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E se il prossimo 1 maggio il sindacato si sciogliesse?

di Eduardo Zarelli - 01/05/2007

 

Il sindacalismo in Italia ha una lunga storia. Fin dal tardo ottocento, le prime organizzazioni bracciantili e operaie hanno dato filo da torcere al padronato. Molteplici le matrici ideali, quella socialista ovviamente, ma prima vennero anarchici e mutualismo mazziniano, poi la dottrina sociale della chiesa. Lo stesso fascismo coltivò le sue ambizioni sociali con il sindacato, ma non meno del comunismo al potere - in nome della dittatura del proletariato questo, dello stato corporativo quello - lo irreggimentarono.
Il dopoguerra repubblicano poi, sarà sindacale. L’unità dei confederali, persa e poi ritrovata con il consociativismo solidaristico cattocomunista, ha espresso uno dei welfare state più onerosi e inefficienti dell’occidente capitalistico. Infatti, il massimalismo, pur presente e addirittura maggioritario in molte categorie rappresentate, non ha mai realizzato il “socialismo democratico e solidale”, ma una più prosaica lotta contrattuale che ha trasformato la sempre più esigua classe operaia in smarrito ceto consumista risentito, tramite la “concertazione” con la controparte confindustriale. In compenso, le organizzazioni sindacali hanno raggiunto una raffinata capacità di autolegittimazione. Burocrazie tecnocratiche che cavalcano una rappresentanza sostenuta da contributi pubblici e tessere di convenienza, come qualsiasi gruppo d’interesse. Sempre più labile la motivazione e la tensione morale, determinante il disincantato professionismo politico, che ci ha dato un presidente della Camera, un presidente del Senato, vari sottosegretari, molti parlamentari, piuttosto che un noto sindaco bolognese, quali degni rappresentati di una carriera che frutta i più alti galloni della “classe dirigente”.
Conseguentemente dovremmo aspettarci che anche i lavoratori e gli “ultimi” ai margini del liberal-capitalismo abbiano raggiunto – nel loro quotidiano - i confortevoli obiettivi dei leader sindacali… In realtà, gli “ultimi” rimangono tali. La democrazia rappresentativa è incapace di realizzare una reale parità di condizioni nell’accesso al lavoro. Il sindacato tutela pensionati ed impiegati acquisiti, ma lascia nell’angoscia i giovani, i senza lavoro, i precari e tutto il contesto di anonimato indotto dalla competizione liberistica e la globalizzazione. È interinale la massa crescente degli occupati, con un declassamento sociale, crisi d’identità ed uno svilimento del concetto stesso di “lavoro”, così portante per la morale borghese, nonché proletaria, degli ultimi due secoli. Non essendo più centrale la classe operaia, data la smaterializzazione dell’economia produttiva e la polverizzazione delle classi economiche, il sindacato, pur di sopravvivere a se stesso, si pone sul piano politico come ecumenico ed omnicomprensivo rappresentante dei diritti di cittadinanza, ma non incide per una società in cui si possa realizzare giustizia e uguaglianza, piuttosto rimedia un ruolo da potentato nei rapporti di forza dell’economia capitalistica. Tanto che anche le petulanti associazioni per i consumatori mostrano più mordente degli ipocriti e rituali sermoni sindacali, forbiti da puntuali centri studi lautamente finanziati, che elaborano scenari economici, senza poterli realmente modificare.
Emblematica a tal riguardo è la parabola di Pietro Ichino. Già sindacalista della FIOM-CGIL, oggi docente giuslavorista ed editorialista di punta sulle pagine dei quotidiani d’opinione più influenti - cioè legati al blocco bancario-industriale di riferimento dell’attuale governo - fustigatore progressista dell’involuzione delle relazioni sindacali nell’Italia contemporanea. Nel suo recente volume A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino passa dal caso dell’Alitalia, dove in condizione di fallimento acclarato, le hostess si ammalano a comando per scioperare anche quando è proibito, a quello del ministro del Lavoro che appoggia il sindacato che le organizza; dalle agitazioni che paralizzano due volte al mese ferrovie e trasporti urbani all’incredibile vicenda degli uomini radar, che guadagnano più di tutti e scioperano più di tutti (anche perché durante lo sciopero non perdono la retribuzione). Ne trae le conseguenze formulando una proposta di riforma molto chiara e semplice per il sindacato: sciogliersi. O meglio, adattarsi per modalità e scopi, alle nuove esigenze del modello economico liberistico e delle conseguenti relazioni industriali, perché solo la responsabilità nella produzione di merci e servizi può favorire il mondo del lavoro in garanzie e miglioramenti retributivi.
Anche noi pensiamo che lo scenario socio-economico in cui si sono imposti i sindacati sia irreversibilmente mutato, ma per senso opposto a quello di Ichino. Il confronto capitale e lavoro è oggi tra capitale e natura. Il modo di produrre e le forme di accumulazione del capitale, la finanziarizzazione economica, il ruolo determinante del potere bancario e le caratteristiche individualistiche e frammentate dell’intrapresa, la crescente massa di lavoratori non subordinati, hanno svuotato il ruolo politico e associativo del mondo del lavoro, tanto  da metterne in discussione la stessa sostanza ed esistenza.
In effetti, con un vero e proprio testacoda di questa storia bisecolare, dovremmo tornare a chi il sindacato lo ha anticipato e quindi evitato, comprendendo che l’industrialismo avrebbe distrutto alla base il tessuto sociale di una economia a misura d’uomo. I Luddisti, nei primi decenni dell’Ottocento, reagirono all’industrializzazione forzata con la distruzione dei macchinari tessili nelle contee inglesi un tempo abitate da Robin Hood, difendendo le loro comunità dall’alienazione – innanzitutto morale – del lavoro artigiano e della sobria ma solidale sussistenza. Rifiutarono il salario offertogli, apparentemente più lauto del proprio tenore di vita, perché intuirono che si andava mercificando l’esistenza. Preferivano lavorare per vivere e non vivere per lavorare al guinzaglio di interessi senza terra, senza confini, a discapito dell’umanità, della natura, del buon vivere. 
