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Eltsin, lo Zar che distrusse l'Urss

di Carlo Benedetti - 24/04/2007

 

Boris Nikolaevic Eltsin passa alla storia per aver ordinato il bombardamento del Parlamento, per aver posto la sua firma nell’atto di scioglimento dell’Unione Sovietica, per aver combattuto contro il sistema socialista dell’Urss, per aver gettato le basi di un capitalismo selvaggio. E soprattutto per essere stato uno zar rozzo, inflessibile e astuto: espressione di una potenza irrazionale, convinto di voler e poter rifare tutto da capo. Non, comunque, un liberale impegnato sul terreno delle riforme democratiche, ma un populista capace di cogliere gli umori della gente. Era arrivato al vertice sull’onda lunga di una lotta alla corruzione e ai privilegi della nomenklatura, ma una volta al Cremlino si era scordato platealmente di tutto. E’ stato – ricordiamolo - il primo presidente della Russia - dal 1992 al 2000 – sino a quando lasciò il Paese nelle mani di Vladimir Putin. Travolto da scandali, circondato da oligarchi e mafiosi, è stato in tutti questi anni in chiaro declino fisico e psicologico. E’ morto a 76 anni. Ed ora il Cremlino – “liberatosi” della ingombrante presenza – potrà riuscire a fare i conti con la storia dell’intero periodo della transizione post-sovietica. E vedere, forse, le cose più obiettivamente, gettando nuova luce su una gestione che si caratterizzò con intrighi e lotte di palazzo.

Se si mettono su una bilancia gli aspetti e i risultati della sua politica interna ed internazionale si scopre, senza difficoltà, che il piatto del negativo pesa di più di quello del positivo. E si vede subito, con l’occhio della politologia attuale, che il suo patron fu Clinton e con lui i narcotrafficanti. Anche per il fatto che l’Occidente approfittò della perestrojka di Gorbaciov (un personaggio convinto di poter superare i problemi gestionali con gli aiuti dall’Ovest) per soddisfare i propri interessi strategici verso l’Urss.

E anche la mafia mondiale della droga ne approfittò facendo della Russia eltsiniana una sua base operativa. Ed oggi si ricordano, in particolare, quei periodi in cui (1989-1990) i radical-democratici, quali Eltsin e il sindaco di Mosca Gavriil Popov, costruivano la loro popolarità su slogan come: “Più democrazia”, “Tutto il potere ai Soviet” (liberati dalla tutela del partito unico), lotta “per una giustizia sociale” e “contro i privilegi”.

In realtà nasceva in quei momenti la strategia eltsiniana che doveva portare il paese ad un sistema di nuovo stampo zarista e con una serie di nuovi problemi nel panorama della politica internazionale e nella carta geografica del mondo. Tutto questo perché la presenza dell'Unione Sovietica aveva da sempre costituito anche un deterrente rispetto alle rivendicazioni autonomiste delle diverse componenti etniche interne agli Stati satelliti. Il timore di un intervento militare sovietico in caso di guerra civile rendeva, infatti, molto cauti i Paesi del blocco.

Eltsin – da esperto delle cose del vertice politico – doveva essere ben consapevole che la dissoluzione dell'Urss avrebbe aperto gli argini alle rivendicazioni di tutti i paesi dell’area. Ma non volle bloccare i processi. Anzi li facilitò con le sue indicazioni a prendere più autonomia possibile. E così l’irrompere del nazionalismo fu sanguinoso all’interno dell'ex area sovietica.

Tutto questo mentre in Cecenia la spinta indipendentista era combattuta aspramente dalla Repubblica russa. Con l'esercito che invadeva la Cecenia nel dicembre del 1994 e il 1° gennaio 1995, ingaggiando un'aspra battaglia con gli autonomisti, occupava la città di Grozny. Poi Mosca, dopo aver respinto una proposta di trattativa del leader ceceno Dudaev, in concomitanza con le elezioni presidenziali del 1996, prometteva il ritiro delle sue truppe. Ma Eltsin non tenne fede agli impegni. E così sul ruolo di questo ex presidente ora scomparso pesa tutta la vicenda della Cecenia. Pesa quel genocidio attuato dalla forze armate del Cremlino. E c’è, in proposito, una concreta documentazione presentata nel 1999 alla Duma con uno Eltsin che figura, appunto, come “imputato di genocidio”.

I problemi sono anche altri, tutti relativi alla nuova leadership russa venuta avanti dopo la fine di Eltsin come presidente. Intanto c’è sempre aperta quella pagina del passaggio delle consegne a Putin. Perché non si è ancora trovata una risposta a quell’interrogativo relativo alla figura del nuovo inquilino del Cremlino. Come e perché è arrivato alla corte? E quali sono stati i patti segreti fatti con il vecchio esponente del vertice? C’è, quindi, un passato imbarazzante che da luogo – oggi più che mai – a nuove riflessioni. Tanto più che il seggio di Putin sta scricchiolando sotto il peso delle proteste che, a macchia d’olio, investono la Russia di oggi.

Altre questioni – sempre in riferimento all’era di Eltsin - riguardano una pagina di storia che non è mai stata approfondita. Si riferisce al momento in cui Eltsin firmò lo scioglimento dell'Urss senza tener conto del referendum del 17 marzo 1991, in cui gli elettori erano stati chiamati a rispondere sul mantenimento dell’Urss. La maggioranza dei sovietici (circa il 75 - 80%) rispose affermativamente, ma tale volontà venne ignorata da Eltsin, il quale in forma segreta e spinto da alcuni capi di Stato occidentali, firmò gli accordi che prevedevano lo scioglimento dell'Unione Sovietica.

Ora questa pagina potrebbe essere riaperta e sulla figura di Eltsin ricadrebbero nuove e pesanti accuse. E Putin – questa la novità della situazione – si troverebbe a dover difendere un personaggio che vorrebbe invece dimenticare. E far dimenticare.