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Da Antonio Gramsci a Piero Fassino

di Costanzo Preve - 11/12/2005

Fonte: ariannaeditrice.it

Note introduttive per farsi una ragione e capirci qualcosa in ciò che è successo nel comunismo italiano 
 
Capire qualcosa in quello che è successo nel comunismo italiano dell’ultimo secolo non è facile, ma non è neppure impossibile. L’alibi della cosiddetta “complessità” è quasi sempre un alibi opportunistico per evitare lo sforzo della interpretazione. Di fronte all’alibi opportunistico della “complessità” fa addirittura la sua figura Silvio Berlusconi, che interpreta la storia del comunismo italiano con la formula della continuità PCI-PDS-DS. A costo di scandalizzare il lettore pio e timorato della tradizione, credo che Berlusconi abbia sostanzialmente ragione. Certo, Berlusconi non è uno storico, ma un astuto venditore ignorante e volgare, ma con la spontanea intuizione dei venditori finisce con il capirci di più degli storici accademici e dei loro sofisticati “distinguo”. In ogni caso Berlusconi capisce di più di quanto capiscano i due modelli che definirò dell’almenismo e dell’infinito interminabile. Esaminiamo i due modelli brevemente.

Afferma Cesare Salvi (cfr. La Repubblica, 30-08-’03) :
“Il fallimento del comunismo è sotto gli occhi di tutti. Ma pensavo che l’approdo fosse quello del socialismo e non l’insostenibile leggerezza di un progetto ulivista”.
Questa formulazione, che rappresenta il paradigma interpretativo dominante nel cosiddetto “correntone” e presso tutti i confusionari, è appunto il nucleo del paradigma che chiamo almenismo. Non più il comunismo, ma almeno il socialismo. Non più il socialismo, ma almeno la socialdemocrazia. Non più il potere dei lavoratori organizzati in consigli, ma almeno il keynesismo sociale del welfare. Almeno, almeno, almeno, almeno.
La formulazione di Salvi ripropone il vecchio modello teorico di Bernstein del 1899, per cui il fine è nulla ed il movimento è tutto, anche se ovviamente in una forma molto più moderata, che ha metabolizzato le sconfitte bestiali del Novecento. La sua debolezza teorica, tuttavia, sta nel fatto che chiama “leggerezza” la pesantezza delle politiche di integrale adesione alle scelte delle direzioni strategiche della riproduzione capitalistica, cui D’Alema e Fassino sono al servizio. Io ho stima per Salvi, ma su questa base è impossibile capirci qualcosa. L’almenismo non funziona proprio.
Afferma Rossana Rossanda (cfr. Il Manifesto, 05-09-’03) :
”Con le proposte di partito riformista unico si va verso la liquidazione formale del più grande partito della sinistra italiana. Nella sostanza essa è già avvenuta per passaggi successivi dalla svolta ad oggi, con gli scivolamenti semantici progressivi a proposito del riformismo, che doveva ridurre il potere del capitale sul lavoro ed oggi consacra l’opposto, e sulla transizione che designava il passaggio dal capitalismo a forme di socialismo ed oggi indica il processo inverso”.
Un breve commento. La Rossanda coglie splendidamente il “trucco” semantico dell’uso del termine “riformismo”, che oggi significa in modo orwelliano non più l’insieme di politiche pacifiche e graduali contrapposto al rivoluzionarismo, ma il rafforzamento del potere incontrastato delle direzioni strategiche della riproduzione capitalistica. Ma il suo paradigma è quello appunto dell’infinito interminabile.
Non si capisce mai quando il PCI-PDS-DS avrebbe “cambiato colore”. Si va sempre verso la liquidazione, ma non si dice mai quando la liquidazione sarebbe irreversibilmente avvenuta, ed in questo modo ovviamente, si legittima l’opportunismo e l’almenismo elettorali. Se proprio si vuole invece scegliere una data, a mio avviso questa non è certo il 2003 e l’irrilevante pagliacciata del partito unico Rutelli-Prodi-Fassino-D’Alema (che comunque ritengo estremamente improbabile), ma il 1999, con la criminale guerra contro la Jugoslavia orwellianamente ribattezzata “operazione di polizia internazionale” (come se le bombe “guerresche” fossero diverse dalle bombe “poliziesche”), fatta dal cinico baffetto e pulcino togliattiano D’Alema contro le Nazioni Unite (che non la consentivano) e contro la Costituzione italiana (che non la consentiva). In ogni caso, 1991, 1999 o 2003 che sia, bisogna pure decidersi, e i due paradigmi dell’almenismo e dell’infinito interminabile non si decidono mai.
