Care amiche femministe, da ex vi dico: “Aveva ragione mia nonna”
di Lucetta Scaraffia - 03/05/2007
Al direttore - Non sono molto d’accordo
con le amiche femministe che hanno parlato
di femminismo e crisi della famiglia
sul Foglio di martedì scorso. Mi sembra
che abbiano cercato di cavarsela un po’ a
buon mercato, come se non ricordassero il
duro attacco alla famiglia – “la famiglia è
una camera a gas”, era uno slogan ricorrente
– vista come il luogo in cui si realizzava
l’oppressione della donna, oppressione
di cui le nostre madri erano esempi
da evitare ma spesso, anche, collaborazioniste
da attaccare. Abbiamo così accettato
che la bandiera della liberazione della
donna passasse per la negazione della maternità
(nelle battaglie per la contraccezione
e per l’aborto), e quindi per un modello
di comportamento che si avvicinava
sempre più a quello maschile: realizzazione
individuale, affermazione professionale,
libertà sessuale – tutte condizioni che
di fatto danneggiano la famiglia – erano il
nostro obiettivo.
Certo, nel nostro cuore era sepolto il desiderio
di matrimonio, coltivato negli anni
della fanciullezza, e naturalmente di figli,
ma lo tenevamo dentro, senza quasi parlarne,
come cosa indicibile. I pochi bambini
che nascevano in questo ambiente
erano quasi sempre frutto di rapporti fragili,
se non addirittura inesistenti – in que-
SCARAFFIA RICORDA GLI SLOGAN SULLA FAMIGLIA “CAMERA A GAS”
sti anni è nato l’orgoglio delle madri sole,
spesso per scelta – che poi venivano allevati
dai nonni, se c’erano, o portati in giro
fino a tarda notte, storditi, magari in assemblee
dove si fumava a tutto spiano. E’
vero, si chiedeva ai padri di svolgere lo
stesso ruolo materno, di essere intercambiabili
con le madri, ma l’esperimento non
riusciva quasi mai. E il risultato è stato che
gli uomini non hanno più svolto il tradizionale
ruolo di padre, ma neppure hanno voluto
accettare quello nuovo di “mammo”.
Se ne sono, andati, semplicemente. E i pochi
padri sessantenni che giocano a fare i
mammi con i loro bambini frutti tardivi
sembrano più dei patetici finti giovanotti
che i simboli di una nuova era del ruolo
maschile.
Come conseguenza evidente, e denunciata
da tutti, una società senza padri: anche
quando ci sono, non sanno più, non vogliono
più fare i padri. Tanto che oggi le
giovani donne – felicemente ignare delle
nostre assurde priorità (prima l’autorealizzazione,
poi la famiglia) – vorrebbero avere
un figlio da giovani, ma non trovano ragazzi
disposti ad accettarlo: di fare il marito e
il padre nessuno ha voglia, sembra un peso
insopportabile, senza nessun lato positivo.
Mia figlia venticinquenne e le sue amiche
guardano con occhi pieni di invidia il bellissimo
bambino di una di loro, che si è sposata
con un immigrato senegalese, lui sì disponibile
ad assumersi il ruolo di uomo
adulto. Se per le giovani, comunque, per
fortuna c’è ancora speranza, penso invece
alle mie coetanee femministe che ho consolato
nel momento in cui si sono rese conto
che il loro tempo era scaduto, perché fra
relazioni complicate e avventure, magari
appassionanti ma senza futuro, e impegni
politici e professionali, non avevano trovato
mai il momento – ma di frequente neppure
l’uomo – per fare un figlio, cioè per
fondare una famiglia.
