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Contro il '68

di Alessandro Bertante - 10/05/2007

 

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[E' uscito un saggio-pamphlet cruciale. Lo ha scritto Alessandro Bertante, lo ha pubblicato Agenzia X e si intitola, provocatoriamente nel senso letterale del termine, Contro il '68. Al centro, la messa sotto accusa della deriva umana che, da rivoluzionaria, si è fatta complice di uno slittamento nazionale nella palude neoliberista, costituendo un blocco di potere che ha cristallizzato più di 25 anni di possibili rotture sociali, fino alla termitizzazione attuale. L'anticipazione data su Lipperatura dell'incipit del saggio ha creato un prevedibile dibattito: acceso nei toni e che necessiterebbe sedi cartacee adeguate alla questione sollevata. Qui riproduco parti del capitolo Conformismo e partecipazione. Ringrazio l'autore per avere concesso la possibilità di mettere on line parte del suo testo, del quale tornerò a occuparmi. gg]

Esauriti la spinta propulsiva e l’entusiasmo della fase iniziale, i giovani contestatori furono le prime vittime della nascita di un nuovo conformismo rivoluzionario che con esiti talvolta disastrosi andò a sovrapporsi al già ben radicato conformismo borghese, evidenziando in modo farsesco tutte le ambiguità politiche della nuova sinistra extraparlamentare. Inevitabilmente la retorica e l’ideologismo gruppettaro condizionarono la produzione artistica in letteratura come nel cinema e nel teatro, stroncando in modo repentino il grande fermento culturale sorto nel secondo dopoguerra. Non c’è dubbio che per l’Italia gli anni cinquanta e sessanta furono una stagione artistica aurorale, durante la quale si concretizzarono energie e motivazioni che erano state tenute a freno prima dalla dittatura e poi dalla guerra.
Contro ogni proclama e contro ogni buona intenzione, la rivolta politica del Sessantotto, pur non avendo responsabilità dirette in questa involuzione, accompagnò la nascita un nuovo modello di comunicazione e fruizione culturale: leggero, orizzontale, furbescamente accessibile e in apparenza democratico ma superficiale e pericolosamente subdolo, pensato e costruito in modo da potersi adattare alla straordinaria forza della televisione, megafono privilegiato della nuova società “spettacolare” di massa, proprio come previsto con lucida chiaroveggenza dai situazionisti alla fine degli anni cinquanta. Un modello che in apparenza aumenta l’importanza dell’opinione pubblica ma che di fatto riduce drasticamente l’influenza della società civile nella vita politica.
In questo contesto anche la figura dell’intellettuale si deteriorò irreversibilmente, finendo con l’essere quasi vituperato in quanto portatore di un ruolo etico e culturale, mentre andava costituendosi un mito democratico dell’opinione pubblica, voce univoca degli umori di una massa pressoché inerte veicolata da messaggi mediatici sempre più semplici, sebbene fuorvianti. “Il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinione pubblica” scriveva lapidario Guy Debord, e francamente non riusciamo a dargli torto. Sebbene fosse già avviata da tempo, fu proprio durante gli anni settanta che questa trasformazione divenne evidente, solo in parte mimetizzata dalla crescente conflittualità politica. Alla fine del decennio la società di massa, o sarebbe meglio dire per la massa, aveva già compiuto la sua definitiva affermazione. Si era allargata a tal punto da diventare eterea, inconsistente, un deserto cognitivo dove poter operare qualsiasi forma di manipolazione mediatica.
In questo vuoto pneumatico la società postindustriale fagocita se stessa e smarrisce ogni punto di riferimento etico. Ogni opinione ha valore, nessuna opinione ha valore. Ogni linguaggio ha una sua dignità perché non esistono dignità né linguaggio. Ogni mezzo di comunicazione è valido, la comunicazione diventa il principale veicolo letterario o artistico, svilendo l’arte nel genere, nella ripetizione del genere e poi ancora nella citazione del genere. E in questo sotterraneo mutare, la violenta contrapposizione politica – nella seconda metà del decennio già di fatto perdente e chiusa in un ottuso radicalismo militare, probabilmente incoraggiato da apparati dello stato – fa da specchietto per le allodole di trasformazioni ben più radicali e significative.[...]
