servizio della Abc ha di fatto evidenziato come Washington invada altri paesi in nome della «lotta al terrorismo» e allo stesso tempo lo sostenga e lo alimenti contro gli Stati che considera nemici, come l’Iran.

 

  • USA / Iran. 3 aprile. Jundallah, che formalmente lotta per l’indipendenza del Baluchistan e delle regioni iraniane abitate da baluchi, è una organizzazione formata da centinaia di militanti che nell’ideologia e nel modo di combattere assomiglia molto ai talebani. E il suo capo e fondatore (nel 2003), Abdel Makel Rigi, è proprio un ex talebano con un passato di narcotrafficante che si vanta di aver personalmente decapitato lo scorso anno alcuni degli otto militari iraniani fatti prigionieri dai suoi uomini. Due mesi fa una autobomba lanciata contro un autobus di pasdaran (guardie della rivoluzione) a Zahedan, capoluogo della provincia di Sistan-Baluchistan (una regione dove negli ultimi 25 anni quasi 4mila persone sono morte nella guerra condotta dall’Iran contro i narcotrafficanti), che ha ucciso 11 militari e ferito altri 31, è stata rivendicata da Jundallah: i pasdaran si accingevano a dare il cambio ai loro commilitoni quando sono stati raggiunti da intense raffiche di mitra e non hanno neppure avuto il tempo di reagire. Il gruppo islamico sostiene inoltre di avere nelle sue mani altri soldati e ufficiali dell’esercito iraniano e minaccia di ucciderli. Dopo la strage di Zahedan il Centro studi strategici statunitense Stratfor aveva indicato che dietro quell’attentato e altre attività armate contro Teheran avrebbe potuto esserci la mano di Washington, interessata a gettare benzina sul fuoco della rivolta etnica e religiosa in modo mettere sotto pressione il regime iraniano.

 

  • Perù. 3 aprile. Washington pensa di trasferire in Perù i militari attualmente di stanza a Manta, in Ecuador, dopo la decisione di Quito di non rinnovare nel 2009 la concessione della base. Washington avrebbe già fatto i primi passi presso il governo di Lima, che si sarebbe dimostrato favorevole. Recentemente il ministro della Difesa di Lima, Allan Wagner, si è recato negli Stati Uniti con il comandante in capo delle forze armate peruviane, ammiraglio Montoya, per discutere di «cooperazione militare» con il capo del Pentagono, Robert Gates. Nel frattempo il governo García ha autorizzato l’ingresso in territorio peruviano di truppe statunitensi, che in aprile addestreranno le forze di sicurezza locali nella lotta presuntivamente «contro il narcotraffico».

 

  • Libano. 4 aprile. Le operazioni per rimuovere le mine e gli ordigni inesplosi che infestano il sud del Libano saranno portate a termine entro il 2011. Sono le previsioni del Comitato nazionale per lo sminamento riportate oggi dal quotidiano L’Orient-le Jour di Beirut. Solo durante il conflitto tra Israele e Hezbollah dell’estate scorsa, l’aeronautica israeliana ha riversato sul sud del paese oltre un milione di bombe a grappolo, che da allora hanno causato almeno 224 vittime, tra cui 29 persone che hanno perso la vita dopo la fine del conflitto, il 14 agosto. Almeno 155 i villaggi contaminati da ordigni e bombe inesplose su una superficie di 35 milioni di metri quadrati.

 

  • Iran / Gran Bretagna. 4 aprile. L’Iran libera i 15 marinai britannici dopo che il governo di Londra ha inviato al ministero degli Esteri di Teheran «una lettera in cui si impegna a non violare più la sovranità territoriale iraniana». Lo ha dichiarato oggi il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad in conferenza stampa. Una lettera, ha aggiunto Ahmadinejad, che non era una condizione per il rilascio dei prigionieri. «La decisione è stata dettata da un sentimento di pietà islamica, e non ci aspettiamo niente in cambio», ha affermato il presidente. I 15 militari avevano sconfinato, il 23 marzo, nelle acque iraniane dello Shatt al Arab dal vicino Iraq, circostanza all’inizio smentita da Londra. Ahmadinejad ha incontrato e salutato uno ad uno gli ormai ex prigionieri, sorriso e scherzato con loro, dicendosi dispiaciuto che quella in Iran sia stata per loro «una visita forzata». Prima della liberazione dei marinai, Ahmadinejad ha decorato il comandante delle forze che avevano arrestato i quindici, Aboul Ghassem Ammanghah.