Siamo una generazione che ha vissuto
spesso l’inebriante sensazione di essere le
prime, o le poche, donne a partecipare a
una riunione professionale di alto livello, a
essere considerate dagli uomini come pari
nella professione – anche se non è stato né
facile né immediato – e a raggiungere e
consolidare una autonomia economica e
sociale che le nostre madri non avevano
mai neppure sognato. Tutto questo però è
stato pagato caro. Sul piano personale, molte
volte abbiamo dovuto capire sulla nostra
pelle, da capo, come se non ce lo avesse insegnato
nessuno, che la famiglia è importante
e decisiva nella vita di un essere umano,
e forse ancora di più nella vita di una
donna, e che merita quindi sacrifici e ri-
AMIR T AHERI, WAFA SULT A N , S Y LVAN BESSON E FIAMMETTA VENNER
Per i Fratelli musulmani la democrazia è un tram, prima o poi si scende
Roma. Nell’ottobre del 1981, i pasdaran
iraniani intitolarono a Khaled al Islambouli
la strada in cui si trova l’ambasciata egiziana
di Teheran. Islambouli è il terrorista
che ha ucciso Anwar al Sadat. Il presidente
iraniano Mohammad Khatami gli ha poi dedicato
un monumento alla memoria. Quando
Sadat fu abbattuto, Khomeini disse che
“un figlio dell’islam ha agito per eliminare
il faraone apostata”. E’ uno dei tanti esempi
che aiutano a capire come la storia dei
Fratelli musulmani, da cui uscirono gli assassini
di Sadat, alimenti il fuoco fondamentalista
in medio oriente.
Nei giorni scorsi è scoppiato il caso intorno
a un saggio di due studiosi pubblicato
dalla rivista Foreign Affairs. Robert Leiken
e Steve Brooke chiedono al Dipartimento di
stato americano di avviare il dialogo con la
Fratellanza sulla base della loro “evoluzione
non violenta”. Fondati nel 1928 da Hassan
Al Banna, i Fratelli musulmani raggiunsero
il milione di aderenti negli anni
Quaranta. Nasser li bandì, Sadat concesse
loro spazio, sperando di contenere i terroristi
che lo avrebbero ucciso. Nel 1954, dopo
un tentativo di putsch, furono torturati a migliaia.
Le repressioni ciclicamente si ripetono.
Ieri Christian Science Monitor raccontava
la storia di Abdel Moneim Mahmoud,
blogger incarcerato insieme a un migliaio
di Fratelli. Quasi ovunque nel mondo
arabo i Fratelli musulmani sarebbero il
partito di maggioranza relativa se vi fossero
libere elezioni, come chiedono a gran voce.
“Sono l’anticamera del fronte fondamentalista”.
L’esule iraniano e commentatore di
fama internazionale Amir Taheri ci dice
che l’elemento più pericoloso è la loro visione
manichea: “Luce e tenebre, spirito e
materia, islamico e infedele. La Fratellanza
dice che il Corano è la sua Costituzione e
bolla come ‘empie’ le altre organizzazioni.
Sono i padrini dei movimenti terroristici
arabi e pakistani. Il loro cambio di strategia
ha creato un vacuum riempito da al Qaida”.
Taheri elogia la transizione di Hosni Mubarak.
“Escludendo la fratellanza, Mubarak
prosegue la storica tendenza di prevenire i
partiti dal fare dell’islam una prerogativa.
E’ iniziata in Turchia ed è continuata in Indonesia.
L’idea che i movimenti politici non
debbano basarsi sulla religione trova consensi
nel mondo islamico. Algeria e Tunisia
hanno emendato le Costituzioni per prevenire
la formazione di partiti della fede. La
democrazia irachena impone restrizioni all’uso
della religione. La questione è particolarmente
sentita in Egitto, dove la comunità
cristiana è bersagliata dalla Fratellanza.
Mubarak ha sconfitto una dozzina di
gruppi jihadisti in una delle più lunghe
guerre antiterroristiche della storia”. Il
giornalista Sylvan Besson, del quotidiano
Le Temps di Ginevra, ha scritto un libro sull’egemonismo
della Fratellanza: “La conquista
dell’occidente”. “I Fratelli parlano di
riforme e democrazia – ci dice Bessan – Ma
non condannano il terrorismo. Per loro il
male è la civiltà occidentale, Israele e l’amministrazione
Bush. Negano che l’11 settembre
sia di matrice islamica. Parlano dell’infinita
sofferenza islamica, da Kabul a
Baghdad. Il mondo è un campo di battaglia
fra il materialismo (dal comunismo al sionismo)
e l’islam. La storia è il teatro delle conquiste
islamiche. Il loro messaggio è: ‘Partecipa
alla vita pubblica, rispetta le leggi e
sii orgoglioso dell’islam’. Non cercano di
scardinare le democrazie, ma di preparare
il terreno alla radicalizzazione”.
