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Il cervello comandato dalla luce

di Andrea Lavazza - 29/04/2007

Manipolando proteine sensibili alle lunghezze d’onda del blu e del giallo siamo già riusciti a far muovere a piacimento un verme: si aprono straordinari orizzonti di cura, ma si avvicinano anche gli spettri di quella fantascienza che profetizza uomini-robot diretti a distanza

 

L’epilessia potrebbe essere alleviata con il comando specifico di alcune cellule. Ed è anche pensabile l’impianto di fibre ottiche per «interventi» mirati, una sorta di stimolazione cerebrale profonda ben più precisa e durevole di quella che oggi si usa contro il Parkinson

 

Nel migliore dei casi, avremo cure miratissime per malattie per ora intrattabili, dall'epilessia al morbo di Parkinson. Nel peggiore, rischierà di materializzarsi l'incubo del film The Manchurian Candidate, in cui a un reduce della Guerra del Golfo viene impiantato un fantascientifico congegno grazie al quale il suo comportamento può essere "pilotato" dall'esterno in alcuni momenti chiave della sua carriera politica. Una recente serie di scoperte legate ai nostri meccanismi cerebrali sembra aprire la porta a un "controllo a distanza" di organismi geneticamente modificati. Come spesso accade nella scienza, le acquisizioni più rilevanti sono in parte casuali e in parte derivate da ricerche mirate ad altro scopo. Nei laboratori mondiali si fa la corsa all'individuazione di metodi sempre più precisi e affidabili per visualizzare il cervello mentre lavora. A volte, tuttavia, la sola osservazione non è sufficiente per comprenderne appieno il funzionamento. Poter condurre simulazioni in vivo, cioè attivare o spegnere temporaneamente singoli neuroni, corrisponde alla situazione sperimentale ideale al fine di stabilire il loro preciso ruolo. E ciò è ora possibile grazie a due proteine della membrana cellulare sensibili alla luce, estratte da microrganismi. In questo modo, gli scienziati possono manipolare senza sforzo parti del cervello e riprodurre a piacimento gli schemi naturali di attivazione dei circuiti neuronali. La via maggiormente percorsa finora è stata quella della stimolazione con elettrodi, condotta da generazioni di neuroscienziati. Con tale strumento si genera un campo elettromagnetico locale che è in grado di stimolare i potenziali d'azione nei neuroni - la scarica - che attivano il rilascio dei neurotrasmettitori. Questa tecnica è molto precisa dal punto di vista temporale, ma ha il difetto di attivare tutti i neuroni circostanti. Inoltre, è molto difficile silenziare una cellula. Un'alternativa è costituita dall'attivazione o dallo spegnimento per via chim ica. La rivoluzione arriva però con una serie di studi pubblicati in queste settimane sulle riviste Nature e Neuron. Il principale successo viene da una collaborazione tra due team: neuroingegneri della Stanford University e biofisici della membrana cellulare del Max Planck Institute di Francoforte hanno trovato il modo di trasferire la caratteristica di tali proteine in neuroni geneticamente modificati in modo da poter controllare questi ultimi con la luce. In un primo tempo, hanno utilizzato una proteina del canale ionico attivata dalla luce chiamata canal-rodopsina-2 (ChR2) che si trova in un alga verde, la quale si orienta proprio grazie alla luce. Una volta inserito nel neurone il gene che codifica per la proteina in questione, quest'ultima viene attivata dalla lunghezza d'onda corrispondente al blu, quindi depolarizza la cellula, producendo il potenziale d'azione e facendo partire il segnale. Ciò permette ai neuroscienziati di disporre di un autentico "controllo a distanza" inseribile nel codice genetico, una specie di interruttore neuronale.

Lo stesso team, ha utilizzato un'altra proteina, l'alorodopsina (NpHR), tratta dalla Natronomonas pharaonis, microrganismo che vive in condizioni estreme, per disattivare singoli neuroni. La sua espressione, provocata dalla luce gialla, fa sì che si generi un flusso di cloruro il quale, a sua volta, causa una veloce e reversibile superpolarizzazione, impedendo la scarica del neurone. Per uno straordinario colpo di fortuna - come sottolineano Michael Häusser e Spencer Smith su Nature -, gli spettri di assorbimento delle due proteine sensibili alla luce sono abbastanza distanti da assicurare che le due stimolazioni ottiche non interferiscano tra loro. Feng Zhang e il suo gruppo, per provare la tecnica, hanno modificato geneticamente alcuni neuroni (mutazione non trasmissibile alla prole perché non si tocca la linea germinale) in un verme Caenorhabditis elegans. Il risultato è stato la dimostrazione che è possibile rapi damente e in modo reversibile silenziare o attivare con la luce un particolare gruppo di neuroni e osservarne gli effetti sul comportamento. Detto più semplicemente, lo si può far muovere o bloccare esponendolo a luce di diversa lunghezza d'onda. «Tale metodica - spiega Pietro Pietrini, docente di Biochimica fisica all'università di Pisa - ha la potenzialità di trattare disturbi neurologici e psichiatrici. L'epilessia, che comporta iperattività o un alterato bilanciamento di eccitazione-inibizione nei neuroni, potrebbe essere alleviata con il comando specifico di alcune cellule. È pensabile, inoltre, l'impianto di fibre ottiche per "interventi" mirati, una sorta di stimolazione cerebrale profonda di nuova generazione, più precisa e durevole di quella che oggi, nella versione elettrica, mostra alcuni risultati contro il Parkinson». Infine, nuovi tipi di protesi ottiche neuronali, nella retina o nella corteccia motoria o sensoriale, servirebbero a migliorare la percezione visiva o il controllo dei movimenti. Se le terapie su misura sono solo una speranza, dal punto di vista delle neuroscienze cognitive si intravedono sviluppi che creano eccitazione nella comunità scientifica.

«Si potrebbero ipotizzare esperimenti per testare la causalità, concetto elusivo nelle neuroscienze, in particolare per la connessione tra attività neuronale e comportamento - prevede Petrini -. Infatti, saranno praticabili esperimenti che blocchino certe specifiche aree cerebrali per verificare se il comportamento che si ritiene ad esse associato si manifesta ugualmente oppure no. Ed anche "simulare" a piacimento uno stimolo per vedere se la risposta del cervello provoca il comportamento ipotizzato». Un'arma in più per i riduzionisti che negano il libero arbitrio dell'uomo? «Non necessariamente - risponde lo studioso di Pisa -, scoprire i correlati cerebrali del nostro agire non significa che siamo completamente determinati, ma soltanto che la nostra base fisica ci condiziona». E il rischio di creare persone-robot dirette a distanza? Siamo troppo complessi perché oggi si possa farci ballare come un verme al cambiare della luce. «In futuro non è escluso che diventi praticabile, tuttavia nessuna tecnica è buona o cattiva in sé, dipende dall'uso che se ne fa. Ed è auspicabile che la si orienti alla cura e non all'asservimento», conclude Pietrini con l'ottimismo dello scienziato.