 

  • Iran / USA. 4 aprile. Sequestrato e torturato dalle forze USA con la complicità dei servizi segreti iracheni. È la denuncia di Jalal Sharafi, un diplomatico iraniano rilasciato ieri a Baghdad, dove era stato rapito in febbraio, alla vigilia proprio dell’annuncio del presidente iraniano della liberazione dei 15 marinai britannici arrestati per aver sconfinato in acque iraniane. Una coincidenza che ha fatto pensare a un possibile “scambio”. «Sharafi», scrive un’agenzia di stampa iraniana, la Fars, «ha detto di essere stato torturato e ha mostrato ferite sul suo corpo, per le quali viene ora curato». Il diplomatico, aggiunge l’agenzia, ha detto di essere stato sequestrato, mentre faceva spese in una via di Bagdad, da un gruppo di uomini armati che avevano tesserini di riconoscimento del ministero della Difesa iracheno. Sharafi ha poi detto di essere stato condotto «in una base militare vicino all’aeroporto», dove è stato interrogato. «Alcuni agenti della CIA», ha detto ancora Sharafi, «facevano domande sull’influenza dell’Iran in Iraq e volevano avere notizie sugli aiuti di Teheran al governo di al Maliki, ai gruppi sciiti, sunniti e kurdi. Quando ho parlato loro delle relazioni ufficiali tra i governi iraniano e iracheno, mi hanno torturato ancora più duramente, giorno e notte».

 

  • Afghanistan. 4 aprile. Creano un nuovo partito per ridurre il potere di Karzai. Vecchi comandanti mujaheddin, comunisti e un membro della famiglia reale afgana –avversari nel passato– hanno annunciato ieri la creazione di un nuovo partito al fine di ridurre il potere del presidente, Hamid Karzai, far fronte all’insicurezza e all’alto livello di corruzione del governo. Il partito, Jabhe-ye-Motahed-e-Melli (Fronte Unito Nazionale), è guidato da membri dell’attuale amministrazione di Karzai e dall’ex presidente Burhanuddin Rabbani. Si dicono delusi dal presidente Karzai che li avrebbe esclusi dal potere e tagliati fuori dai giochi e propongono la revisione della Costituzione, un piano di riconciliazione nazionale che prevede di negoziare coi taliban e l’elezione di sindaci e governatori, adesso nominati dall’alto. Un modo per (ri)affermare il potere territoriale dei signori della guerra dicono i maligni, un modo per far valere le regole della democrazia, dicono i testimoni della nuova formazione.

 

  • Ucraina / USA / Russia. 4 aprile. Da alcuni giorni è scoppiata a Kiev una seria crisi istituzionale. Una crisi che va compresa innanzitutto a partire dal conflitto USA – Russia per l’ingerenza nel Paese. Washington mira all’adesione dell’Ucraina alla NATO e all’Unione Europea. Mosca ha invece sempre considerato l’Ucraina come una regione strategica fondamentale, sia per motivi difensivi (è stata più volte una via di invasione della Russia), che offensivi (basi sul Mar Nero che consentono una proiezione di potenza nel Mediterraneo). Per questo motivo, dopo la II Guerra Mondiale, Stalin impiegò buona parte delle sue risorse di violenza (arrivando anche al genocidio) per annientare completamente lo spirito indipendentista ucraino, sia prima che dopo la II Guerra Mondiale. Venne costruito un sistema di interdipendenza economica con la madre Russia che ancora oggi mostra i suoi effetti. Dopo la dissoluzione dell’URSS e la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina, il nuovo presidente Leonid Kuchma (eletto nel 1994) negli ultimi anni del suo mandato ha infatti dovuto prendere atto dell’influenza russa ed invertire il suo precedente schiacciamento sugli USA. Ecco dunque congelata la prospettiva di ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea e nella NATO e rallentate le riforme economiche pretese dall’Occidente.