In questo breve saggio io sceglierò un’altra strada Per quanto mi riguarda i DS, o il PCI-PDS-DS che dir si voglia, non è solo un avversario politico ma è già purtroppo un nemico politico. Dico “purtroppo” perché so bene quanta gente onesta ci sta dentro, e quante persone per bene si illudono sul suo utilizzo storico e politico. Ma personalmente io non mi illudo più da molto tempo, e non certo per “estremismo” politico e caratteriale, ma per pacate ragioni. E’ necessaria però una ricostruzione storica, e bisogna partire da lontano. Lo farò in tredici brevi paragrafi successivi.
1. Osservazioni preliminari sui gruppi rivoluzionari e sui piccoli partiti di Cossutta e Bertinotti
Come ho detto in precedenza, ritengo che siano i DS gli “eredi” del comunismo italiano, o meglio i legittimi esecutori testamentari del suo fallimento storico, che è poi solo un episodio nazionale secondario di un fallimento storico mondiale. Sotto certi aspetti, si tratta addirittura di una storia torinese, da Antonio Gramsci a Piero Fassino, che trova la sua unità aristotelica di tempo e di luogo in una parabola che va dalla illusione universalistica sulla capacità rivoluzionaria anticapitalistica della classe operaia della grande fabbrica alla definitiva disillusione sul suo ruolo storico ed il conseguente “ritorno all’ovile” dell’eterno presente capitalistico e del ruolo subalterno di classe politica specializzata di servizio delle scelte delle grandi direzioni strategiche della riproduzione del sistema globalizzato.
Dunque, i DS. Sono loro il vero intrigante segreto del comunismo italiano. Bisogna guardare il volto della Medusa, e cioè il cinico sorriso di scherno di D’Alema, per avere veramente il polso della catastrofe. Chi invece crede che il comunismo italiano “prosegua “ nei gruppi rivoluzionari o nei partiti subalterni di Cossutta e Bertinotti rischia di cullarsi nelle illusioni, e cercherò brevemente di dire perché.
Per quanto concerne i gruppi rivoluzionari minoritari nessuno di essi (con la parziale eccezione del bordighismo) è un fenomeno specificatamente italiano e nazionale, ma sono tutti rami di correnti minoritarie internazionali. In estrema sintesi ne possiamo elencare sette diverse varianti: i neostalinisti, i neotrotzkisti, i neobordighisti, i neomaoisti, i neooperaisti, i neoanarchici, ed infine gli aderenti alla lotta armata. Sebbene si possano scrivere migliaia di pagine analitiche sulle loro differenze e sulle loro ulteriori varianti interne, tutti questi gruppi hanno un minimo comun denominatore che li unisce, e cioè la convinzione, per usare un’espressione di Trotzky, per cui la crisi del movimento operaio è la crisi della sua direzione che anziché essere rivoluzionaria è caduta nell’errore e/o nel tradimento. Personalmente ritengo questa impostazione radicalmente sbagliata. Quando in un secolo non si riesce mai a fare la rivoluzione in un paese capitalistico centrale ci deve essere qualcosa di radicalmente sbagliato nella teoria di riferimento, in una base sociale troppo ristretta e subalterna ed in altri fattori strutturali. Tutte le spiegazioni in base al binomio errore-tradimento sono a mio avviso consolatorie, e non fanno che rimandare all’infinito il momento della resa dei conti teorica e politica.
