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Dâr Fûr (IX)

di Miguel Martinez - 25/04/2007

 

Oggi, la grande via del deserto che porta i migranti in fuga dal Corno d'Africa, verso la Libia e l'Italia, evita il Darfur, aggirandolo a nord; ma l'equivalente storico di questa strada, un tempo, aveva inizio proprio nel Darfur.

Si trattava della Via dei Quaranta Giorni, il darb al-arba'in, lo spaventoso percorso, già descritto da Erodoto e seguito ogni inverno da carovane di migliaia di cammelli e uomini. Per caricare zanne di elefante, spezie e schiavi.

Lungo queste strade si sono gonfiati regni che appaiono come enormi macchie di colore sulle mappe dell'Africa precoloniale. 

Come predicano gli anarcoliberisti, ogni commercio, nel suo fluire, arricchisce il lavoratore virtuoso: il cuoco dell'autogrill, il meccanico, il rapinatore, il venditore di fazzoletti, il casellante, l'autista e la prostituta.

E quindi assursero a grandi ma effimere potenza e ricchezza, sia i Fur che i Baggara: cioè le due popolazioni che oggi, almeno nella rappresentazione mediatica, costituiscono gli avversari nel Darfur.

Questo offre il pretesto per qualche divagazione in materia di schiavitù.

La schiavitù, o il suo immaginario, ha giocato un ruolo notevole nella percezione mediatica della guerra civile nel sud del Sudan, grazie a una pittoresca nobildonna inglese, l'ex-infermiera e baronessa Caroline Cox.

La baronessa Cox, a capo di un gruppo fondamentalista evangelico denominato Christian Solidarity International, aveva lanciato una campagna in cui accusava "milizie arabe filogovernative" di condurre razzie di schiavi tra i Dinka del Sudan meridionale.

E' difficile documentare quanto vi sia di vero, quanto di falso e quanto si basi, invece, su malintesi: ad esempio, la tradizionale prassi di prendere, o di scambiare, ostaggi tra i villaggi. Certamente tutti, dall'ONU a Antislavery International, hanno smentito la tesi di fondo della baronessa.

La baronessa raccolse fondi nel mondo cristiano per comprare e liberare i presunti schiavi.

I media hanno documentato alcuni episodi tragicomici, in cui i ricchi donatori inglesi e americani si facevano spennare in teatrali mercati di schiavi appositamente allestiti dai movimenti di guerriglia, comprando e ricomprando gli stessi bambini, già ovviamente liberi.

La schiavitù è la forma normale del lavoro dipendente nella società familistica, prima del trionfo del denaro. Non veniva messo in dubbio né a Pechino, né a Livorno: in quest'ultima città, un cronista, nel 1616, stimò a 3.000 gli schiavi "turchi"  - il 37% della popolazione (1).

La stessa esistenza di vincoli aguzza l'ingegno: il divieto islamico di ridurre in schiavitù altri musulmani, nonché di compiere mutilazioni corporee, ha creato presto una forma lodevole di ecumenismo. I cristiani tedeschi razziavano gli slavi, ancora pagani, e li rivendevano agli ebrei. Che non non avevano problemi a castrare i giovani pagani. A quel punto, nemmeno il più pignolo dei mufti poteva trovare qualcosa da ridire, se un emiro dell'Andalusia acquistava dagli ebrei il prodotto umano da altri condito e conciato.

La schiavitù non è separabile da tutti gli altri rapporti umani dell'Africa precoloniale. Fa piuttosto

"parte di un continuum di rapporti, che se da un lato rientrava nel regno della parentela, dall'altro consentiva l'uso di persone come oggetti. La schiavitù è una combinazione di elementi, che nelle sue varie forme - basta un ingrediente in più o in meno - si trasforma in adozione, matrimonio, patria potestà, obbligo nei confronti dei parenti, clientela e così via".[2]

Il contratto implicito obbliga a porsi a servizio in cambio dell'inserimento in una famiglia e del mantenimento a vita.

Nella schiavitù africana prevale l'aspetto personale: l'allargamento familiare, il prestigio, l'affetto, la crudeltà individuale.