 

  • Ucraina / USA / Russia. 4 aprile. Alla fine del 2004, con la “rivoluzione arancione” finanziata da Washington, si impedì la nomina a presidente dell’Ucraina del delfino di Kuchma, Viktor Yanukovich. Trionfò il filo-occidentale Viktor Yushchenko. In quell’occasione si pensava che la Russia non avrebbe accettato la sconfitta e si diffondevano voci sulla possibile nascita di un movimento secessionista filo-russo nelle regioni industriali dell’Est. La Russia da allora ha impresso una direzione alla sua politica estera volta alla conquista di maggiori spazi d’influenza nel Caucaso, in Asia Centrale e nell’est europeo (cfr. la politica di oleodotti e gasdotti) ma anche in Medioriente, con l’appoggio a Siria ed Iran. Nel caso ucraino, comunque, la Russia si tenne alla finestra approfittando delle conflittualità nel fronte filo statunitense, in particolare tra Yushenko e la Timoshenko.

 

  • Ucraina. 4 aprile. Il candidato filo-russo Yanukovich cominciò a rimontare, assorbendo nella propria coalizione politica nuovi gruppi parlamentari che avevano abbandonato la maggioranza. Nel marzo del 2006 il suo gruppo vinse le elezioni parlamentari e il presidente Yushchenko fu costretto a cedergli il ruolo di primo ministro. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, la “coabitazione” si mostrò da subito impraticabile. La crisi istituzionale è peggiorata parallelamente al deterioramento dei rapporti tra la Russia e gli Stati Uniti. Il 30 gennaio saltò il ministro degli esteri Boris Tarasyuk, fedele alla linea filo-USA di Yushchenko e sostenitore dell’adesione di Kiev alla NATO: Yanukovich gli rendeva impossibile praticare questa politica. Un analista russo vicino al Cremlino, intervistato da Radio Free Europe, aveva così commentato le sue dimissioni: «La linea di Boris Tarasyuk era una politica di provocazione contro la Russia». Nel frattempo, la maggioranza di governo di Yanukovic stava avvicinandosi, acquisto dopo acquisto, alla soglia dei 300 deputati necessari per passare oltre il diritto di veto presidenziale e modificare la costituzione.

 

  • Ucraina. 4 aprile. Il casus belli che ha spinto il presidente ucraino a sciogliere il parlamento per «atti incostituzionali» è stato il passaggio di 11 deputati d’opposizione nei ranghi della maggioranza governativa. La costituzione prevede che solo i gruppi parlamentari, non i singoli deputati, possano «cambiare di campo». A passare col governo sono stati deputati del partito di Yushenko “Nostra Ucraina” e del partito, suo alleato, dell’ex premier Yulia Timoshenko; la stessa nascita del governo, del resto, era stata resa possibile l’estate scorsa con il passaggio del Partito socialista di Oleksandr Moroz dal “Blocco arancione” al “Blocco rosso-azzurro”, l’alleanza fra Partito delle regioni, Partito comunista e gruppi minori. E così, dopo mesi di tensione, e fallite le ultime trattative con la maggioranza parlamentare pro-russa, il presidente filo USA Yushenko ha sciolto il 2 aprile la Rada (il Parlamento) e ha indetto elezioni anticipate per il 27 maggio. La difficile “coabitazione” tra il capo di Stato filo USA ed il premier filo russo è durata in tutto otto mesi. La Rada si è subito riunita in seduta straordinaria, e ha approvato una risoluzione che boccia il decreto, definendo la posizione del presidente un passo verso un colpo di Stato. Dopo il voto del Parlamento, il ministro della Difesa Anatoly Grytsenko ha detto che l’esercito ucraino obbedirà al presidente. Si riaccende così la protesta di piazza a Kiev, dove a decine di migliaia si sono riuniti i sostenitori di “Nostra Ucraina” di Yushenko e del partito delle Regioni di Yanukovic. Il presidente recita un ultimatum, in cui pone sette condizioni, tra cui una serie di riforme per riequilibrare i poteri dello Stato e il divieto per i parlamentari di passare ad altri partiti. Yushenko, che ha rinviato sine die la prevista visita a Mosca, continua a definire come «incostituzionale» l’allargamento della maggioranza.

