Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Per una dialettica gramsciana del subalterno. (Articolo censurato da Liberazione)

Per una dialettica gramsciana del subalterno. (Articolo censurato da Liberazione)

di Raul Mordenti - 08/05/2007

 



 

Nota degli enstensori:
Può il gramsciano censurare (e accettare la censura)? L'articolo che segue era stato commissionato all'Autore per il Supplemento di “Liberazione”/”Quer” dedicato a Gramsci e intitolato “Può il subalterno parlare?”, a cura di Giorgio Baratta (29/04/07). Essendosi l'Autore rifiutato di tagliare, cioè autocensurare, una frase di critica a Bertinotti (come gli era stato chiesto) il curatore Giorgio Baratta e “Liberazione” hanno deciso di censurare l'intero articolo, che infatti non è stato pubblicato. Facciamo pervenire il testo ai compagni e alle compagne (con la frase proibita in carattere grassetto). Invitiamo a diffonderlo e, soprattutto, a meditare insieme su come è ridotta la sinistra (che pure si dice comunista, libertaria, antiautoritaria e quant'altro).

1. La domanda se il subalterno possa parlare costituisce (a rigori) una tautologia, che nasconde però un problema (e forse il problema). Il subalterno, finché rimane subalterno e in quanto subalterno, non può evidentemente parlare, perché l'essere subalterno si definisce appunto come una radicale mancanza di autonomia , che significa mancanza di un proprio punto di vista, mancanza di un discorso auto-centrato e posizionato a partire da sé, dunque mancanza anzitutto di parola. Dove “parola” significa evidentemente sia lessico che linguaggio i quali (il pensiero femminista ce l'ha insegnato) sono intrisi di dominio: usare la parola di chi ci usa non è parlare. Credo anzi che potrebbe essere questa la vera definizione di “subalterno”: è subalterno chi non possiede una propria capacità di parola (qui Spivak è ìmpari a se stessa, quando definisce “subalterno” come “essere rimosso/a/i da ogni linea di mobilità sociale”: il contrario è vero, anche la “mobilità sociale”, perseguìta individualmente o corporativamente dentro la gerarchia delle classi assunta come immodificabile, è fattore e segno di subalternità).

2. Se “subalterno” è mancanza di parola, allora “potere” è anche potere di parola, il potere egemonico di articolare un discorso auto-legittimante, di istituire un senso, di dare senso alle cose (o meglio: di imporglielo ), rendendo il proprio punto di vista “senso comune”. E Gramsci ci insegna che appunto attorno al “senso comune” si svolge la lotta egemonica fra le classi: è egemone chi incontra, controlla, gestisce il senso comune.

Da questo punto di vista non solo le nazioni ma anche i poteri sono racconto o, per meglio dire, le “grandi narrazioni” condivise dai subalterni sono necessarie ai poteri non meno di quanto gli siano le polizie e gli eserciti (non foss'altro perché - come già Gramsci vide lucidamente - anche nella più esclusiva, costrittiva e “dominante” delle dittature almeno le polizie, gli eserciti e i membri degli apparati repressivi debbono, in qualche modo, essere “egemonicamente” persuasi dal potere che servono, cioè debbono condividere il racconto del mondo proposto/imposto da quel potere). Per questo le dittature hanno bisogno di eroi.

3. È giunto il momento che i rivoluzionari assumano il problema della costruzione del senso come il più decisivo dei problemi. Se non nei termini della produzione di un racconto opposto e speculare rispetto a quello del potere almeno nei termini della capacità di criticare il racconto del potere al fine di sottrarvisi. Questo gesto è la condizione necessaria della lotta per l'autonomia, cioè per la fuoruscita dalla subalternità. È il gesto (se ci riflettiamo: meraviglioso) da cui origina ogni liberazione collettiva: è il movimento operaio che nasce nel momento stesso in cui rifiuta di credere al racconto del capitale (cioè che la liberazione passi per lo sfruttamento); è il gesto dei popoli colonizzati che comprendono come il “fardello dell'uomo bianco” sia solo un racconto che serve per caricare ogni fardello sulle spalle dell'uomo nero e della donna nera; è il gesto di Lenin e di Malcom X, del femminismo e dei movimenti di rivolta giovanili, etc.

Quando i rapporti di forza sono particolarmente sfavorevoli o addirittura disperati (come nei tempi nostri) forse potrebbe bastare il gesto degli ebrei costretti ad assistere alle prediche della Controriforma: turarsi le orecchie con invisibili tappi di cera. Forse è proprio questo che fanno i ventenni di oggi, forse è una forma di primitivo, ma sensato e radicale, rifiuto il loro malinconico e anoressico silenzio, forse è l'unica forma di opposizione che sia oggi loro possibile.