Per quanto concerne il piccolo partito di Cossutta e Diliberto (PdCI) non penso proprio che esso sia espressivo della tradizione del comunismo italiano preso nel suo insieme. Si tratta di un ceto politico professionale profondamente inserito in un livello istituzionale sia locale che nazionale, unito ad un bacino elettorale profondamente nostalgico ed identitario. Ciò comporta una sorta di schizofrenia permanente, che fa sì che un bacino elettorale ideologicamente vicino a Fidel Castro e talvolta nostalgico addirittura di Stalin voti e faccia votare per un ceto politico organico al progetto di Rutelli, Amato, D’Alema, Prodi ed altri sostenitori aperti non solo del capitalismo in generale ma anche della subordinazione all’impero americano. Che questo poi venga legittimato con richiami all’antifascismo o all’antiberlusconismo è solo folklore politico. In ogni caso, non è certo questa simbiosi fra nicchia elettorale identitaria e ceto politico professionale a potersi definire erede della tradizione del comunismo italiano.
Un discorso analogo a mio avviso vale anche per il partito di Bertinotti (PRC), in riferimento ovviamente alla sua corrente maggioritaria. Le due ali laterali di Ferrando-Grisolia e di Grassi-Sorini sono culturalmente assai poco interessanti, perché la prima rientra nel filone minoritario trotzkista e la seconda è una sorta di cossuttismo movimentista. Si tratta in entrambi i casi di formazioni ideologiche del tutto sterili e bloccate. Più interessante è l’ibrido massimalista costruito da Bertinotti, che si chiama ufficialmente “comunista”, ma è di fatto una variante postmoderna del massimalismo socialista della tradizione Lelio Basso-Riccardo Lombardi, sfociato infine nel grande fiume dei movimenti anti-globalizzazione. La figura di Bertinotti è interessante, perché questo Egoarca (per dirla con Stefano Benni) guida un partito politico con la mentalità di un sindacalista (caro Prodi, io ti appoggio sull’adesione dell’Italia a Maastricht e tu mi dai le 35 ore), è intollerante e permaloso verso ogni critica politica, atteggiamento tipico del dilettante e dell’autodidatta insicuro, usa e getta gli intellettuali a seconda se gli danno ragione o no (Revelli, Bellofiore, Screpanti, Mazzetti, ecc.), ed in questo modo espressionistico mostra di non avere nulla in comune con le strategie stabili per l’egemonia alla Togliatti, eccetera.
Per capire il tragicomico personaggio può essere utile una citazione da una sua intervista (cfr. La Repubblica, 27-08-03):
“A proposito del cambiamento del nome “comunista” c’è un clima di attesa perché molti, anche nei movimenti, considerano il riferimento comunista troppo pesante. Secondo me si sbagliano, essere comunisti è una sfida per il futuro. Però possiamo costruire insieme la risposta. Io Tarzan, tu Jane. Io sono comunista, tu no. Ma possiamo camminare vicini”.
Il lettore purtroppo ha letto bene. Io Tarzan, tu Jane. Questo è il livello che ci possiamo aspettare dal permaloso Egoarca. Chi si aspetta la rifondazione del comunismo e del marxismo da questo pittoresco personaggio può iscriversi all’associazione dei Credenti nelle Cicogne che Portano i Bambini (CCPB).
Ed ora, caro lettore, passiamo a discutere cose più serie.
2. Antonio Gramsci, l’Ordine Nuovo e le origini del comunismo italiano
Non vi è qui lo spazio per soffermarsi sulle origini storiche del comunismo italiano fra il 1919 ed il 1921 e sulle componenti politiche e ideologiche che vi confluirono. Mi limiterò a commentare soltanto la figura di Antonio Gramsci e l’impostazione della rivista torinese Ordine Nuovo. Credo che il cuore del problema stia proprio qui, ed occorra capirlo.
Gramsci è stato spesso accusato di “produttivismo”, di “fabbrichismo”, ecc., ecc. Credo che si tratti di una accusa ingenerosa, ingiusta e sbagliata. Gramsci aveva tutte le ragioni storiche per credere nel 1919 che il problema della “traduzione” in Italia della rivoluzione russa del 1917 non potesse limitarsi alla costruzione di un disciplinato partito comunista per la presa del potere (come di fatto sosteneva Amadeo Bordiga), ma dovesse basarsi sulla capacità complessiva reale della classe operaia della grande fabbrica moderna di gestire la riproduzione armonica dell’intera società. Si trattava di una ipotesi assolutamente legittima e coerente, che derivava direttamente da un fatto incontrovertibile, e cioè che la borghesia si era moralmente e politicamente delegittimata con il bagno di sangue della grande guerra 1914-1918. Questo “spirito di scissione” (espressione letterale gramsciana) dalla borghesia imperialistica e dalle direzioni socialiste opportuniste era in quel momento del tutto logico. Chi “retrodata” al 1919-21 la consapevolezza del fallimento del comunismo storico novecentesco del 1989-91 è al di fuori non solo del marxismo ma del comune buon senso.