 

  • Ucraina. 4 aprile. «Non accettiamo l’ultimatum postoci dal presidente. È lui che sta andando ben oltre i poteri conferitigli dalla costituzione», ha tuonato Yanukovic, favorevole a legami –economici e politici– più stretti con Mosca, che ha minacciato di voler estendere il ricorso anticipato alle urne anche per eleggere il presidente e ha chiesto alla Corte costituzionale di intervenire. Rimangono incerti quali potrebbero essere a breve gli sviluppi della situazione, dopo che Parlamento e governo avranno deciso di andare avanti sfidando l’autorità presidenziale. C’è chi paventa una spaccatura nel Paese fra l’ovest filo-USA e e le province filo-russe dell’est. Già la penisola di Crimea (abitata in maggioranza da russofoni) si è apertamente schierata con Yanukovic e la Rada. Il presidente Yushenko, in qualità di capo delle Forze armate, ha affermato che non vi saranno prove di forza. Ma i vertici militari hanno mantenuto un totale silenzio e nessuno è in grado di dire se si terranno fuori dal conflitto sociale. Da Bruxelles è intanto giunto un forte appello a «risolvere la crisi politica in modo consensuale e senza conflitti», ma lo scenario non è facile. Anche a Mosca  il ministro degli esteri Serghei Lavrov ha affermato che «la soluzione alla crisi deve essere trovata nel dialogo delle forze politiche».

 

  • Ucraina. 4 aprile. Se si andrà a nuove elezioni, recenti sondaggi elettorali affermano che difficilmente l’opposizione filo USA potrà ribaltare la situazione nelle urne. Il governo, infatti, è riuscito a migliorare la situazione economica della popolazione. E il timore che Mosca chiuda di nuovo i rubinetti energetici può fare il resto. Un ruolo di primo piano lo ricoprirà comunque Yulia Timoshenko, altra protagonista della “rivoluzione arancione”, leader di un partito che ha cambiato molte volte posizioni: alleato di Yushenko due anni fa, poi diventato suo nemico dopo la cacciata della stessa Timoshenko dal posto di premier, quindi di nuovo alleato per contrastare –senza successo– l’ascesa al governo di Yanukovich. Il suo partito nelle elezioni del 2006 ha superato quello di Yushenko, e dovrebbe secondo i sondaggi incrementare i propri consensi.

  • USA / Iraq. 4 aprile. La Camera dei Rappresentanti ha approvato lo stanziamento dei 134 miliardi e la scadenza indicata per il ritiro parziale delle truppe –il 1° settembre 2008– potrà essere evitata dal Capo dell’Esecutivo con una semplice informativa al Congresso sui progressi registrati entro i prossimi 17 mesi e sulla necessità di stanziare altri fondi necessari a prolungare l’occupazione dell’Iraq. È stata la stessa Nancy Pelosi, nuova leader democratica della Camera, a fornire ulteriori chiarimenti sui compiti delle forze USA da ridislocare in Iraq qualora Bush dovesse accogliere la scadenza indicata: «Potranno essere impiegate solo per operazioni anti-terrorismo, per l’addestramento dell’esercito irakeno e per la protezione del personale diplomatico». Più o meno gli stessi compiti menzionati da Bush il 10 gennaio quando decise di inviare altre truppe. Più generica e ancor meno vincolante la scadenza del marzo 2008 indicata dal Senato per ridislocare il corpo di spedizione a rifinanziamento avvenuto del suo incremento numerico. Il capo gruppo democratico della Camera alta, Senatore Harry Reid, ha assicurato che i soldati non verranno comunque rimpatriati ma trasferiti in Afghanistan «per combattere Al Qaeda».

 

  • USA / Iraq. 4 aprile. Decine e decine di miliardi per completare l’allestimento di 14 grandi basi in Iraq e per il potenziamento della “Zona Verde” nella capitale (dove si trovano l’ambasciata USA più grande del mondo, i ministeri irakeni e  dozzine di compagnie paramilitari USA). Lo si legge tra gli atti del Congresso sulle voci del bilancio della difesa che, senza lo stanziamento suppletivo di 134 miliardi, ammontava già a circa 500 miliardi di dollari. Quattro delle basi, con piste di atterraggio lunghe quattro e cinque miglia per bombardieri strategici, occupano aree di 25 km2: su quella di Anaconda stanno per essere ultimate abitazioni per 21.000 soldati, quella di Camp Taji disporrà di una metropolitana, di catene di Mc Donald, Burger King e Pizza Hut; un immenso lago artificiale circonderà Camp Victory con abitazioni per 14.000 militari, alberghi e sale di conferenze in cemento armato. Tutte le basi ad eccezione della “Green Zone” sono dislocate in località lontane dai centri abitati perché si è appresa a caro prezzo la lezione di Ho Chi Minh: «Gli americani possono essere combattuti solo da vicino, afferrandoli per la cintura».