La sfida luddista non va ridotta alle implicazioni violente (ma limitata alle macchine), al contesto storico e ai “modi di produzione” del tempo, perché fu eminentemente morale, diremmo culturale, intendendo una mentalità antiutilitaristica. Chiama in causa anche oggi, sul terreno della giustizia e dell’equità, le premesse fondamentali di quella politica economica “industrialista” e la legittimità dei principi di profitto sfrenato, competizione e di innovazione che ne sono alla base. Una resistenza in nome della comunità di locale, della cultura familiare e di vicinato, dell’artigianato, del tempo biologico, della natura minacciata dall’incedere dal meccanicismo scientifico e del pragmatismo produttivistico. Quella rivolta quindi non è terminata sotto le baionette dei fanti di sua Maestà tra l’aprile e l’ottobre del 1814. Le braci ardono ancora sotto le ceneri. La fenice della libertà e della giustizia si insinua con i suoi artigli negli ingranaggi della megamacchina tecno-scientifica contemporanea. Il divorzio sempre più drammatico tra cultura e natura vede oggi migliaia di nipotini del generale Ludd, abbandonati da qualsivoglia organizzazione istituzionale e disponibili a mettere in discussione le lusinghe dello sviluppo.
Come? Con l’eresia della decrescita. Se vogliamo giustizia sociale dobbiamo distruggere in noi l’immaginario utilitarista che impalca la società edonistica. La dialettica delle parti in commedia nelle relazioni industriali, non ha l’esito virtuoso della redistribuzione dei profitti.
La destra e la sinistra, in tutte le loro varianti, in tutte le loro sfumature, sono due varianti dello stesso modello industrialista, entrambe perseguono lo sviluppo come obiettivo indiscutibile. La differenza è sull’uso dei frutti di questa crescita, non sulla sua sostanza. Per il capitalismo ed il socialismo, in tutte le forme e sfumature, l’obbiettivo è far crescere il profitto il più possibile, perché più ce n’è, più ne godranno tutti. Il conflitto è solo su come si dividono le parti del bottino. L’ideologia liberale privilegia coloro che detengono i mezzi di produzione, perché in questo modo le risorse vengono allocate nel modo migliore possibile dal punto di vista della crescita stessa cioè nel reinvestimento. L’ideologia socialista si oppone in nome dei più: se le parti del bottino sono fatte in maniera più equa ce ne è di più per i consumi e di meno per gli investimenti. Per cui viene fuori che l’economia più giusta è l’economia che cresce “socialmente”.
La storia ha dimostrato che l’economia che perseguiva almeno formalmente gli ideali di maggiore eguaglianza è stata sconfitta dall’economia liberale capitalista, perché quest’ultima ha avuto la capacità di accumulare capitale in una maniera maggiore per far crescere di più il bottino, per cui anche le parti più piccole dell’accumulo capitalistico risultano più grandi delle parti più eque - ma più piccole - del modello socialista.
Nel momento in cui entrambi i modelli ritengono che la crescita sia l’obbiettivo in sé, dire invece che questo non è l’obbiettivo significa porre un ideale altro di economia e società, non elemosinare un salario, uno stipendio, una pensione parti di questo meccanismo controproducente per la natura, la società, la cultura e la dignità umana.
Le contraddizioni della religione economica industriale va sconfitta uccidendo il suo totem: il PIL.
La crescita, il PIL non misura i beni, misura le merci, cioè quegli oggetti e quei servizi che vengono scambiati per denaro, mentre oggetti e servizi che non vengono scambiati per denaro non fanno crescere il mercato.
Il concetto di merce è un concetto completamente diverso dal concetto di bene. Se mi faccio i pomodori nel mio orto familiare, questo è un bene, ma faccio diminuire il PIL, perché non li vado a comprare e perciò non fanno merce. Da questo punto di vista per me è un ideale coltivare i pomodori piuttosto che comperarli. L’obiettivo non è dare i soldi alle persone perché possano comprare i pomodori; l’obiettivo è che le persone possano mettere i pomodori in tavola, è il bene, non la merce; la mia produzione non fa crescere il PIL, lo fa diminuire, ma per me è un ideale. Non è una triste necessità, non è un ripiego. È una scelta di vita possibile fuori dai condizionamenti sociali e culturali esistenti. La decrescita non è una ideologia, una utopia regressiva, ma l'orizzonte di un’altra economia: giusta e sostenibile, cioè comunitaria e locale.
La società della crescita non può essere sostenibile, perché si scontra con i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell’impatto ambientale del nostro stile di vita l’"impronta" ecologica i risultati che emergono sono insostenibili, tanto nel prelievo delle risorse dalla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera. Se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile – e in questo, per eterogenesi dei fini, la stessa tecnologia può risultare “appropriata” - è necessario che gli uomini tornino abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica e spirituale della loro esistenza.
La critica sociale ed economica delle lotte del lavoro va riconvertita nella costruzione della consapevolezza del luogo in cui si vive e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali e la reciprocità, sulla partecipazione proprietaria dei mezzi di produzione, l’utilizzo di strumenti monetari non inflazionistici e strumenti finanziari etici, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali e su reti di scambio complementari. L’obiettivo è tanto moderno quanto antico: l’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di lei, dunque, responsabile e consapevole.