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Come sopravvivere allo sviluppo

di Paolo Scroccaro - 05/12/2005

Fonte: filosofiatv.org

COME SOPRAVVIVERE ALLO SVILUPPO    

DALLA DECOLONIZZAZIONE DELL’IMMAGINARIO

ECONOMICO ALLA COSTRUZIONE DI UNA SOCIETA’ ALTERNATIVA                                                   

Serge Latouche (Boringhieri, ottobre 2005)

 

Qualche decennio addietro, il titolo sarebbe risultato bizzarro: oggi non più, poiché sul tema in oggetto vi è ormai una letteratura significativa e diffusa, di cui Latouche è uno degli esponenti più importanti (assieme a Vandana Shiva, Gilbert Rist[1], Wolfgang Sachs, Edward Goldsmith[2], Raimon Panikkar[3] e altri). In questi anni , Serge è tornato a più riprese e con caparbietà sull’argomento, denunciando senza compromessi il dispotismo del pensiero unico sviluppista e i limiti dell'immaginario unilaterale su cui si fonda: così facendo, ha elaborato testi che hanno aperto e allargato una via di ricerca, e che sono diventati un punto di riferimento per quanti non credono nella religione della crescita illimitata.

L’ultimo volumetto di Latouche, benché piccolo per mole, è denso di contenuti e di proposte: esso sintetizza in modo brillante l’essenziale dei lavori precedenti (L’occidentalizzazione del mondo, Il pianeta dei naufraghi, La Megamacchina, I profeti sconfessati etc.), e dopo aver ricapitolato gli aspetti critici della sua ricerca, cerca di soffermarsi in modo particolare sul versante costruttivo, che come solitamente accade, è quello più ostico, così da suscitare qualche interrogativo anche tra molti di coloro che simpatizzano per la pars destruens dell’operato di Latouche. Negli ultimi anni, Serge sembra essersi particolarmente impegnato nella pars construens: uno degli esiti principali di questa ricerca, è condensato nella parola d’ordine “Decolonizzare l’immaginario”, che è anche il titolo di un suo recente saggio apparso in Francia nel 2003 e in Italia l’anno successivo[4]. Si tratta, ancora una volta, di una formula veramente felice, cui Serge ci ha abituato, destinata a lasciare il segno: essa è ripresa anche nel sottotitolo dell’ultima sua pubblicazione italiana, in cui si mette in relazione la decolonizzazione dell’immaginario e la costruzione di una società alternativa, così da rimarcare che tale decolonizzazione è una mossa obbligata per smuovere gli ostacoli che ingombrano la via  verso un cambiamento auspicabile. Il processo di decolonizzazione si svolge su un terreno di frontiera che separa il vecchio mondo da quello nuovo.

 

L’immaginario colonizzato

In alcune opere precedenti, Latouche aveva descritto la colonizzazione dell’immaginario da parte dell’economicismo, aspetto saliente di quel “pensiero unico” il quale, a destra come a sinistra, punta tutte le sue chances sullo sviluppo delle forze produttive, sulla crescita illimitata del P.I.L. e dei consumi, sullo sfruttamento ad oltranza della natura tramite l’apparato tecnico-scientifico…Tutto ciò è avvenuto nel corso di un lungo processo, di cui sarebbe importante mettere in risalto i momenti più significativi, individuabili nei mutamenti di paradigma che hanno contrassegnato i ritmi della storia culturale dell’Occidente, ma non solo…[5]

Il risultato essenziale di tale manomissione culturale è un immaginario utilitarista -economicista, come tale votato ad una serie di restrizioni unilaterali e ostile al pluralismo culturale ed esistenziale. Va da sé che la liberazione dell’immaginario, a questo punto, non potrà essere un’operazione né facile né rapida: essa coinvolge molteplici aspetti, che meritano tutti un’attenzione adeguata. Qui possiamo considerarne solo alcuni (prendendo lo spunto da Latouche, ma non solo).

