Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Un paese spettatore

Un paese spettatore

di Antonio Scurati - 01/05/2007

Fonte: Internazionale



Ci arrocchiamo sull'Aventino della nostra falsa coscienza di presunti
spettatori totali


Salva la vita di un uomo e li avrai salvati tutti. Così dice il
Talmud, e così sia. Ma ora che Daniele Mastrogiacomo è stato salvato,
chiediamoci se non ci sia qualcosa di inconfessabile nell'empatia
immediata che ci prende in casi come il suo, nella tendenza
irresistibile a identificarci collettivamente con la vittima inerme.

In questi casi, forse, l'opinione pubblica si sente così profondamente
turbata e partecipe, non solo e non tanto perché la ferocia della
guerra, sequestrando un giornalista o un operatore umanitario e
infierendo su di un civile, tocca un simbolo universale.

Ma perché tocca un simbolo della terzietà: un uomo disarmato estraneo
al conflitto, terzo rispetto ai belligeranti, sebbene si trovi in mezzo
a loro. Ci sarebbe da chiedersi, insomma, se il nostro nobile afflato
per la salvezza di un giornalista rapito non ci fornisca anche l'alibi
psicologico, e politico, per sentirci spettatori di quella parte di noi
stessi con cui non riusciamo a venire a patti; spettatori di quelle
nostre azioni, sciagurate o semplicemente inefficaci, di cui non
sappiamo assumerci la responsabilità.

Martedì 27 marzo si è votato sul rifinanziamento della missione
italiana in Afghanistan e lo scoglio, come si usa dire, è stato
superato. In precedenza, quando il governo Prodi era caduto su questo
tema, mentre il ministro degli esteri Massimo D'Alema si affannava in
un'opera di alchimia diplomatica, la sua maggioranza, scossa da
sussulti di coscienza, interessi di fazione e sottili distinguo
terminologici, aveva bloccato ogni decisione paralizzando l'azione del
governo.

Ma ancora adesso la retorica ufficiale della sinistra postcomunista si
ostina a camuffare il nostro coinvolgimento in guerra sotto eufemismi,
metafore umanitarie e travestimenti linguistici vari. Rimaniamo così
impaludati in quella terra di nessuno tra la guerra e la pace, in
quella maleodorante e subdola terra anfibia di inestricabile
indistinzione per la quale Valerio Magrelli ha coniato il neologismo di
"guace". Intanto, sia i nostri nemici sia i nostri alleati non hanno
dubbi: i taliban imprigionano un giornalista per il semplice fatto che
è italiano.

I nostri alleati, anche per bocca dei loro intellettuali più critici
verso l'amministrazione Bush come Paul Berman, affermano che non c'è
nessuna valida ragione per "tirarci indietro e fare da spettatori"
mentre gli altri membri della coalizione mandano i loro soldati in
battaglia.

E qui la nostra identificazione collettiva con figure di spettatore
attivo come il giornalista rapito – pur sempre uno spettatore – diventa
rivelatrice di un nuovo modo di fare o meglio di non fare politica: la
politica-spettatore. Forse è questa la prossima fase di scarnificazione
della politica, la nuova frontiera di quel processo di progressiva
perdita di sostanza dell'agire politico in corso ormai da decenni.

Dopo la politica-spettacolo, il successivo stadio involutivo che sta
già per essere raggiunto da questo processo di mutamento sarà la
politica-spettatore?

Lungo tutti gli anni novanta, la politica si è fatta spettacolo
riducendo la propria azione alla performance comunicativa, applicando
le tecniche del marketing maturo alla produzione di consenso
elettorale. La drammatizzazione del quotidiano grazie a fantomatici
nemici assoluti, la teatralizzazione, l'eroicizzazione del leader,
l'enfasi sull'espressione fisica e visuale delle emozioni politiche non
preludevano più, come nel corso del novecento, alla mobilitazione delle
masse e a un'azione di trasformazione violenta del reale ma le
sostituivano, esaurendosi in loro stesse.

Era il teatro politico come esorcismo della necessità di passare
all'azione. A mo' di surrogato dell'azione, il ceto politico offriva se
stesso, lo spettacolo delle proprie gesticolazioni teatrali, messe in
scena a beneficio delle platee televisive.

Ora, di fronte alla crescente incapacità dell'agire politico a far
presa sul reale, di fronte al progressivo complicarsi di una
conflittualità planetaria che non sembra consentire soluzioni, nemmeno
con il ricorso alle armi, in assenza di ideali, idee, teorie, strategie
o utopie, alla politica professionistica non rimane che accreditarsi
quale spettatore.

l suo obiettivo è far nascere nell'opinione pubblica un'illusione di
terzietà – se non di neutralità – rispetto a quegli avvenimenti
drammatici dei quali noi siamo, in verità, parte attiva, sia che si
prendano decisioni chiare e responsabili sia che le si evitino: stiamo
armati nel teatro di guerra dell'Afghanistan ma pretendiamo di starci
da pacifisti, l'offensiva di primavera si prepara ma noi pretendiamo di
affrontarla da non combattenti.

Il conflitto si radicalizza in uno scontro militare aperto ma noi
assumiamo una posizione equidistante da entrambi gli schieramenti. Ci
collochiamo sull'orlo della violenza, non andiamo mai a fondo, sperando
che il fondo delle cose non giunga fino a noi.

Ci emozioniamo, ci sdegniamo, ci arrocchiamo nella posa languida, e
perfino un poco indecente, di chi assiste al dispiegarsi della
distruzione del mondo davanti ai suoi occhi come se stesse guardando
uno spettacolo televisivo. Ci arrocchiamo, insomma, sull'Aventino della
nostra falsa coscienza di presunti spettatori totali. 

Internazionale 686, 29 marzo 2007