Immigrazione e xenofobia
di Roberto Zavaglia - 07/05/2007
“
Immigrati assassini”,“pena di morte” e
altre invettive simili
sono state gridate sul sagrato
della chiesa dove si svolgeva il
funerale di Vanessa Russo, la
ragazza uccisa il 26 aprile, con
un micidiale colpo di ombrello,
da una prostituta romena
dopo un banale litigio sul
metrò. Il
Corriere della Sera, afianco della cronaca della cerimonia,
ha pubblicato un commento
dal titolo “ Rabbia senza
ragione”. Forse la rabbia
non è mai sostenuta dalla
ragione, ma i giornali farebbero
bene a interrogarsi sui motivi
dell’indignazione e sul pericolo
che tracimi.
Tre giorni prima dell’omicidio
di Roma, in un paese in provincia
di Ascoli un giovane
rom ubriaco che procedeva
contromano ha travolto e ucciso
quattro adolescenti in moto.
I nomadi che vivevano nel
campo insieme all’assassino
sono fuggiti per paura delle
ritorsioni già annunciate. Sempre
alla fine del mese scorso,
una coppia di killer cinesi ha
ucciso, a colpi di pistola e in
pieno giorno, due giovani connazionali
nella Chinatown
milanese, aumentando lo sconcerto
dei residenti italiani già
turbati da una serie di illegalità
commesse dagli asiatici.
Non siamo ai prodromi di
un’ondata xenofoba in Italia,
ma l’esasperazione della popolazione
che vive nelle zone “a
rischio” va presa in considerazione.
I tre gravi fatti che
abbiamo elencato, in sé, non
costituiscono un dato statistico
rilevante, perché, nello stesso
lasso di tempo, altrettanti
o forse più omicidi
sono stati commessi
da italiani. Vanno
però considerati
come la punta dell’iceberg
dell’alto numero
di reati commessi
dalle frange più emarginate
degli immigrati
nel nostro Paese. Non
è facile conoscere la
percentuale di tali crimini,
perché le autorità,
per lo scrupolo
anche comprensibile
di non esasperare le
tensioni, mostrano
qualche reticenza. È
fuori di dubbio,
comunque, che le carceri
ospitano un
numero di immigrati
nettamente superiore
alla percentuale della
loro presenza sul territorio.
Non c’è da stupirsi
né da azzardare interpretazioni
razziali, perché si tratta
di un fatto fisiologico, in quanto
gli stranieri usufruiscono,
rispetto agli autoctoni, di
minori garanzie sociali, lavorative
e familiari.
La delinquenza, in Italia, ha
caratteristiche affatto peculiari
per la presenza delle mafie. La
mafia non è stata solo un’organizzazione
di criminalità
comune, ma si è intrecciata
con le storture della politica,
prima di tentare, non molti
anni fa, l’attacco al cuore dello
Stato, per usare il vecchio gergo
brigatista. La polizia segnala
l’incremento delle mafie
straniere che, in qualche caso,
sono riuscite a scalzare quelle
locali. Il pericolo è che i due
fenomeni, in qualche misura, si
saldino, costituendo un fronte
comune di criminalità che lo
Stato avrebbe enormi difficoltà
a contrastare. Corriamo il
rischio di avere delle zone
franche di delinquenza albanese,
romena o di altre etnie, a
fianco di quelle della camorra
già presenti in grandi città
come Napoli. La criminalità
organizzata straniera
è, dunque, una
minaccia di carattere
politico e civile.
Anche la delinquenza
individuale non va sottovalutata,
perché, insieme
a una grande massa di
lavoratori volenterosi,
sono entrati nel nostro
Paese manipoli di “barbari”,
cresciuti in condizioni
brutali, per i quali i
remissivi italiani di oggi,
con le loro “ricchezze”,
costituiscono una tentazione
simile a quella della
pecora per il lupo.
Secondo l’Istat, nel 2006
gli stranieri “regolari”
erano 2 milioni e seicentosettantamila,
il 4,5%
della popolazione, con
un aumento, in soli tre
anni, del 72%. La Caritas
stima 500.000 clandestini,
mentre per l’Eurispes
sarebbero almeno 800.000.
Sono cifre che possono provocare
malcontento in alcune
situazioni di disagio, ma non
una crisi di rigetto generalizzata.
I dati dell’incremento, però,
indicano che ci incamminiamo
decisamente verso la società
multietnica. Nel 2005 il saldo
naturale della popolazione è
stato positivo grazie alla nascita
di 51.791 figli di stranieri, il
9,4% del totale, mentre la
fecondità delle donne straniere
è quasi doppia rispetto a quella
delle italiane: il 2,61 contro
l’1,33. La popolazione del Paese
sta rapidamente mutando
volto senza che si valutino i
rischi e le opportunità della trasformazione.
Alla fine di maggio dovrebbe
incominciare il cammino parlamentare
il disegno di legge di
riforma della “Bossi-Fini”, che
già il centrodestra accusa di
essere un incentivo alla immigrazione
selvaggia. A una prima
analisi, però, non si scorgono
differenze così grandi e,
soprattutto, lo spirito delle due
leggi appare simile. Di nuovo,
nel progetto del Governo, ci
sono, sostanzialmente, la reintroduzione
dello sponsor per
garantire gli immigrati ancora
in cerca di occupazione, la
riduzione dei Cpt e il prolungamento
del permesso di soggiorno,
fino a uno o due anni,
oltre i termini del contratto di
lavoro. In entrambe le leggi la
politica rinuncia a decidere e a
prospettare l’evoluzione degli
scenari generali, riducendosi,
con il calcolo dei flussi in funzione
della domanda, al ruolo
di agenzia di collocamento,
mentre è il mercato a dettare le
scelte. Non viene quasi preso
in esame il modello di società
che l’immigrazione, fenomeno
sempre definito ineluttabile
senza ulteriori spiegazioni,
contribuirà a creare.
Personalmente, la diversità ci
affascina più di quanto ci spaventi
e l’immissione di sangue
nuovo nel fiaccato carattere
nazionale ci dà qualche speranza.
Ci appare, però, incomprensibile,
in Italia come altrove,
l’assenza di un vero dibattito
sulle problematiche della
società multietnica. L’“accoglienza”
del mondo cattolico, il
residuale terzomondismo della
sinistra e il “mercatismo” della
destra ostacolano una discussione
libera, impedendo agli
italiani di ragionare sui veri
termini della questione. Si stima
che, nel mondo, vivano con
meno di due dollari al giorno
2,8 miliardi di persone, di cui
1,2 miliardi ne hanno meno di
uno a disposizione. Si pensa di
trasferirli tutti nell’opulento
Occidente? Forse sarebbe
meglio trovare una soluzione
nei Paesi di origine. Come mai
i “liberisti compassionevoli”
non considerano l’idea di cancellare,
progressivamente, il
debito di quei Paesi in via di
sviluppo che lo sviluppo non
lo vedranno mai, perché sono
strozzati dai creditori? In fin
dei conti, si tratta solo del 3%
dei prestiti globali. Alcune
aziende telefoniche hanno
debiti maggiori di quelli di
molte nazioni povere, ma i
suoi manager si sono spartiti
dividendi e stock option faraoniche.
Eppure, l’“onesto” Tronchetti
Provera ancora impartisce,
impunemente, lezioni di moralità
imprenditoriale e non solo
sulle pagine del
Corrierone.