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Felici come alberi verdi nella loro terra. I rumeni della Valcea

di Stefano Cavallito e Alessandro Lamacchia - 05/05/2007

 
 

Immaginate Terra Madre vista dalla luna, un centro di attrazione per migliaia di contadini viaggiatori che chiudono case e lasciano in custodia campi, temperature e latitudini. Guardando dall’alto, come in certi film di spionaggio anni Settanta in cui la Spectre controllava i movimenti del globo intero su grandi radar in bianco e nero, si sarebbero visti tanti punti luminosi convergere verso Torino. Tra questi, lungo una strada che si srotola per mezza Europa, dalle colline della Valcea, lambendo le strade tortuose e suggestive della Transilvania, verso l’Europa dei Balcani e, poi, giù fino a salire e a ridiscendere le Alpi, prendere la rincorsa nella lunga pianura e arrivare in città, anche una station wagon dell’est. A bordo padre e figlio, Florin e Gigi Puică. Di professione, coltivatori di mele. Tempo impiegato, dalla Valcea a Torino, 25 ore.

Florin, Gigi, le mele
Parcheggiano davanti all’Oval del Lingotto e, confusi tra le migliaia di volti che compongono il caleidoscopico viso di Terra Madre, spaesati di fronte all’ingresso della grande balena di vetro, restano fermi, in piedi, incerti su quello che dovranno dire e su quello che dovranno fare in questa strana adunanza di lavoratori della terra.
L’impatto è reso meno violento perché Florin e Gigi incontrano subito alcuni connazionali, agricoltori come loro. Non vivono con le mele ma con altri prodotti della terra, con i formaggi invecchiati nelle cortecce, con i mieli di menta piperita o con le birre dal sapore intenso di luppolo. Incontrano anche, a fare da collante e a dare il benvenuto in Italia, padre Mario dalla parrocchia ortodossa di Torino, smaliziato pastore di anime. Per l’occasione, traduttore.
La storia del loro primo soggiorno a Terra Madre è un susseguirsi di incontri, autorità e sfilate, ed è proprio nel momento in cui apprendono che perfino il presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, verrà a portare il suo saluto alle comunità, che intuiscono come tutto questo affanno di bandiere, fanfare, giornalisti e persone importanti ruoti attorno a loro, ai loro saperi materiali e, in definitiva, intorno alle loro mele.
Subito pensano di non averne portate abbastanza perché una cosa è descrivere il sapore delle mele, una cosa è trattenerlo nel palato e nei ricordi gustativi.
Ma quando sono partiti dalla Valcea non ci avevano pensato: ne avevano preso giusto una dozzina ma poi, durante il viaggio, le avevano utilizzate per sopire improvvisi languori; le mele, insomma, non sono arrivate nemmeno fino al confine di stato.
La descrizione delle mele di Florin, però, è precisa, quasi tecnica: parla delle varietà, parmen, cretesc e domnesc; si sofferma sul colore della buccia e sul sapore; le paragona a quelle italiane e le confronta; descrive la maturazione senza fretta, quasi tardiva, delle domnesc; racconta il sapore delle parmen che trattengono nella polpa il profumo delle piante di Valcea.



Il capitale è tondo e cedevole
È scientifico, quasi didascalico, sapiente, e tutte queste caratteristiche non devono essere estranee alla sua precedente attività, quella di addetto alla qualità di una grande azienda romena. Perché il tempo delle mele di Florin è arrivato quasi all’improvviso, dopo la caduta del regime di Ceauşescu, quando si è reso conto che una piccola passione poteva diventare un affare.
Business is businnes, anche nella Romania post-comunista, anche se il capitale ha la forma tonda e la polpa cedevole.
Non che ci sia da guadagnare granché, per ora. Ma intanto l’attività funziona, le mele sono buone e si vendono, e Gigi, che adesso ha solo 13 anni e va ancora a scuola, probabilmente sarà il primo della famiglia a essere, da subito e semplicemente, imprenditore agricolo. Forse dovrà pagare qualche tassa in più rispetto al padre, che adesso può godere di una sostanziosa esenzione fiscale in quanto figlio di un combattente delle seconda guerra mondiale, ma forse gli sarà più facile comprare un trattore.
Florin ne sogna uno italiano – ha il mito dei costosi trattori Goldoni – e per acquistarlo ha chiesto un finanziamento alla Comunità Europea. Attende fiducioso.
A Terra Madre parlano anche di questo con gli agricoltori di tutto il mondo, di quanto sia difficile comprare un trattore, di come per alcuni sia un mezzo di utilizzo quotidiano e per altri una chimera da bestiario tecnologico. E si parla anche di tecnica, di sapere minuto sorprendentemente simile in angoli del mondo lontani tra loro mille miglia. Sia nelle riunioni tematiche, quasi per specializzatissimi addetti alle cultivar di mele del mondo, sia negli incontri con l’intera comunità romena, ma anche nelle pause, durante il pranzo in una mensa che rispetta le tradizioni alimentari di mille popoli, nell’attesa di un pullman, si discute con la competenza di chi conosce gli strumenti basilari del mestiere e il passare delle stagioni.
Ma Florin e Gigi sentono che in tutte queste discussioni, in questa rete che innerva i campi del mondo, prima e con maggiore intensità di quella che definiamo semplicemente la rete, manca ancora qualcosa, manca il contatto diretto con la terra, il piede nel fango, le mani tra gli alberi. Forse proprio per questo gran parte della comunità romena è ospitata in Langa, a Dogliani, nelle case di persone che conoscono il valore di quel contatto.