Oggi però sappiamo tre cose. Primo, che il ciclo storico 1919-1991 mostra che, almeno per ora, la classe operaia di fabbrica si è ampiamente mostrata incapace politicamente e culturalmente di gestire l’intera produzione sociale in vista di un mutamento stabile del modo di produzione. Secondo, che è filologicamente assodato che Karl Marx non ha mai pensato che il soggetto rivoluzionario anticapitalistico fosse la classe operaia di fabbrica, ma pensava invece che lo fosse il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della grande produzione capitalistica, da Marx connotata con il termine inglese di general intellect. Terzo ed ultimo, che l’attribuzione della capacità rivoluzionaria al proletariato di fabbrica fu una creazione autonoma di Engels, su mandato indiretto della classe operaia socialdemocratica tedesca della seconda rivoluzione industriale e della grande depressione 1873-1895, che fece ragionevolmente pensare ad un possibile imminente crollo della intera produzione capitalistica, e soprattutto ad una sua strutturale incapacità di sviluppare le forze produttive.
Oggi sappiamo queste tre cose, e molte altre ancora. Ma Gramsci non poteva saperle, ed è sciocco rimproverarlo con il “senno del poi” di ottanta anni dopo. Egli era dunque pienamente legittimato a porre il problema della capacità autonoma produttiva complessiva del proletariato. Onore a Gramsci per averlo pensato allora, ma nessun “onore” ai gramsciani di ottanta anni dopo che fingono che il tempo da allora non sia passato.
3. Antonio Gramsci ed i Quaderni dal Carcere
Gramsci non diventò segretario del giovane partito comunista per capacità proprie, ma perché la direzione di Zinoviev della Terza Internazionale, decisa a “bolscevizzare” i partiti comunisti eliminandone dall’alto le direzioni locali di “destra” (Blander in Germania) e di “sinistra” (Bordiga in Italia) procedette ad arbitrarie nomine e sostituzioni. Comunque questa è proprio acqua passata, roba per storici di professione. Ciò che conta è che Gramsci fu messo in galera dal fascismo, non ne uscì praticamente più fino alla morte avvenuta nel 1937, e scrisse in carcere i famosi Quaderni. Di questi vorrei brevemente parlare.
I Quaderni dal carcere di Gramsci sono un capolavoro assoluto di intelligenza strategica. Con questo non intendo certamente dire che sono d’accordo su tutto. Sono anzi in disaccordo con molte cose, di cui qui per brevità ne segnalerò solo due. Primo, l’analogia del partito comunista con il Moderno Principe non è affatto innocente come sembra (nessuna analogia lo è mai), perché il Principe di Machiavelli era un dispotico assassino, sia pure a “fin di bene”, ed in questo modo il partito comunista viene di fatto pensato attraverso la metafora della rivoluzione dall’alto, e non certo dal basso, cosa che dovrebbe appunto segnalare la differenza qualitativa fra rivoluzione borghese e rivoluzione comunista. Secondo, la funzione degli intellettuali a mio avviso non è quella di essere “organici”, funzione tipica dei cappellani militari e degli psicologi aziendali, ma di essere dei liberi produttori di conoscenze scientifiche e di interpretazioni filosofiche. E potrei continuare, ma qui non c’è né lo spazio né soprattutto la necessità.
I Quaderni dal Carcere meritano una valutazione strategica complessiva. Ed essa non può che essere positiva. A modo suo Gramsci individua nell’economicismo il tallone d’Achille del marxismo, e ciò appare chiaro soprattutto nella sua critica filosofica a Bucharin. Gramsci aveva perfettamente ragione. Che poi nella sua critica all’economicismo egli abbia storto troppo il bastone dall’altra parte, ebbene questo è inevitabile. Nessuno farà mai la frittata senza rompere le uova.