Tutt'altra storia dalla schiavitù delle Americhe, dove non ci fu adozione, ma meccanizzazione - in mancanza di un'apposita macchina, serve per raccogliere prodotti che poi vengono a loro volta pagati con il denaro.

Tutti sappiamo come i colonialisti bianchi abbiano menato vanto di aver "abolito la schiavitù".

Ma i colonialisti scoprirono quasi subito che il denaro non serviva a far lavorare come volevano loro gli africani, interessati soprattutto a coltivare i propri piccoli campi. Senza esitare, reintrodussero quindi la schiavitù sotto forma di lavori forzati: a dimostrazione di quanto sia mistificatoria l'idea che schiavitù e lavoro retribuito siano opposti l'una all'altro.

Nel 1887, il colonnello francese, Gallieni, in linea con tutta la retorica dell'Occidente, ideò i "villages de liberté", in cui gli schiavi liberati venivano condotti ai lavori forzati; e sui lavori forzati si basò tutta l'economia, privata e pubblica, dell'Africa Occidentale francese, fino al 1946 e oltre:  i campi di lavoro sovietici e tedeschi avevano dei degni precedenti.

Nel 1885, il re del Belgio, Leopoldo, si impossessò personalmente del Congo, proclamando una missione degna delle Nazioni Unite:

"abolire la tratta degli schiavi, stabilire la pace tra i capi e procurare loro un arbitro giusto e imparziale"

Nel corso di questa missione umanitaria, l'intero paese fu saccheggiato alla ricerca di gomma naturale, non ancora coltivata industrialmente. Tenendo ovviamente presente la natura incerta di ogni statistica in materia, il più serio studioso dell'impresa di Leopoldo, Adam Hochschildt, stima che sia costata la vita a qualcosa tra i cinque e gli otto milioni di nativi africani.[3]

Ma a dimostrazione della nostra percezione delle cose, sul Congo

"non c'è nemmeno una parola nel libro di Chalk e Jonassohn, The History and Sociology of Genocide, in Genocide di Kuper e nell'Encyclopedia of Genocide in due volumi di Charny.

Troviamo invece un solo paragrafo, senza alcuna stima delle perdite, nel Century of Genocide di Totten, Parsons e Charny."

 Su scala minore, i coloni italiani dell'Uebi Scebeli, in Somalia, negli anni Venti, coltivavano i loro prodotti per l'esportazione - cotone, banane e altro - con una manodopera di 7000 schiavi somali; come denunciava il coraggioso segretario federale fascista della Somalia, Marcello Serrazanetti, i proprietari italiani avevano aggiunto un tocco liberale alla schiavitù.

Tradizionalmente, infatti, questa pratica obbligava i padroni all'assistenza a vita agli schiavi anziani e invalidi; ma i padroni italiani, appena i loro schiavi si ammalavano, li lasciavano a godere della propria libertà  e chiedevano la sostituzione al "competente Ufficio Governativo". Imitando, così, gli astuti mercanti della Ragusa dalmata, che erano soliti liberare i propri schiavi dopo aver loro rubato la gioventù.

Serrazanetti fu destituito da Mussolini, i "concessionari" italiani restarono.(4)

Quella italiana divergeva quindi dalla schiavitù tradizionale del mondo africano e islamico, che  in fondo è il contrario del lavoro flessibile.

Infatti, in una celebre intervista a Horace Greeley, Brigham Young, l'apostolo dei mormoni, dichiarò la schiavitù una "istituzione divina", fondata sulla maledizione di Cam e dei suoi discendenti; ma precisava anche che lui stesso aveva solo lavoratori liberi, perché, diceva, gli schiavi costavano troppo: i mormoni avevano fatto il primo passo verso la cultura del call center e del lavoro interinale.

Note:

[1] Stefano Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, 2003, p. 110.

[2] S. Miers e I. Kopytoff, Slavery in Africa: Historical and Anthropological Perspectives, University of Wisconsin Press, Madison, 1977, p. 66, citato in John Reader, Africa. Biografia di un continente, Mondadori, 2001, p. 246.

[3] Adam Hochschild, Gli spettri del Congo: re Leopoldo II del Belgio e l'olocausto dimenticato, Rizzoli, Milano.

[4] Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza, 2005, pp. 156 ss.