 

Il carattere onnipervasivo dell’immaginario economicista

                   

                      “Non riusciamo a capire che qualcuno possa agire senza un movente

                        economico” (A. Coomaraswamy, Sapienza orientale e cultura

                        occidentale, Rusconi, 1975, pag. 52)

 

Partiamo da una constatazione di fondo: esso (l’economicismo) non è esclusivo di una classe o di un ceto: ben di più, esso è tipico della civiltà occidentale moderna, e ormai del mondo intero (o quasi), nella misura in cui l’occidentalizzazione del mondo si è estesa su scala planetaria (anche se non mancano le sacche di resistenza). Data la diffusione per così dire interclassista e planetaria di tale immaginario, sarebbe fuorviante, e soprattutto deresponsabilizzante[6], voler individuare la causa principale di tale fenomeno onniavvolgente in qualche centro di potere economico-politico-tecnologico: non siamo in presenza di un apparato gerarchico e centralizzato, che esercita una pressione unidirezionale dall’alto verso il basso, coartando la base: se ciò fosse vero, il compito dei decolonizzatori risulterebbe alquanto semplificato! Occorre fare i conti, invece, con ciò che M. Foucault chiamava la “microfisica del potere”, quindi con un potere trasversale e diffusivo, che proprio per questo sembra più efficace dei vecchi modelli autoritari. Con questo, non si intende certo negare l’esistenza di mega-apparati finanziari, politici, tecnologici etc. che dispongono di mezzi potentissimi al loro servizio: ed anzi, sarebbe bene che tali presenze inquietanti venissero almeno ridimensionate. Tuttavia, se anche ciò accadesse, non per questo verrebbe dissolto l’immaginario economicista: la sua forza sta nella sua onnipresenza molecolare[7], nel trovarsi a suo agio nelle variegate esperienze sociopolitiche tentate dalla modernità, a destra come a sinistra…Anche là dove il capitalismo è venuto meno, e il socialismo ha preso il sopravvento (v. pag. 16), l’economicismo è rimasto al suo posto, per nulla indebolito, e caso mai rafforzato, configurandosi come l’ideologia più “universale” dell’età moderna e contemporanea, capace di far convergere nei suoi valori, nelle sue istanze più essenziali, borghesi e proletari, paesi ricchi e paesi poveri[8], bambini, giovani e anziani…[9] La visione sviluppista ha alimentato speranze e progetti ovunque, ricoperti di varie colorazioni politiche e ideologiche, le cui differenti tonalità passano decisamente in secondo piano, rispetto al comune orientamento di fondo.

Oggi però lo “sviluppismo” sembra aver esaurito le sue chances: Latouche ha il merito di aver individuato, tra i primi, le crepe in tale mega-edificio, rendendole sempre più visibili anche ad altri; di conseguenza, annuncia che è possibile “rifare il mondo”, e in vista di ciò, invita a “decolonizzare l’immaginario” che sostiene il vecchio mondo, per liberare altre visioni e altre possibilità di esistenza…[10]

 

 

PUNTI DI RIFERIMENTO PER UN IMMAGINARIO E PER UNA CIVILTA’

                             IN VIA DI DECOLONIZZAZIONE

 

         “Se Dio venisse un giorno sulla terra e domandasse dove sono andati a finire gli Aztechi, gli Incas, i Pellerossa, gli aborigeni australiani e altre razze in via di lenta estinzione, le nazioni civili lo condurrebbero a visitare i vostri grandi musei?”

                         (domanda di un giornalista di Ceylon, raccolta da A. Coomaraswamy)

 

a)      Tecniche e saperi di autosussistenza, estranei all’occidentalizzazione

b)      Le saggezze tradizionali, estranee all’immaginario economicista

c)      L’ecologia profonda

d)      L’etica della compassione cosmica

e)      Pluralismo culturale e genius loci

 

 

a)Tecniche e saperi di autosussistenza, estranei all’occidentalizzazione

                 

          “Il pensiero scientifico e la filosofia positivista, che si sono sviluppati in                                                         Occidente contemporaneamente al capitalismo, hanno imposto una svalutazione spesso ingiusta e ingiustificata dei saperi differenti e delle conoscenze delle società non capitalistiche”

(S. Latouche, I profeti sconfessati, ed. la meridiana, 1995, pag. 210)

                                               

I modi di vita ancestrali che permettevano l’autosufficienza, povera ma dignitosa, dei popoli, sono stati distrutti o marginalizzati dall’economia mondiale (v. pag. 88) in nome dello sviluppo delle forze produttive; tuttavia, da essi possiamo ancora ricavarne qualcosa di importante: le loro sopravvivenze possono costituire la base per un mondo nuovo[11], nonostante l’ostilità dei liberali, dei tardocomunisti, dei tecnocrati e della Banca Mondiale, che le considerano retrive e nemiche dello sviluppo.