 

  • Italia / USA. 5 aprile. «Quelle imbarazzanti 90 atomiche in giardino». È il servizio di Rainews24, il canale satellitare ‘tuttonotizie’ della Rai, sulla presenza di 480 bombe atomiche in Europa, 90 solo in Italia tra la base NATO di Aviano (Pordenone) e quella italiana di Ghedi (Brescia). Sul sito di Rainews24 si può leggere che –a cura di Mario Sanna, Angelo Saso e Maurizio Torrealta– sono stati intervistati Hans M. Krinstensen, autore del rapporto sulle atomiche in Europa per la Nrdc, e alcuni cittadini di Aviano che hanno citato in giudizio civile il governo degli Stati Uniti con la richiesta che vengano rimosse le armi atomiche presenti ad Aviano, perché, secondo loro, «pericolose ed in contrasto con il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, sottoscritto e ratificato dall’Italia, che sancisce l’obbligo per il nostro paese di non ospitare ordigni nucleari e per un paese nucleare, come gli USA, l’obbligo di non dispiegare tali armamenti al di fuori del proprio territorio».

 

  • Italia. 5 aprile. Il ministro della Difesa Arturo Parisi ha confermato ieri, a margine della cerimonia di giuramento degli allievi del corso Grifo V, dell’Accademia aeronautica militare di Pozzuoli (Napoli), l’invio in Afghanistan di due aerei “Predator”.

 

  • Russia / Iran. 5 aprile. «I nostri contatti con la controparte americana non lasciano intendere che domani gli Stati Uniti attacchino l’Iran». Lo ha dichiarato il funzionario del ministero degli Esteri russo Aleksandr Losiukov, commentando la notizia secondo la quale domani, alle 4 di mattina, prenderà il via l’aggressione militare statunitense nei confronti della Repubblica islamica. In precedenza i mass-media sia russi che stranieri, citando una fonte anonima dell’intelligence militare russa, avevano diffuso la notizia secondo la quale venerdì 6 aprile alle 4 di mattina, gli Stati Uniti avrebbero dato il via ad un’operazione militare nei confronti dell’Iran della durata minima di 12 ore e denominata in codice “Bite” (Morso), che prevedeva un attacco aereo nei confronti dei siti nucleari iraniani al fine di bloccare a lungo termine il programma nucleare della Repubblica islamica. Va considerato, in relazione a quanto dichiarato dall’alto funzionario russo, che la liberazione dei 15 marinai britannici da parte delle autorità iraniane ha contribuito ad affievolire la tensione attorno al possibile attacco statunitense, privando inoltre gli Stati Uniti di almeno un pretesto per aggredire l’Iran.

 

  • Russia / Iran / USA. 5 aprile. Nonostante le affermazioni del ministero degli Esteri russo, altre fonti sostengono però che il Pentagono abbia solamente rinviato l’aggressione militare nei confornti dell’Iran. Ad esempio il quotidiano del Kuwait Arab Times, citando fonti governative anonime di Washington, sostiene che gli Stati Uniti attaccheranno i reattori e gli impianti nucleari dell’Iran entro la fine del mese. Il giornale kuwaitiano afferma inoltre che alcuni dipartimenti della Casa Bianca avrebbero già preparato il discorso con cui il presidente USA Bush annuncerà e spiegherà all’opinione pubblica statunitense e mondiale, presumibilmente a seguito della prima offensiva aerea, i motivi che hanno indotto gli Stati Uniti ad attaccare l’Iran.

 

  • Russia / Iran / USA. 5 aprile. Di opinione leggermente diversa rispetto a quella del quotidiano del Kuwait è invece il direttore dell’Accademia delle Scienze armena Ruben Safrastian, il quale in occasione di una conferenza stampa tenutasi nella capitale armena Erevan, ha dichiarato che non è in previsione, perlomeno nell’immediato futuro, un’attacco statunitense nei confronti dell’Iran. «Esiste la guerra d’informazione in grado di manipolare l’opinione pubblica verso l’inevitabilità del conflitto, così come esiste un pressing diplomatico. Ma fino alla fine di maggio, cioè quando scadrà l’ultimatum dell’ONU, gli Stati Uniti non ricorreranno alla forza nei confronti dell’Iran. A fine maggio nel Golfo Persico giungerà la terza flotta statunitense la quale, secondo quanto dichiarato dal Pentagono, dovrebbe sostituire quella attualmente dislocata. Non va inoltre dimenticato il fatto che l’isolamento dell’Iran non ha ancora raggiunto il livello desiderato dagli Stati Uniti», ha dichiarato Safr