4. Chi rifiutasse ancora l'urgenza del problema che qui poniamo (magari perché lo ritiene, con formuletta lorianesca, “sovrastrutturale”) dovrebbe riflettere sull'accanimento e la cura che il potere capitalistico impiega nella distruzione sistematica dei racconti di liberazione che minacciano di mettere in questione la passività dei subalterni. Cos'altro sono la campagna sistematica della pagina culturale del “Corriere della sera” contro la Resistenza o di “Repubblica” contro Cuba se non lo sforzo di persuadere che nulla di diverso dal potere dai suoi orrori è stato mai possibile (e, dunque, oggi neppure pensabile)? Anche molta parte della gestione neo-brescianesca di Gramsci (Gramsci liberale, Gramsci trotzkista, Gramsci socialdemocratico, Gramsci tradìto da Togliatti, etc.) ci parla di questa esigenza del potere di rendere impensabile ogni alternativa.

Questa è la secolare lotta culturale (e politica) fra le classi: da una parte i subalterni tentano sempre in ogni modo (compreso il sogno e la religione) di affermare che un altro mondo sarebbe nonostante tutto possibile; dall'altra parte il potere ribadisce invece che non c'è nulla da fare, che un altro mondo è assolutamente impossibile, che “tanto, signora mia, una volta al potere sono tutti uguali”. Da questo punto di vista l'esito dell'esperienza di Rifondazione (simboleggiato dalle reazioni di Bertinotti agli studenti che lo avevano contestato alla “Sapienza” ) rappresenta una grande vittoria culturale, cioè politica, del potere capitalistico italiano, e costituisce un formidabile fattore di disillusione e rassegnazione dei subalterni (che si tramuta in passività politica).

5. Qui il pensiero di Gramsci ci aiuta. In Gramsci il soggetto (il soggetto della storia, e della rivoluzione) non è affatto dato, esso si deve continuamente costruire, dunque auto-costruire.

A ben vedere deriva proprio da qui una insopprimibile istanza democratica presente in Gramsci: la necessità di costruire il soggetto rivoluzionario (costruire, non solo dirigere) attraverso un processo reale storicamente determinato, cioè politico e conflittuale, che presenta contraddizioni anche al suo interno (fra dirigenti e masse, fra partito e movimento, fra “direzione consapevole” e “spontaneità” etc.). E il fondamento teorico della democrazia comunista è l'inaudita risposta che Gramsci fornisce alla più inaudita delle domande che un dirigente comunista si sia mai posto, una domanda ai limiti dell'assurdo nella concezione leninista del Partito e che Gramsci definisce invece “quistione teorica fondamentale”: “Si presenta una quistione teorica fondamentale (…): la teoria moderna [il marxismo, n.d.r. ] può essere in opposizione con i movimenti ‘spontanei' delle masse?” ( Q 3 , pp. 330-331). La risposta che Gramsci si dà (e nessun altro comunista dopo di lui si darà) è tanto risoluta quanto gravida di conseguenze fondamentali per la teoria del Partito e per la stessa idea di rivoluzione: “ Non può essere in opposizione : tra di essi c'è una differenza ‘quantitativa', di grado, non di qualità; deve essere sempre possibile una ‘riduzione', per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni agli altri e viceversa”(Ibidem).

6. “Siamo indios, ma non solo…” dicono gli zapatisti. I subalterni gramsciani, gli operai che egli ha ascoltato negli anni dell'”Ordine Nuovo”, i quadri popolari con cui ha cercato di costruire il suo Partito, perfino i delinquenti meridionali che ha incontrato in carcere non sono mai tabula rasa , non sono mai mera passività e assenza di soggettività, non sono mai solo il “concio” della storia: sono sempre anche qualcos'altro . È questo il motivo per cui: “il punto di partenza deve sempre essere il senso comune, che spontaneamente è la filosofia delle moltitudini che si tratta di rendere omogenee filosoficamente.” ( Q 11 , pp. 1397-1398). Esiste infatti “lo spirito popolare creativo”, che Gramsci afferma essere la vera base della sua ricerca, la comune origine dei quattro strani temi che egli si assegna nella lettera a Tania del 19 marzo 1929 in cui annuncia per la prima volta il progetto dei Quaderni. Per questo: “Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe (…) essere di valore inestimabile per lo storico integrale” ( Q 25 , pp.2283-2284).