Le sopravvivenze in questione non hanno natura solo economica: esse si legano a fattori culturali, sociali, tecnologici[12], a saperi artigianali, agricoli[13], fitoterapici etc., che nell’insieme sembrano testimoniare o promuovere una diversa civiltà possibile. In definitiva, sarebbe ingiusto ed errato considerare le sopravvivenze precapitalistiche come dei dati folkloristici destinati ad un passatismo museale[14], come vorrebbero economisti e tecnocrati di professione; ben di più, esse costituiscono a tutt’oggi un’ancora di salvezza per i “naufraghi dello sviluppo” e per quanto di tribale ancora sussiste[15]: anche grazie ad esse, i dannati della terra riescono a “sopravvivere allo sviluppo”[16], cosicché le loro esperienze possono essere considerate dei laboratori per il dopo-sviluppo (v. pag. 88-89)[17].

 

b) Le saggezze tradizionali, estranee all’immaginario economicista

 

A pag. 85, Latouche ripropone la dichiarazione INCAD[18] del 4 – 5 – 1992 (sottoscritta assieme ad altri), la quale invita a rivalutare le culture tradizionali, al fine di rinnovarle nel contesto della modernità[19]. E’ materia su cui riflettere, a maggior ragione considerando che anche le nostre radici culturali vengono coinvolte: quando Latouche, fedele allo spirito della citata dichiarazione, scrive che occorre riabilitare l’arte, l’artigianato e la vita contemplativa (v. pag. 82), da noi il pensiero corre subito all’antica Grecia, culla della nostra civiltà, come molti sostengono, e specialmente a quei filosofi che, come Platone[20], hanno celebrato nel modo migliore ciò che anche Latouche mostra di apprezzare. In questo modo, viene sollecitato un profondo interesse per le radici greche dell’Europa, interesse che non è di natura museale, dato che si salda con lo spirito e la necessità attuale della decrescita, di cui i Greci (non solo loro) sono stati maestri!

Parallelamente, la rivista francese Decroissance dedica uno spazio, sia pur modesto, ad autori antichi, medievali (e moderni), in sintonia con la decrescita…è un’idea da riprendere e ampliare perché può portare lontano: essa permette di evidenziare che decrescita e sobrietà sono in buona compagnia[21], dato che molteplici tradizioni, differenti per molti aspetti, ciò nonostante convergono su un basilare orientamento antisviluppista. Da qui, inoltre, sorge la consapevolezza che l’economicismo, considerato normale nel contesto dell’occidentalizzazione del mondo, nel più ampio contesto della storia delle culture planetarie figura invece come un’anomalia alquanto inquietante, dalla quale occorre guardarsi!

 

c) Ecologia profonda

 

                     “Il fiorire della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore

                       intrinseco. Il valore delle forme di vita non umane è indipendente

                       dall’utilità che queste possono avere per i limitati scopi umani”

                      (Arne Naess, Ecosofia, red edizioni, 1994, pag. 31)

 

Latouche conclude Come sopravvivere allo sviluppo ricordando che “questo obbligo per l’uomo di fondersi nel cosmo si ritrova nella maggior parte delle società…Questo atteggiamento sottende rapporti di reciprocità tra gli uomini e il resto dell’universo” (pag, 98). Tale è l’atteggiamento dell’ecologia profonda, così come riportato negli scritti dedicati all’argomento[22]: e benché Latouche non impieghi espressamente questa denominazione, di fatto in diverse occasioni ribadisce quelli che sono contenuti essenziali dell’ecologia profonda. Aggiungeremo che, in ultima analisi, solo quest’ultima, a differenza dell’ecologia superficiale[23], si adegua veramente alla natura e garantisce l’armonia, la stabilità e la sostenibilità[24] di una società, così come richiesto dalla decrescita. Del resto, molte prese di posizione di Latouche fluiscono nella direzione che stiamo considerando: le sue critiche all’antropocentrismo di Aristotele, al delirio tecnologico sognato da Cartesio e F. Bacone[25], in vista della manipolazione della natura, conducono ad una versione radicale dell’ecologismo, in cui non ci si può accontentare di rimedi occasionali (buoni forse per lo sviluppo sostenibile): si intravede un punto di svolta radicale, collegato ad una diversa visione del mondo, per la quale si potrebbe impiegare anche il termine “Ecosofia”, come propongono R. Panikkar (Ecosofia: la nuova saggezza, Cittadella ed., 1993) e A. Naess (Ecosofia, cit.). Si tratta di espressioni per lo più equivalenti.