Da qualunque parte lo si consideri, Gramsci appare geniale, creativo e rispettabile. Gran parte del posteriore “gramscismo”, invece, non vale neppure la carta su cui è stato scritto.
4. La mutazione antropologica staliniana del comunismo e l’uccisione di fatto del marxismo
Questo quarto paragrafo è il più importante di tutti e tredici, e bisogna che il lettore ci presti una attenzione particolare. Il segreto del fallimento del comunismo, infatti, non è teorico o politico, ma è antropologico, e consiste in estrema sintesi nella sostituzione di un modello identitario, gregario ed eterodiretto al precedente modello critico ed autonomo. Centomila pagine di teoria teorica non servono a niente, se questo punto non è capito ed è variamente occultato, rimosso e censurato.
Prendiamo la geniale biografia di Togliatti scritta da Giorgio Bocca. In questa biografia si parla di Angelo Tasca, allora ancora comunista, che racconta un fatto apparentemente sconcertante. Giunto a Mosca, nella riunione della direzione della Terza Internazionale, gli si chiese di firmare un documento di condanna di un altro documento delle opposizioni di allora senza neppure leggerlo. Il lettore ha letto bene: senza neppure leggerlo. Tasca naturalmente protestò, ma ci mise molto a capire la logica che shakespearianamente c’era in questa follia. Non si voleva una prova di razionalità critica, ma di obbedienza identitaria. Chi ha conosciuto dall’interno i partiti comunisti, paracomunisti o similcomunisti (ed io li ho conosciuti, e non uno solo) sa bene che razionalità, cultura e spirito critico non valgono nulla, e la sola cosa che vale è l’affidabilità di cordata. Chi si stupisce del fatto che siano giunti alla vetta del vecchio PCI un infantile cronico come Occhetto o un cinico nichilista come D’Alema mostra di ignorare le basi minime del suo funzionamento.
Fu Stalin, che creò il termine di “nemico del popolo”, a porre di fatto le basi antropologiche di questa catastrofe. Non discuto qui (ma lo farò in altra sede) tutti i problemi dello stato di necessità, dell’accerchiamento capitalistico, e di tutto l’apparato argomentativo dei giustificazionisti storici dell’ineluttabilità dello stalinismo come solo modo di “tenere” in condizioni eccezionali. Ho ascoltato queste argomentazioni centinaia di volte. Le conosco a memoria. Ma esse non colgono a mio avviso il centro del problema.
Questo centro viene colto invece da teorici che hanno vissuto nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”, come l’ungherese Agnes Heller ed il polacco Lezek Kolakowski. Noto en passant che entrambi sono pensatori passati integralmente al liberalismo filocapitalistico, laddove invece io non ho compiuto questo passaggio, ma anzi spendo la mia (modestissima) identità di pensatore proprio nell’oppormi a questa resa, che caratterizza la grande maggioranza dei teorici della mia sciagurata generazione. Eppure, ripeto, la Heller e Kolakowski individuano il centro del problema, mentre migliaia di confusionari neppure lo intuiscono.
Che cosa sostengono la Heller e Kolakowski? In breve, che essere “stalinisti” non consiste nel sostenere opinioni per caso coincidenti con quelle di Stalin, come per esempio che era inevitabile costruire il socialismo in un solo paese, che la filosofia del marxismo è il materialismo dialettico o che è stato tatticamente opportuno fare il patto Hitler-Stalin dell’agosto 1939, ecc., ma consiste nella rinuncia a rivendicare il proprio sovrano diritto alla libera interpretazione del libero pensiero marxista sostituendo questo diritto con l’obbedienza identitaria aprioristica a qualunque svolta tattica e strategica del capo. Chi rivendica la sovranità del proprio libero pensiero, infatti, potrebbe essere “stalinista” in alcuni casi ed in altri invece no. Ma lo stalinismo non è un insieme di opinioni, alcune ragionevoli ed alcune irragionevoli, ma è l’assunzione di un’antropologia identitaria necessariamente di tipo “magico”, secondo l’espressione di Kolakowski, per cui la verità di una proposizione dipende esclusivamente dal fatto che la sua fonte sia o meno “impura”. Per esempio l’esistenza dei campi staliniani è falsa fino a quando lo dicono i borghesi ed i trotzkisti, ma diventa vera quando lo ammette lo stesso Krusciov al XX congresso del PCUS nel 1956.