Più tardi sarebbe stato invece chiaro che si era trattato di una evoluzione, non di una sconfitta del capitalismo, già in rinnovamento, già allora dialogante con il computer (a noi ignoto), e già fuori da una prospettiva di classe in nome di una società dei servizi e del ceto medio. Una società in cui la scolarizzazione di massa avrebbe prodotto, invece che frammentazione e oppressione, un’identità liberale sul terreno sociale, attentissima ai diritti individuali e cultrice del benessere. Senza più nemmeno un pensiero per la rivoluzione.
I frutti di questo cambiamento si iniziarono a raccogliere allo scoccare degli anni ottanta, quando – repentinamente e quasi senza che ce ne si accorgesse – venne a mancare ciò che Italo Calvino chiamava “la voce anonima dell’epoca”, ovvero una pulsione più forte e autentica rispetto alle riflessioni individuali del singolo intellettuale o artista, una voce autorevole in virtù della sua pregnanza rispetto alla contemporaneità. La generazione dei sessantottini è perfetta per accompagnare questo cambiamento. Nella sua spudorata inconcludenza conserva il torto e la ragione assieme. In quanto espressione di un’unica classe egemone, la borghesia urbana, rappresenta sia il governo sia l’opposizione. La vittoria e la sconfitta. La lotta coraggiosa e la ritirata più miserabile. Simulando la battaglia sociale come fosse un teatro dei pupi, l’Italia postfordista dice per sempre addio alla conflittualità fra classi.
Negli ultimi trent’anni la crisi, o meglio la percezione della decadenza di letteratura, cinema e arte in generale, si specchia nella mancanza di prospettive e nell’affanno esistenziale di una società formata da uomini e donne confusi e irrisolti, fatalmente poveri di esperienza o, meglio, del senso della loro esperienza. L’assenza di un reale conflitto, principale motore del progresso umano, ha ridotto drasticamente lo spazio per la ricerca di un contenuto che dia legittimità all’inventare.
Stiamo vivendo la fase crepuscolare di quel modello culturale, abbiamo di fronte un baratro ancora tutto da esplorare.
Ma è importante sottolineare che mentre nell’Occidente industrializzato si profilava questo epocale cambiamento, i sessantottini si baloccavano con la chimera liberale di un’informazione orizzontale e indipendente, dimostrando ancora una volta di non comprendere gli autentici cambiamenti strutturali in atto.
[...] Cosa resta quindi oggi del Sessantotto? Non molto, in realtà. Il trasformarsi del ruolo della donna, l’affermazione del diritto al divorzio e all’aborto, il progressivo laicismo sociale e il mutare dei costumi fanno parte di quel trascinante processo di modernizzazione già in atto nelle democrazie occidentali dalla fine degli anni cinquanta, del quale il Sessantotto fu un sintomo importante ma non certo la causa scatenante. Processo di modernizzazione inevitabile perché legato ai cambiamenti strutturali del sistema capitalistico, diversificato e inafferrabile, non più fordista e non più dipendente dalla produzione delle industrie nazionali. Per creare nuovi mercati servivano nuovi bisogni e un immaginario che li veicolasse, quindi una società più aperta e dinamica che comprendesse uomini e donne, bianchi e neri, omosessuali e omofobi, destri e sinistri, impiegati e disoccupati, risparmiatori e gaudenti, benpensanti e tossicodipendenti. Tutti consumatori, tutti contenti di poterlo essere. Che poi l’esaltazione delle differenze e dell’individualità borghese vada sempre a scapito dell’uguaglianza è storia assai nota.
In realtà sono proprio le conquiste più immediatamente politiche maturate in quegli anni a essere state “superate” e rimosse dall’aggressivo neoliberismo dei decenni successivi.