In sintesi, ci sembra di poter dire che l’ecologia superficiale sta allo sviluppo sostenibile, così come l’ecologia profonda (o l’ecosofia) sta alla decrescita.

 

d) L’etica della compassione cosmica

 

Nel quadro così disegnato, i tentennamenti e i limiti delle etiche moderne risaltano in tutta la loro pochezza: in definitiva, nelle loro diverse varianti, esse sono accomunate da

un irresponsabile antropocentrismo, per il quale la morale è ridotta a trattamento cosmetico teso a  mascherare l’arrogante pretesa di voler manomettere illimitatamente gli enti e la natura tutta (con qualche aggiunta posticcia di penose giustificazioni ad hoc: l’esempio più clamoroso è fornito dalla morale kantiana).

“Ragione strumentale” è il nome scelto da Latouche per indicare tale atteggiamento prevaricatore, cui contrappone una “ragione ragionevole”[26]i cui contorni non sembrano convincenti.. La riflessione sui limiti dell’etica antropocentrica e della ragione strumentale non è una novità dei nostri tempi,  ed anzi dispone di un grande retaggio che merita di esser rivisitato. Restando in Occidente, i riferimenti più significativi si possono rintracciare nel Neoplatonismo, per quanto riguarda l’antichità, e in Schopenhauer, per quanto concerne l’età moderna. Considerando tali elaborazioni, e quelle convergenti che si sono date in Oriente, possiamo provare a riassumerle in una formulazione chiara e incisiva: “etica della compassione cosmica”[27]ci sembra l’espressione più appropriata. Essa semplicemente intende rimarcare che il cosiddetto rispetto kantiano per gli esseri umani, è ben poca cosa se non viene esteso agli esseri  non-umani[28]; questa apertura cosmica disinteressata, come tale esente da calcoli partigiani, configura l’unica etica universale possibile, al cui cospetto le etiche pelose inventate dalla modernità, funzionali alle varie forme assunte dalla volontà di potenza, risaltano per la loro insopportabile piccineria[29].

 

 

 

e)      Pluralismo culturale e genius loci

 

                          “Fra tutti questi luoghi, emergeranno di gran lunga quelli in cui spira un

                            certo soffio divino e in cui trovano dimora i demoni”

                            (Platone, Leggi, V, 747 e)

 

Nel contesto unilaterale dell’occidentalizzazione del mondo, la difesa del localismo e del pluralismo acquista il sapore di un antidoto salutare e necessario, che apre lo spazio per varie alternative. Per questo Latouche cita con favore Il progetto locale di Alberto Magnaghi[30](a pag. 43) e le critiche ecofilosofiche alla mondializzazione di Luisa Bonesio[31](a pag. 43-44), poiché in entrambi gli autori si tratta di operare per una effettiva “rivitalizzazione del tessuto locale”, che è ben altra cosa, rispetto al “localismo eterodiretto”, piegato alle strategie della globalizzazione. Secondo Latouche, “il localismo costituisce un elemento fondamentale di qualsiasi soluzione alternativa allo sviluppo e alla mondializzazione” (pag. 40-41), e poiché esso è declinabile in molti modi, ne discende un effettivo pluralismo culturale[32], così da configurare una specie di “democrazia delle culture”, come recita il titolo di un articolo di Latouche pubblicato originariamente in francese nel 2001[33]. In tale scritto, che qui sembra opportuno richiamare perchè permette un’ottima focalizzazione del problema che stiamo esaminando, Serge descrive i limiti del rullo compressore del “pensiero unico”: esso genera continuamente resistenze tra gli esclusi e i “naufraghi dello sviluppo”, resistenze che fanno leva in qualche modo sulle culture umiliate dalle dinamiche espansive dell’uniformazione planetaria. A questo punto il ritorno delle tradizioni identitarie può avvenire in forme grottesche, deformate e aggressive[34](v. per esempio le reazioni fondamentaliste all’occidentalizzazione, di vario colore religioso)), oppure in forme creative, capaci di operare una sintesi costruttiva tra le tradizioni premoderne, i contesti attuali e i nuovi problemi posti dalla modernità. A tal proposito, Latouche considera l’Africa, lo si è già detto, un laboratorio privilegiato, nel quale si danno esperienze originali di sopravvivenza allo sviluppo, fondate sulla ricostruzione del legame comunitario e sulle reti di solidarietà: in piena mondializzazione, rinascono dunque società vernacolari, adatte al genius loci [35] ?