Spesso la cronaca dice il contrario. Imad
Eddin Barakat Yarkas è fra le menti dell’11
marzo spagnolo. Era un affiliato della Fratellanza
in Siria. L’egiziano Osman Rabei fu
arrestato a Milano il 7 giugno 2004. Nella
condanna a dieci anni della Corte d’assise
si parla dei suoi ispiratori. Rabei era in contatto
con due predicatori wahabiti, fra cui
Yusuf al Qaradawi, l’eminenza teologica
della Fratellanza. Presidente dell’Unione
internazionale degli ulema, del Consiglio
europeo della fatwa e presente anche nell’Istituto
europeo di scienze umane di Nièvre,
il centro degli imam legati alla Fratellanza,
Qaradawi è egemone all’interno del
movimento islamista. In un testo del 1990
spiega che in Europa devono creare
un’“opinione pubblica islamica” per preparare
la comunità ad accogliere l’“esistenza
della nazione musulmana”. Qaradawi ha
lanciato una fatwa contro i vignettisti danesi:
“Chi offende Maometto, se è un dhimmi,
ha violato il patto e diventa lecito ucciderlo”.
Il 25 aprile 2004 il teologo della Fratellanza
Abd al Muni’m Abu al Futuh su al Jazeera
disse che “il jihad è un dovere individuale”.
Contro Qaradawi si è pronunciato
Abd al Hamid al Ansari, preside della facoltà
di legge islamica all’Università di Qatar:
“Le leggi della sharia che vietano di fare
del male ai civili sono rimaste in vigore
per secoli, fino a quando Qaradawi non ha
causato una pericolosa frattura sul jihad. Il
deterioramento morale ha raggiunto il punto
in cui vengono uccisi bambini con le
bombe a Baghdad e pacifici civili sugli autobus
a Londra. Queste fatwa sono un marchio
morale e ideologico di vergogna”.
“I crimini che hanno commesso sono ancora
vividi nella nostra memoria e il sangue
innocente che hanno fatto scorrere è presente
nei nostri cuori” dice al Foglio la dissidente
Wafa Sultan, testimone dell’esecuzione
del suo professore da parte dei Fratelli
a Damasco. “Fu ucciso in aula sotto i
miei occhi al grido di ‘Allah è grande’. I Fratelli
musulmani credono in versetti che non
siano quelli che incitano alla lotta contro gli
‘infedeli’? Hanno cambiato idea su ‘coloro
che incorrono nella rabbia di Allah’? Stanno
forse desistendo dall’accusare altri di
apostasia? Invocano veramente una società
pluralistica e democratica basata sulla giustizia
e l’eguaglianza?”.
Nel dicembre 2005, in un’intervista al londinese
Asharq al Awsat, il capo dei Fratelli
Mohammed Akef disse che “siamo un movimento
globale i cui membri cooperano basandosi
sulla stessa visione: la diffusione
dell’islam fino a che non dominerà il mondo”.
La flessibilità è una qualità. “In occidente
la violenza è sostituita da un misto di
penetrazione nell’appeasement e di radicalizzazione”
ci dice Lorenzo Vidino, autore
di “Al Qaeda in Europe”. “Appellandosi alla
‘darura’, concetto islamico di necessità,
legittimano la partecipazione al processo
democratico. Si presentano pubblicamente
come moderati, partner del dialogo e rappresentanti
delle comunità islamiche. Se in
inglese, francese e olandese parlano di democrazia,
in arabo, turco e urdu predicano
l’interpretazione politicizzata dell’islam.
Una citazione del 1995 del premier turco
Erdogan, sostenuto da partiti islamisti connessi
al network dei Fratelli musulmani, la
dice tutta: ‘La democrazia è un tram: la useremo
finché ci serve, poi scenderemo’”.
Rachel Ehrenfeld, autrice di “Funding
evil” e direttrice dell’America center for democracy,
è durissima con Foreign Affairs:
“L’atteggiamento camaleontico della Fratellanza
è strumentale all’islamizzazione
della società”. Abu Qatada, capo spirituale
di al Qaida in Europa negli anni Novanta
disse: “Roma non sarà conquistata dalla parola,
ma dalle armi”. Qaradawi ha detto:
“Non con la spada, ma con la predicazione
Essoterie
Quando massoni e psicoanalisti
non facevano tanti giri di parole
e la famiglia era il nemico
Stato laicale
Alla difesa dell’istituzione serve
anche la maiuscola. Soprattutto
se si sostiene uno come Sarkozy
l’islam tornerà in Europa vincitore”. La differenza
è nei metodi. Bat Ye’or, studiosa di
origine egiziana della sorte dei non musulmani
nelle terre islamiche, parla di abuso
del termine democrazia. “Se intendiamo
adottare la sharia attraverso le elezioni, è la
democrazia di Gaza. Se intendiamo indipendenza
della magistratura, libertà di parola
e religione, eguaglianza di sesso e dignità,
di questo i Fratelli non parlano mai.
