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«Il linguaggio dell'Impero». Un saggio di Domenico Losurdo

di Enzo Traverso - 08/05/2007

 
I confini cangianti di una vocazione al dominio

«Il linguaggio dell'Impero», un saggio di Domenico Losurdo per Laterza. Un'analisi accurata delle parole chiave di un'ideologia mutevole nel tempo che vede nell'Occidente una civiltà superiore che si contrappone a nemici via via diversi, dalla «barbarie bolscevica» al mondo musulmano


Nel suo Secolo-mondo, Marcello Flores definisce il Novecento come l'età dell'occidentalismo, riassumendo in questo concetto le diverse manifestazioni di un dominio al contempo economico, politico, militare e culturale attraverso il quale l'Europa e gli Stati Uniti hanno imposto al resto del pianeta gerarchie, modelli sociali e modi di vita. Dopo l'11 settembre 2001, l'occidentalismo ha avvertito il bisogno di riformulare i suoi postulati in un disegno più o meno coerente che, per quanto fabbricato con materiali spesso datati, presenta i tratti di una nuova ideologia imperiale. È il lessico di questa ideologia che Domenico Losurdo sottopone a un esame critico nel suo ultimo libro (Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana, Laterza, pp. 323, euro 23).
Del concetto d'Occidente esistono molte definizioni, non tutte linearmente riconducibili alla democrazia liberale. I neocon americani riconoscono spesso il loro padre spirituale in Leo Strauss, profeta di un Occidente figlio di Atene (la filosofia greca) e Gerusalemme (la Bibbia), ma è paradossale che questo critico inflessibile dell'Illuminismo sia oggi rivendicato da chi identifica la difesa dell'Occidente alla resistenza della civiltà illuminata contro la barbarie oscurantista. In realtà, da oltre due secoli a questa parte, l'Occidente è stato tante cose diverse.

Una civiltà superiore
L'imperialismo dell'Ottocento lo identificava alla «missione civilizzatrice» dell'Europa, legittimando così le sue imprese coloniali. Hitler vi coglieva il nocciolo della «razza ariana» e la giustificazione della guerra nazista contro gli ebrei, il mondo slavo e la «barbarie asiatica» del bolscevismo. Durante la guerra fredda, Churchill ne riassumeva l'essenza, in una lettera al presidente americano Eisenhower, nell'idea di white English-speaking World. Da Oswald Spengler a Samuel Huntington, l'Occidente è una visione della «civiltà» contrapposta ai suoi nemici. A questa lettura essenzialista, Edward Said aveva a suo tempo replicato che le civiltà sono sincretiche, ricordando che l'Occidente sarebbe storicamente inconcepibile senza la mediazione arabo-musulmana del tardo Medioevo, attraverso la quale la cultura della Grecia antica ha ritrovato l'Occidente cristiano.

Le frontiere dell'Occidente sono inoltre vaghe e fluttuanti. Infatti, l'Occidente non è né limitato a una precisa area geografica né semplicemente identificabile al mercato e alla democrazia, e neppure appannaggio esclusivo di una religione. Il suo tratto distintivo, sostiene Losurdo citando un apologeta malinconico della «razza europea» come Tocqueville, è la vocazione al dominio.

Questo libro non vuole ricostruire la formazione dell'Occidente come sistema di potere ma smascherarne l'ideologia. Da questo punto di vista, si tratta di un contributo prezioso. Seguiamone le tracce. Il primo lemma è «terrorismo», un concetto generico che ingloba pratiche molto diverse, dagli attentati suicidi iracheni alla guerriglia colombiana. Losurdo non ne studia le metamorfosi - ad esempio il suo nuovo carattere «globale», non più esclusivamente «tellurico» come in passato - ma ne rileva acutamente la pluralità di accezioni. Storicamente, il terrorismo è l'arma dei poveri, di chi non dispone di mezzi più efficaci di combattimento. La pratica del terrorismo suicida non ha radici dottrinali nell'islam ma una lunga storia di disperazione. Se ne potrebbero cogliere le origini nella resistenza degli ebrei contro la conquista romana, il cui epilogo fu il suicidio collettivo dei vinti a Masada, nel 74 d. C. In termini analoghi, C.L.R. James interpretava il suicidio degli schiavi nelle piantagioni di Santo Domingo come una protesta contro i loro proprietari. Questo richiamo alla storia è fruttuoso, benché sarebbe utile distinguere il terrorismo suicida diretto contro l'oppressore da quello che colpisce indiscriminatamente le popolazioni civili. Converge con le osservazioni che Esther Benbassa dedica nel suo ultimo saggio all'omologia tra il culto del martirio presente nella tradizione ebraica (da Masada in avanti) e quello oggi diffuso in seno al mondo islamico, entrambi ben più motivati dalla disperazione che dalla religione (La souffrance comme identité, Fayard).

Losurdo ricorda inoltre che gli Stati Uniti non hanno esitato a ricorrere a metodi terroristici, sia organizzando attentati contro leader politici nemici sia calpestando i diritti umani più elementari dei prigionieri di guerra e delle popolazioni civili dei paesi vinti. Dagli scalpi dei pellirossa (comprese donne e bambini) durante le guerre dell'Ottocento americano a quelli dei soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale, dai massacri del Vietnam alle torture di Guantanamo e Abu Grahib, la storia del terrorismo di stato americano permetterebbe di allestire un ricchissimo museo degli orrori.