Anche con uno sguardo frettoloso alle condizioni dell’attuale mondo del lavoro italiano ci si rende conto di quanto lo Statuto dei lavoratori, rivendicato come una delle principali eredità del Sessantotto, sia stato di fatto circoscritto e aggirato da altre normative; rimane valido per tutelare alcune categorie di salariati e stipendiati riemerse alla ribalta politica durante l’ultimo governo Berlusconi, in occasione del fallito tentativo di revisione dell’articolo 18. Ma per poco altro.
Oggi la stragrande maggioranza dei giovani tra i venti e i quarant’anni vedono gli operai e gli impiegati assunti nei decenni precedenti come privilegiati, e questo aumenta in modo sensibile la mancanza di comunicazione e di mutua solidarietà fra le diverse categorie di lavoratori.
Dell’arretramento politico a modelli rivoluzionari datati e autoritari verificatosi nella seconda metà degli anni settanta abbiamo già detto; bisogna aggiungere che quei modelli hanno continuato per molto tempo a condizionare la vita politica italiana. Ricordo che durante le occupazioni del 1990 – il movimento universitario della Pantera – noi giovani contestatori guardavamo con un misto di sgomento e rassegnazione all’eterno riproporsi delle divisioni politiche degli anni settanta, con gli eredi dell’Autonomia Operaia e degli stalinisti impegnati a fronteggiarsi astiosamente, ancora chiusi in ruoli preconfezionati. Con quel disordinato movimento tentammo di fermare la ristrutturazione conservatrice già in atto da alcuni anni: le riforme universitarie nate sull’onda della contestazione – la liberalizzazione dei piani di studio, gli appelli mensili e l’incremento dell’interattività fra le diverse discipline – già da tempo erano state oggetto di limitazioni e di fatto disinnescate nella loro carica rinnovatrice, prima della recente cancellazione operata dalla riforma Moratti.
Affrontando il tema dell’eredità politica non si può non ripensare agli anni ottanta, ed è un compito difficile, quasi doloroso. Deve forse trascorrere ancora un po’ di tempo per essere sufficiente lucidi, ma certo non è avventuroso affermare che anche in Italia si è imposto il modello neoliberista, magari con un’attitudine meno drastica che in altri paesi (penso all’Inghilterra, al durissimo ed estenuante conflitto sindacale dei minatori) e con un costo sociale decisamente più basso. Complici di questo trapasso quasi indolore sono stati la collaudata attitudine italiana al compromesso e il ruolo della sinistra borghese intellettuale, freno motore delle lotte politiche degli ultimi due decenni.
La crisi culturale della borghesia italiana come ceto trainante delle trasformazioni sociali è l’autentica eredità del Sessantotto studentesco.
Non poteva essere altrimenti. Contestando la propria classe di appartenenza senza la determinazione e la tenacia di una lotta veramente antagonista, i sessantottini hanno dato vita a un’estetica rivoluzionaria ingannevole, un insieme di comportamenti anticonformisti, pose e stereotipi politici ancora oggi piuttosto diffusi e riproposti con orgoglio. Sul medio periodo il risultato è stata una rinnovata diffidenza popolare nei confronti della sinistra borghese intellettuale, vista come l’irritante espressione di una classe sociale annoiata e parolaia, capricciosamente affezionata a obiettivi politici che non le appartengono. La crisi identitaria della borghesia si è fatta lampante con lo spensierato edonismo degli anni ottanta, quando gli ex contestatori perfezionarono il loro percorso professionale.
La corruzione diffusa, il malcostume sociale, la perdita del senso etico dello stato e il definitivo affermarsi della televisione commerciale monopolistica hanno aperto la strada al quel degrado civile e culturale che sta all’origine dell’anomalia Berlusconi. A sua volta, l’imprenditore di Arcore è stato uno dei primi a capire quanto sarebbero potuti diventare utili gli ex sessantottini in questa fase di riflusso politico ed esistenziale, sempre che fossero riusciti a emanciparsi dalle ingenue rivendicazioni politiche della giovinezza.
Ma questa è storia attuale.