I loro scrittori, da Qutb a Mawdudi, incitano
all’odio verso gli ebrei”.
L’analista americano Patrick Poole ricorda
che “nel 2004, quando le autorità del
Kuwait attaccarono i radicalisti, il governo
scoprì che la fonte della predicazione jihadista
erano gli imam associati alla Fratellanza”.
Fiammetta Venner ha scritto molti
libri sull’islam e l’Uoif, ramo francese della
Fratellanza: “Anche se indossano sempre
un abito occidentale anziché una jellabah e
rassicurano i media sulle loro intenzioni pacifiche,
portano avanti un’impronta fondamentalista
dell’islam. Se dovessero prendere
il controllo di Egitto e Siria, è da temere
un drammatico riassetto dell’ordine mondiale.
Gli scritti di Qutb hanno giustificato
l’uccisione di ‘tiranni apostati’ e ispirato bin
Laden e gli assassini di Sadat. L’ascesa dei
Fratelli promette un’islamizzazione che potrebbe
destabilizzare il mondo, come possono
costituire un antidoto al terrorismo?”.
“Abbiamo bruciato case e ucciso donne e
bambini”. E’ la confessione di un janjaweed
al londinese Times. Si chiama Dily, è un arabo
sudanese di vent’anni che ha combattuto
in Darfur al grido di “Uccidi gli schiavi,
uccidi gli schiavi”. Il regime sudanese è
ispirato dai Fratelli musulmani, il cui messaggio
originario di odio riemerge, carsicamente,
dalle dune del Darfur. La guida suprema
della Fratellanza, Mohammed Akef,
nel settembre 2006 rigettò la risoluzione
Onu sull’invio di contingenti e non a caso il
guru sudanese Hassan al Turabi ha definito
Tariq Ramadan “il futuro dell’islam”. Quella
terra intrisa di sangue e dimenticata dalle
piazze pacifiste è l’esempio più recrudescente
del pericolo che la Fratellanza può
porre ai cristiani, che in Darfur non possono
bere vino nella messa, ma anche ai musulmani.
Dopo i bombardamenti arrivano le
orde di diavoli a cavallo: donne dai seni recisi,
vecchi dalla testa fracassata e bambini
sbattuti contro i muri. Centinaia di donne
deflorate con lunghi coltelli e marchiate a
fuoco sulle mani. A Tawila, in un solo giorno,
uccisero quarantuno ragazze, stuprate
insieme alle maestre, alcune fino a quattordici
volte, di fronte ai genitori costretti a
guardare.
(3. fine)Giulio Meotti
(i precedenti articoli sono usciti il 27/4 e l’1/5)
nunce. Ci sono tornati in mente i rimproveri
e le prediche di mamme e di nonne, che
avevamo rifiutato con fastidio, e abbiamo
capito invece che non di rado avevano ragione
loro. Alcune di noi sono riuscite a recuperare,
ad avere dei figli, ad allevarli in
una famiglia; altre hanno commesso errori
pagati duramente, da loro ma soprattutto
dagli altri, e dai bambini.
E oggi molte di noi sentono la responsabilità
di avere contribuito all’affermazione
di un modello di donna “moderna” che si è
poi affermato nel modo più banale: non tutte
infatti possono fare le intellettuali o le
politiche, e per molte l’autorealizzazione si
limita alla possibilità di fare shopping o di
frequentare un centro di benessere: per
questo però spesso sacrificano, senza rimorsi,
i figli e la famiglia. I rimorsi glieli
abbiano tolti noi, con le nostre teorie sulla
libertà di realizzazione di sé (anche sessuale),
che oggi dominano i settimanali
femminili rivolti a una brutta copia della
donna libera che il femminismo voleva
creare. Una donna che magari vuole la famiglia,
ma non è più capace di pagarne il
prezzo, una donna che noi abbiano contribuito
a creare. E senza una donna che si
impegna, e molto, la famiglia non esiste: lo
diceva, giustamente, mia nonna.