In questo modo il marxismo muore, perché dopo la morte di Marx il marxismo può soltanto esistere nella forma del confronto razionale fra forme di marxismo differenti. Se invece si dichiara che di marxismo ce n’è uno solo, il marxismo ortodosso leniniano-staliniano, e poi kruscioviano-brezneviano, ecc., e tutte le altre forme sono solo astute varianti di infiltrazione dei nemici del popolo o di eclettismo piccolo-borghese, allora non si ha soltanto un “decadimento” o un “irrigidimento” del metodo marxista, ma si ha semplicemente la sua sparizione.
Palmiro Togliatti portò questo modello in Italia. Non ha nessuna importanza che egli fosse per lo storicismo anziché per il materialismo dialettico, o altre sciocchezze per specialisti di filosofia. Ciò che conta è che egli portò in Italia questo modello antropologico di dipendenza identitaria e di paranoia sociologica. La genesi del ghigno di sufficienza di D’Alema durante la guerra del Kosovo sta proprio lì. A questo punto, chi continua a non capirlo è proprio un caso incurabile.
5. Palmiro Togliatti e le scelte strategiche del periodo 1943-1948
Il periodo storico 1943-1948 segnò la vera e propria rifondazione del PCI, ed è dunque cruciale. Per ragioni di spazio mi limiterò a segnalare solo tre questioni fra le molte possibili: la questione della rifondazione antifascista, la questione delle presunte possibilità “rivoluzionarie” dell’epoca, ed infine la questione del cosiddetto “partito nuovo”. L’impostazione corretta di queste tre questioni è assolutamente basilare.
Il PCI fra il 1943 ed il 1948 fu rifondato sulla base dell’ideologia dell’antifascismo. Si tratta di un salto storico, perché il PCdI degli anni Venti era invece stato fondato sulla base dell’ideologia del classismo. Non si tratta assolutamente della stessa cosa, in quanto le due impostazioni non si sovrappongono. Per poterlo fare, bisogna sostenere che il fascismo è solo una manifestazione della strategia politica del grande capitale industriale e soprattutto finanziario. Ma non è così, ed è ora di cominciare a dirlo. Il fascismo è stato soprattutto una reazione politica dei nuovi ceti medi minacciati dall’ascesa del proletariato e dall’autoreferenzialità della grande borghesia. In ogni caso il classismo è, come dice la parola stessa, “classista”, mentre l’antifascismo è per sua natura interclassista. Non dico che non sia un bene o non possa essere un bene. Personalmente, sono per un interclassismo rivoluzionario e non per un classismo puro. Basta saperlo.
A proposito delle possibilità rivoluzionarie “socialiste” in Italia fra il 1943 ed il 1948 esse a mio parere erano di fatto inesistenti dati i rapporti di forza non solo militari ma anche sociali. Togliatti ha dunque fatto benissimo ad evitare ogni linea politica avventuristica, e bisogna per questo ringraziarlo e non accusarlo. Chi lo accusa di aver lasciato passare il “momento buono” è un analfabeta geopolitico. Togliatti ha evitato agli italiani una sanguinosa guerra civile sicuramente persa in partenza. E’ giunto il momento di dirlo in modo chiaro e forte, e di smetterla con la tolleranza verso i borbottii dell’estremismo verbale irresponsabile.
A proposito del cosiddetto “partito nuovo” il discorso è invece più complesso. Il partito è solo uno strumento, è un mezzo e non certamente un fine in sé. Quando Lenin fondò il partito bolscevico nel 1903 (modello di ogni posteriore partito comunista), lo fondò sulla base di una ipotesi storica, e cioè che la formazione economico-sociale zarista russa non fosse al 100% “capitalistica” (come la Germania della socialdemocrazia di allora), ma richiedesse una specifica politica di alleanze fra operai, contadini, intellettuali e minoranze nazionali oppresse, per cui solo un partito di tipo quasi militarizzato avrebbe potuto gestire questa situazione complessa. In sintesi: il partito di tipo socialdemocratico tedesco è legato all’idea di modo di produzione, il partito di tipo bolscevico russo è legato all’idea di formazione economico-sociale. Alla luce di questa consapevolezza, appaiono particolarmente grotteschi coloro che si dicono “leninisti” sulla base di un operaismo di fabbrica o di un classismo puro.
