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Verità e riconciliazione. Il caso polacco e la "damnatio memoria"

di Roberto Zavaglia - 30/04/2007

     
   

L’ossessione per il controllo della vita anche privata dei cittadini è stata una peculiarità dei Paesi comunisti. La Stasi, nella Repubblica Democratica Tedesca, vi aggiungeva il puntiglio burocratico tipicamente germanico, come racconta il bel film “Le vite degli altri”, opera prima di Florian Henckel Von Donnersmerck. Il regista mostra, con una cadenza angosciante per lo spettatore, come la polizia segreta, ancora pochi anni prima della caduta del muro, si impadronisse delle esistenze delle persone, imprigionandole in una rete di sospetti, minacce, ricatti e inducendole a diventare complici di un sistema spionistico abnorme. Dopo il crollo del comunismo, lo scrittore al centro della vicenda comprende di essere stato segretamente salvato da un funzionario della Stasi ribellatosi, per una volta, agli infami doveri del suo ruolo. Ripresosi dalla crisi creativa che lo aveva attanagliato, dedicherà il suo nuovo libro proprio a quell’ufficiale della detestata polizia segreta. Come a significare che il rancore può cedere di fronte alla scoperta dell’umanità nel proprio nemico e che la memoria del passato non obbliga a coltivare un odio imperituro e manicheo.
Dalla Polonia arrivano invece, in queste settimane, segnali assai diversi. Lech Kaczynski, presidente della Repubblica, e il fratello gemello Jaroslaw, primo ministro, sono molto criticati, in Europa, per vari motivi, non ultimo il modo polemico e quasi ricattatorio con il quale interpretano l’appartenenza del loro Paese alla Ue. Il governo polacco, di tendenza cattolica e nazionalista, sta cercando ora di attuare una legge, approvata nell’ottobre scorso, che obbliga tutti i funzionari statali, i professori, gli avvocati e i giornalisti nati prima dell’agosto 1972, a compilare un formulario nel quale dichiarare se si è mai collaborato con i servizi di sicurezza del regime comunista. Circa settecentomila polacchi si dovrebbero sottoporre a questa ricerca della verità di Stato e rischiano, in caso di ammissione, di rifiuto o di falsa testimonianza, di perdere il lavoro. La “lustracja”, come viene definita la legge, mira a rilasciare dei certificati di purezza politica, costringendo all’emarginazione chi ne è privo. Due ex esponenti di punta di Solidarnosc, come Borislaw Geremek e Tadeus Mazowiecki, pur non avendo ovviamente nulla da nascondere, si sono rifiutati di sottoscrivere il documento, perché lo ritengono un’imposizione autoritaria che limita l’autonomia della classe dirigente e mantiene sotto la minaccia del potere centinaia di migliaia di cittadini che, in vario modo, hanno avuto a che fare con il passato regime.
La pretesa di giudicare i compromessi di una massa di persone con un sistema durato quattro decenni, oltre che assurda, è affine al delirio spionistico del comunismo. Chi ha collaborato può averlo fatto perché costretto, perché incapace di sopportare le minacce, per salvare un famigliare o perché credeva in buona fede all’ideologia ufficiale. Ora che il comunismo è definitivamente sconfitto, non ha senso perpetuare una mentalità vendicativa se si ha a cuore il bene dell’intera comunità nazionale. Certo, dei crimini delle democrazie popolari nell’Europa orientale si è parlato troppo poco e ciò ha consentito ad alcuni ex comunisti di primo piano di riciclarsi in fretta e, talvolta, di entrare a far parte di governi che si sono distinti per brutali e inefficaci politiche ultraliberiste. Ignacio Ramonet, nell’editoriale dell’ultimo numero di “Le monde diplomatique”, mostra la sua coda di paglia quando, nel condannare la “lustracja”, scrive che “nel solco del diffuso revisionismo, c’è persino chi non esita ad esaltare la collaborazione col Terzo Reich hitleriano contro l’Unione Sovietica, oggi ufficialmente condannata”. E’ il tipico modo di ragionare di una certa sinistra per la quale i delitti del comunismo sono sempre relativi, mentre il campo opposto va bollato con infamia, al di fuori di ogni contestualità storica. Se Ramonet facesse, per esempio, un viaggio negli Stati baltici, scoprirebbe che gli ex volontari locali delle SS sono tuttora onorati come eroi della lotta antisovietica.
L’archetipo della sinistra con l’ossessione della memoria a senso unico è stato Gunter Grass. L’autore del “Tamburo di latta”, prima che si scoprisse il suo adolescenziale arruolamento nelle SS,  ha fatto, per decenni, l’esame del sangue a intellettuali e politici, non accontentandosi mai del grado di purezza antifascista del passato trovatovi. Il suo silenzio e la sua impostura non sono il mero sintomo di opportunismo personale, ma simboleggiano il forsennato manicheismo di una cultura che, per abuso di moralismo, si vieta di comprendere la complessità della storia e ignora la misteriosa forza che orienta il destino e le volontà degli uomini. In Italia, la retorica ufficiale continua a presentare il 25 Aprile come festa di tutta la nazione, fissando una volta per sempre il confine tra il bene e il male. I fischi e gli insulti della piazza verso qualsiasi esponente “non progressista” dimostrano, ogni anno, che chi festeggia veramente quella data sa che è una celebrazione di parte. Il presidente Napolitano ha un bel ripetere, a macchinetta, che si tratta di un giorno di unità nazionale: la gente, al di fuori dei riti ufficiali, non gli crede. Forse, la tanto invocata memoria condivisa si avrà solo per assenza di memoria, ormai prossima, della guerra civile, anche se l’accanimento terapeutico della propaganda prolunga l’agonia della leggenda.
Mentre l’Europa resta sospesa tra oblio delle propria identità e obbligo politico della memoria, un modello più proficuo di presa di coscienza del passato è venuto dal Sudafrica, con i lavori della  “Commissione di verità e riconciliazione” tenutisi tra il ’96 e il ’98. Un vero leader come Nelson Mandela capì che, per ripartire, il Paese aveva bisogno di un riconoscimento collettivo e di un’espiazione simbolica dei crimini commessi, compresi quelli dell’Anc, il suo movimento guerrigliero e politico. Chi confessava pubblicamente e con sincerità riceveva l’amnistia. L’accento era posto sulla parola riconciliazione, come base per una nuova fraternità nazionale e come  garanzia che nessuna comunità ricevesse un’eterna scomunica civile. Non sarà stata la panacea per tute le divisioni e gli odi del passato, ma è stato molto di più di quanto si è tentato di fare nel cosiddetto Primo mondo.