Occorre prender atto del fatto che, nonostante l’ambizioso e inquietante megaprogetto di uniformazione planetaria, o forse proprio per questo, le diversità culturali svolgono una funzione insostituibile, poiché tengono dischiuse le porte verso altri modelli di civiltà, proprio come prevede l’epistemologia libertaria di P. Feyerabend[36](e come in fondo chiedeva anche J. Ruskin[37]): la salvaguardia del pluralismo (e il confronto interculturale che ne discende, in chiave non – dualistica) è perciò uno dei compiti più importanti del nostro tempo. Ci piace aggiungere che, rovistando nelle pieghe profonde e trascurate dell’anima europea, senza dover rivolgersi altrove, possiamo rintracciare e riportare alla luce esperienze significative di pluralismo culturale[38] e di armonizzazione delle differenze, da cui si potrebbero ricavare validissime lezioni per il presente[39], che sarebbe stolto negligere (magari ripiegando su quella superficiale “intercultura compensativa” così di moda nelle scuole e rivelatrice della grave inadeguatezza della cultura scolastica[40]).                                             

                                                                           Paolo Scroccaro

 

                                                                                    



[1] Nel testo che stiamo considerando, Latouche lo definisce “il mio clone ginevrino…con cui da  oltre trent’anni condivido i motivi essenziali di queste analisi e che, più di ogni altro, ha contribuito ad arricchirli “(pag. 8). Di G. Rist è stato tradotto Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale (Boringhieri, 1997). Al riguardo, vedi la sintetica recensione pubblicata nel Quaderno n. 6/1998 dell’Associazione Eco-Filosofica.

[2] E. Goldsmith auspica apertamente “la de-industrializzazione della società”, come recita il sottotitolo del suo testo La grande inversione (Muzzio ed., 1992). In esso, il fondatore di The Ecologist argomenta che “in termini di costi e benefici reali…è facile dimostrare che una politica di de-industrializzazione è l’unica che possa far aumentare sistematicamente il nostro tenore di vita” (pag. 183).

[3] Nessun libro di Panikkar è interamente dedicato al tema in questione: tuttavia, la critica dello “sviluppismo” è ben presente in vari testi e in molti interventi più circoscritti di Panikkar: v. per esempio Economia e senso della vita, in Come sopravvivere allo sviluppo, di AAVV (Ed. L’altra pagina, 1997).

[4] S. Latouche, Decolonizzare l’immaginario, E.M.I., 2004).

[5] A proposito di mutamenti paradigmatici, Latouche assume come punto di riferimento dell’economicismo contemporaneo la “costituzione della natura in nemico radicale del genere umano”, atteggiamento già presente in Aristotele, e poi enunciato in modo plateale da F.Bacone e da Cartesio, padri della modernità, i quali giustificarono con entusiasmo la sottomissione e la manipolazione della natura (v. Il mondo ridotto a mercato, Ed. Lavoro, 1998, pag. 103-104).

[6] La deresponsabilizzazione consiste nel fatto che, deviando ogni colpa su qualche apparato di potere, il soggetto si immagina esclusivamente come vittima di un ingranaggio perverso e malefico, che lo opprime, senza perciò mettere veramente in discussione il coinvolgimento più o meno attivo del singolo nel funzionamento dell’apparato, che ci sembra la cosa di gran lunga più importante…Non occorre andar lontano per trovare innumerevoli conferme a quanto sopra: i contestatori della globalizzazione e del mercato mondiale, riescono a organizzare proteste importanti contro le ingiustizie della mondializzazione; è però molto più difficile dissociarsi dal sistema dominante nella vita di ogni giorno, per cui essi stessi finiscono per assecondare di fatto lo stile di vita che a parole denunciano, escogitando alibi a catena per giustificare le loro incoerenze, cioè la sudditanza all’iperconsumismo e alle merci generosamente fornite dal mercato mondiale e dalle multinazionali (nel mentre tendono a rifiutare le fatiche dell’autosufficienza economica, uno dei pochi antidoti concreti ai mali dello sviluppismo). La deresponsabilizzazione è ben constatabile anche nel funzionamento delle organizzazioni più o meno alternative (e in tutte le altre): esse riproducono di fatto i modelli deplorevoli da cui vorrebbero prendere le distanze, per cui responsabilità e oneri organizzativi gravano su pochi militanti destinati a sacrificarsi per tentar di compensare l’indolenza dei più. Naturalmente non mancano le eccezioni, ma appunto sono solo nobili eccezioni: evidentemente, il sistema affonda le sue radici nell’alienazione generale, dalla quale ricava continuamente forza e nutrimento; gli autoritarismi del potere e di certi governanti (che non vanno esclusi, e che anzi talvolta si accompagnano all’infamia), diventano un ottimo alibi per i parolai di professione e per l’accidia delle masse, le quali si adeguano con entusiasmo preoccupante ai riti della religione della crescita e del consumismo illimitato. Solo nella misura in cui l’accesso a quest’ultimo avviene in proporzione troppo ridotta, rispetto alle aspettative interiorizzate, si registrano piagnistei e a volte esplosioni di protesta, che non incrinano la logica sviluppista del sistema. Per fuoriuscire da essa, occorre riferirsi alle resistenze dei popoli tribali, o comunque scarsamente occidentalizzati, in difesa di quanto resta delle loro comunità e dei loro modi  ancestrali di sopravvivere. Essi sono gli ultimi “dannati della terra”, e assieme alle nostre saggezze tradizionali premoderne, testimoniano la possibilità di mondi diversi e alternativi all’uniformazione planetaria.

