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Il paradosso turco

di u.g. - 04/05/2007




La Turchia - è un fatto ormai manifesto - si dibatte in una crisi di eccezionale gravità. Una crisi, però, che riguarda da vicino l’Occidente (che ne ha fatto da tempo un suo alleato-gendarme sui Dardanelli e contro i popoli del Medio Oriente) liberaldemocratico. Il pronunciamento militare calato come un’ascia nel conflitto in atto tra il governo neo-islamico e i partiti laici sulla candidatura presidenziale, ne è il sintomo più evidente. Le Forze Armate si sono dichiarate infatti i “guardiani assoluti” della Repubblica secolare fondata da Mustafa Kemal Atatürk ed hanno paventato un nuovo loro intervento (sarebbe il quinto dal 1960 ad oggi) in caso di stravolgimento della Costituzione.
Dal suo canto, lo stesso Parlamento di Ankara si dibatte nel vuoto, chiamato ad affrontare un’inutile ripetizione delle votazioni presidenziali - tra il 6 e il 15 mqggio - dopo la decisione della Corte costituzionale di dichiarare nullo e illegittimo il primo voto avvenuto venerdì e risultato - nonostante il boicottaggio delle opposizioni laiche - in favore del candidato neo-islamico Abdullah Gul, l’attuale ministro degli Esteri.
Un annullamento peraltro subito definito “una pallottola contro la democrazia” dal premier turco Tayyp Erdogan. In realtà un annullamento diventato “ottimo pretesto” per chiedere in Parlamento una riforma costituzionale in senso presidenzialista e consentire così l'elezione diretta del capo dello stato contestualmente alle elezioni anticipate chieste per il 24 giugno dallo stesso partito filoislamico Akp, il partito della Giustizia e dello Sviluppo al governo, di cui il premier neo-islamico è presidente.
Il Paese è in realtà irreversibilmente spaccato in due, tra le sue storiche anime sociali e geopolitiche, la borghesia filo-occidentale di Istanbul e delle città mediterranee, e le masse islamiche sparse nei capoluoghi e nei villaggi della penisola anatolica. E lo stesso partito di governo AKP è espressione di tale divisione. Sorto sulle ceneri di vari movimenti integralisti islamici, il partito di Erdogan e Gul dichiara da una parte la sua lealtà filo-atlantica di gendarme Nato ansioso di integrarsi nell’Ue (insomma: un “antidoto made in Usa” contro il fondamentalismo musulmano); dall’altra il suo profilo di rappresentante della profonda cultura asiatica e islamica. Una stridente contraddizione interna.
Gli stessi laici turchi, fino ad un paio di anni fa entusiasti fautori dell’ingresso della Turchia nell’Ue, ritengono ormai che l’Akp voglia usare l’integrazione europea come un cavallo di Troia. L’umanitarismo di Bruxelles apre - questo è il sentire comune - spazi di crescita all’islamismo, indebolisce i principii della laicità dello Stato, mette in moto revisioni storiche su ferite nazionali come la questione armena e quella curda.
Il pronunciamento militare può provocare il crack definitivo della coesistenza tra le due anime della Turchia.
A Washington, a Londra e a Bruxelles si disegnano scenari perché ciò non accada. Si vuole preservare il “grande disegno” di 70 milioni di nuovi consumatori da “europizzare” alterando radicalmente demografia ed etnia europee.
Ma la storia, come si vede, non procede mai su traiettorie scontate. Per fortuna.