Terre di colline
Il romeno felice è come un albero verde.
Recita più o meno così una canzone romena, dal ritmo lento e dal suono struggente, che racconta di uomini che partono per la guerra (e che tornano esentasse). In una delle notti belle di Terra Madre, il Comune di Dogliani ha invitato i suoi ospiti a cenare nella propria cantina comunale. Mentre la canzone rimbombava nelle volte a botte della cantina al suono della tromba e dell’armonica, Florin raccontava, con una certa attitudine romantica che non gli avremmo riconosciuto prima di qualche bicchiere di Dolcetto, che l’alternanza di alti e bassi, in dolce successione, ricorda il movimento sinuoso delle colline della Valcea.
Così, pensiamo che non dovrebbe essersi sentito troppo a disagio, da queste parti di Langa.
D’altra parte, la gente di Dogliani ha festeggiato gli ospiti nel modo che da sempre le riesce naturale, offrendo vino e cibo. Florin e Gigi hanno assaggiato la carne cruda battuta al coltello, la salsiccia di Bra, i formaggi con la cognà e, soprattutto, l’eccellente minestra di trippe e fagioli, che qui chiamano cisrà.
Durante la festa dei Santi, è servita al mattino presto, all’uscita da messa in ricordo di una tradizione secolare che sembra confermare, nei doglianesi, una certa vocazione all’ospitalità. Un tempo, dopo la funzione religiosa che accompagnava anche l’ultimo grande mercato autunnale, la confraternita dei battuti scaldava con questa minestra lo stomaco dei viandanti e degli agricoltori che avevano percorso chilometri a piedi per raggiungere la fiera.
Non sorprende che la stessa minestra sia stata servita oggi per accogliere altri viandanti, altri agricoltori. Alla ricerca di vicinanze contadinesche, oltre il profilo delle colline, scopriamo che una zuppa simile, che si chiama chorba de burta, esiste anche in Romania, sebbene arricchita dall’aglio e dalla panna acida. Colline e colline, chorba e cisrà. Sarà l’atmosfera conviviale o sarà il Dolcetto, ma sembra esserci una certa affinità tra questa terra e quell’altra e, d’altra parte, non deve essere un caso la stabile presenza di una numerosa comunità romena nella città di Dogliani.

Agricoltura di legni, marmi e giardini
Il giorno dopo la notte della cisrà e della festa, la Langa del Dolcetto si è scoperta lentamente di una nebbiolina bassa e, non appena la luce del sole ha preso possesso delle colline, ha mostrato i suoi suggestivi filari che alternano il giallo a marcate pennellate di rosso.
Padre e figlio hanno camminato attenti e osservato le piante. Ecco il contatto con la terra: camminano e comprendono gli impianti e i tagli, riconoscono gli insetti di cui sanno il nome scientifico in latino, fotografano il panorama e i particolari.
Si capisce benissimo che parlano lo stesso linguaggio dei contadini piemontesi, che dialogano con il codice di quei tagli e di quegli impianti, come se il crollo della torre di Babele avesse risparmiato la lingua universale del lavoro e della terra.
Intanto, i due hanno continuato a fotografare, anche una volta entrati nella maestosa eleganza dei Poderi Einaudi, cantina e foresteria di gran lusso. Solo, spostavano gli obiettivi in direzione delle architetture dal design inaspettato, verso la piscina a forma di bottiglia e, con un impossibile grandangolo, cercavano di catturare la seducente corona della vista sulle colline di Langa.
Sorpresi che l’agricoltura possa essere anche quello, legni, marmi e giardini curati.
Poi sono scesi nelle cantine, hanno attraversato file di botti grandi e di barrique, hanno assaggiato en primeur il vino che sarà e, di nuovo, hanno incontrato un po’ di storia del nostro paese, camminando orgogliosi e discreti sui pavimenti di un altro presidente della Repubblica italiana.