[7] Lo stesso Latouche, posto di fronte alla domanda “come si può decolonizzare il nostro immaginario?”, avanza la necessità di una trasmutazione interiore, ed infatti risponde: ”Il nemico non è soltanto rappresentato dagli altri. Il nemico siamo noi stessi, il nemico è nella nostra testa. Abbiamo tutti l’immaginario colonizzato. Abbiamo tutti la necessità di una catarsi” (Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, E.M.I., 2002, pag. 84) . In modo non dissimile, Raphael insegna che “la società è il prodotto dei nostri pensieri, e solo trasformando la nostra mente potremo trasformare la società” (Quale democrazia? Ed. Aśram Vidyā, 2003, pag. 104).

[8] Latouche ricorda che “l’immaginario sviluppista è più radicato al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo tendono a vedere nell’aggravamento del male il solo rimedio alle loro disgrazie. Pensano che l’economia sia l’unico mezzo per sconfiggere la povertà, senza vedere che in realtà è essa stessa a produrla” (pag. 84).

[9] Opportunamente, Latouche esorta a non evitare la domanda posta da Majid Rahnema:” In quale misura ciascuno di noi è pronto a resistere, nella propria vita quotidiana, alla colonizzazione dei bisogni socialmente costruiti?” (pag. 79).

[10] Inevitabilmente, queste nuove parole d’ordine suscitano contemporaneamente antipatie e simpatie sia a destra che a sinistra, proprio per la loro trasversalità e radicalità, che le collocano al di sopra delle vecchie contrapposizioni politico-ideologiche, le quali, per come sono state vissute negli ultimi due secoli, sembrano destinate ad un ruolo residuale, almeno in linea di tendenza. Su tutto questo, vedasi la recente presa di posizione di Latouche, intitolata Ma la decrescita è di destra o di sinistra?, pubblicata il 10 ottobre 2005 su Carta e su Liberazione.

[11] Le sopravvivenze precapitalistiche, per esempio le “comunità di villaggio, ancora vivaci in molti paesi”, non vanno considerate “ostacoli al progresso”, bensì “il fulcro della rigenerazione sociale” (I profeti sconfessati, cit., pag. 136). Esse costituiscono “le basi per una soluzione alternativa ai flagelli provocati dall’imperialismo” (I profeti sconfessati, pag. 121).

[12] Anche in campo tecnico-scientifico, occorre difendere il pluralismo:” …noi rivendichiamo non una, ma il maggior numero possibile di tecniche, per allargare le scelte!” (I profeti sconfessati, cit., pag. 236) . Non si rifletterà mai abbastanza sul fatto che, in nome della tecnologia dominante, funzionale all’ipersviluppismo, sono stati via via messi al bando innumerevoli saperi tecnici, artigianali, funzionali all’autosussistenza: la loro perdita è senza esagerazioni una terribile catastrofe umanitaria, considerando che tali variegati saperi locali hanno garantito per secoli e millenni l’autosostentamento dei popoli. La tecnologia dominante, espressione del “pensiero unico”, non sembra in grado di garantire altrettanto: mai come oggi il problema della fame nel mondo è diventato così imponente e angosciante. E all’orizzonte nessuna seria soluzione sembra profilarsi, nonostante le esibizioni della potenza dell’apparato tecnico – scientifico – economico.

[13] “Non v’è stu