Il fondamentalismo islamico, categoria alla quale l'Occidente assimila oggi i suoi principali oppositori, è interpretato da Losurdo come un fenomeno «reattivo»: non tanto un atteggiamento ostile alla modernità, quanto piuttosto un ripiegamento verso la religione ispirato dal rigetto dell'ideologia e dei valori che accompagnano il dominio occidentale. Questa reazione inghiotte tuttavia anche la dimensione emancipatrice dell'Occidente: un'idea universale di umanità e di uguaglianza che ha ispirato in passato l'anticolonialismo e che l'ideologia imperiale cerca ora di strumentalizzare presentando le sue guerre di conquista come battaglie per la libertà e la democrazia. Insomma due fondamentalismi contrapposti: da un lato quello islamico e, dall'altro, quello dei neoconservatori americani, ferventi difensori del «destino manifesto» di una nazione alla quale Dio avrebbe conferito la missione di estendere all'intero pianeta le virtù della democrazia e del libero mercato.

Questa interpretazione converge sotto molti aspetti con quella di Tariq Ali (Lo scontro dei fondamentalismi, Fazi, 2006), che sottolinea da parte sua l'aspetto non solo reattivo ma anche regressivo di questo fondamentalismo antioccidentale, che ha sostituito la religione alle ideologie laiche, panarabe o socialiste predominanti in Medio Oriente almeno fino al trionfo della rivoluzione iraniana. Vero è anche, come aggiunge Losurdo, che gli Stati Uniti non hanno esitato, durante la guerra fredda, a sostenere il fondamentalismo islamico in funzione antisovietica, contribuendo a costruire un boomerang che si ritorce oggi contro di loro.

Altrettanto ambigui sono concetti come antiamericanismo, antisemitismo, antisionismo o ancora «filo-islamismo». L'antiamericanismo è generalmente bollato come sintomo di arretratezza culturale, gretto nazionalismo, o come forma mascherata di antisemitismo. Questa diagnosi non è falsa, come hanno mostrato i lavori di Philippe Roger (L'ennemi américain: généalogie de l'antiaméricanisme français, Seuil) e Dan Diner (Feinbild America, Propyläen), ma unilaterale. «Americanismo» è anch'essa un'etichetta che contrassegna prodotti molto diversi. Heidegger l'ha usata come metafora della modernità tecnica e della «massificazione dell'uomo», cogliendone i tratti anche nel bolscevismo. Il Ku Klux Klan l'ha fatto proprio nei suoi rituali razzisti. Negli anni Venti, il sociologo Roberto Michels e Adolf Hitler sottolineavano le affinità del fascismo e del nazismo con l'americanismo, considerato dal primo come ricettacolo delle energie vitali di una giovane nazione e dal secondo come culto della supremazia bianca.

Prendendo le distanze da una visione ebreo-centrica tesa a dividere il mondo in due entità ontologicamente diverse, gli ebrei e i gentili, e a raccontarne la storia come il dispiegamento progressivo del loro conflitto, dal cristianesimo delle origini fino allo sbocco tragico della «Soluzione finale», Losurdo ristabilisce alcune utili distinzioni metodologiche. L'antigiudaismo rientra nella tradizione illuministica della critica della religione, alla quale appartengono filosofi come Voltaire o Marx, che si opponevano con forza alle discriminazioni contro gli ebrei. L'antisemitismo è invece una forma di ostilità nei confronti degli ebrei considerati come una razza nociva. Nasce nell'ultimo quarto dell'Ottocento, entra in osmosi con i nazionalismi moderni e sfocia, in Germania, nell'ideologia sterminatrice del nazismo. Losurdo riconosce i possibili slittamenti dalla giudeofobia tradizionale all'antisemitismo moderno, favoriti dalla singolarità del giudaismo come religione di un popolo, ma non dedica forse la dovuta attenzione alle frequenti osmosi fra i due. La sua distinzione rimane tuttavia metodologicamente necessaria, come pure quella tra antisemitismo e antisionismo.

La barbarie inventata

Se è vero che la critica di Israele è spesso uno scudo dietro il quale si nascondono gli antisemiti, l'identificazione aprioristica di antisionismo e antisemitismo è un altrettanto facile pretesto per legittimare ad ogni costo la politica israeliana. Bisogna quindi ricordare, sulla scia di Hannah Arendt, che il sionismo politico delle origini, quello di Herzl e Nordau, gettava le sue radici in una visione del mondo eurocentrica che vedeva nel Medio Oriente uno spazio colonizzabile nel quale gli ebrei avrebbero creato «un avamposto della civiltà contro la barbarie». Qui risiedono anche tutte le ambiguità della percezione occidentale dell'islam. La critica illuministica della religione musulmana non è sempre innocente (come suggeriscono gli studi postcoloniali), ma certo possiede una sua legittimità. Troppo spesso, tuttavia, la difesa della laicità diventa il vettore di un anti-islamismo di stampo razzista.

La legge francese che proibisce il velo islamico nelle scuole pubbliche è un esempio emblematico di questa insidiosa tendenza a riaffermare il carattere «superiore» dell'Occidente, benché ora rivendicato in nome della democrazia e non più della razza. Ma il discorso occidentalista è davvero così nuovo? La prosa islamofoba di Oriana Fallaci sembra riprodurre letteralmente molti stereotipi dell'antisemitismo di un secolo fa: l'invasione dei meteci, la corruzione della cultura, la penetrazione di un corpo estraneo nelle nazioni cristiane.

Certo una rassegna critica del lessico imperiale potrebbe includere altri lemmi oggi diffusi, da quello di «guerra umanitaria» a quello di «totalitarismo», che permette di riattivare il vecchio arsenale ideologico della guerra fredda contro il terrorismo islamista. Losurdo ha iniziato a dissodare il terreno. Per questo il suo libro è prezioso.