Il “partito nuovo” di Togliatti è anch’esso un partito di gestione politica di alleanze di classe. E fin qui tutto bene. I problemi cominciano dalla sua matrice ideologica, che era lo storicismo, e cioè l’idea che il tempo lavorasse inesorabilmente per la vittoria finale del socialismo. In linguaggio epistemologico, diremmo che l’ipotesi scientifica di fondo che sorreggeva l’intera costruzione storico-politica era sbagliata. E quando c’è un nodo che non si può sciogliere, prima o poi questo nodo viene al pettine. Il pettine giunse fra il 1989 ed il 1991.
6. Palmiro Togliatti e la pratica suicida dell’intellettuale organico
Non ha dunque molto senso condannare Togliatti per cose di cui non è assolutamente colpevole, come di non aver fatto una impossibile rivoluzione nel 1945 o di aver rifiutato una piattaforma classista pura per l’identità politica del suo partito. Altri sono i problemi, e su questi problemi deve dirigersi la discussione, per non finire con l’essere di fatto demenziale.
Togliatti costruì un partito ideologico fortemente identitario, che tendeva a dividere i “nostri”, e cioè i compagni, e gli “altri”, tutti più o meno inaffidabili. Siamo talmente abituati a trovare tutto questo ovvio e naturale che ci dimentichiamo che già il filosofo Hegel aveva individuato in questa scissione identitaria il segreto dell’impossibilità di ogni universalismo reale. La scissione identitaria, indispensabile quando si deve rompere con una precedente situazione insostenibile e bloccata, non può però riprodursi troppo a lungo, perché produce fenomeni di tipo autoreferenziale ed entropico, cioè implosivo, come del resto si è poi visto nell’epoca della dissoluzione del movimento comunista storico novecentesco. L’eccesso identitario soffre di patologie narcisistiche e paranoiche: noi siamo i migliori, e per questo tutti ci vogliono distruggere.
Togliatti scelse il centralismo democratico, adducendo il ragionevole argomento per cui la cristallizzazione in correnti si presta alla pressione esterna e comporta immobilismo e reciprochi veti paralizzanti. Si disse anche che questo non impediva però il più ampio dibattito che avrebbe preceduto la vera e propria decisione politica definitiva. Si trattava di una falsità assoluta. Chiunque si fosse distinto per aver sostenuto posizioni di dissenso dentro il partito avrebbe certo potuto evitare l’espulsione, ma non l’emarginazione ed il blocco della carriera politica. Faccio qui un solo esempio. Se il cinico baffetto D’Alema si fosse battuto nel 1969 contro l’espulsione del gruppo del “Manifesto”, anziché votare per l’espulsione con un discorsetto ipocrita e conformista, avrebbe forse potuto giungere nel 1999 ad essere capo del governo ed a fare la guerra del Kosovo per conto dell’imperialismo USA? E’ assolutamente chiaro ed evidente che il ruolo del dissenziente rompiballe avrebbe impedito ogni sua carriera politica. Questo sistema del conformismo identitario era fatto apposta per favorire una selezione alla rovescia: davanti i manovrieri, i furbacchioni e gli opportunisti, dietro i critici e gli innovatori. Si tratta di patologie tipiche anche delle aziende e delle imprese, che infatti funzionano anch’esse sulla base del centralismo democratico.
Togliatti è noto per aver cercato l’alleanza con la cultura, sulla base del vecchio concetto gramsciano di “intellettuale organico”. Ma sappiamo che mentre in teoria questo concetto voleva connotare il rapporto degli intellettuali con i due campi della borghesia capitalistica e del proletariato rivoluzionario, in pratica con l’introduzione del concetto di Moderno Principe gli intellettuali organici erano solo quelli che erano “organici” alla linea politica ed all’identità ideologica del partito nuovo togliattiano.
Ho già sostenuto in precedenza, e qui lo ripeto, che solo le due categorie dei cappellani militari e degli psicologi aziendali possono veramente essere “organiche”. Se l’intellettuale è veramente uno studioso critico e creativo non è un produttore di organicità, ma di conoscenza, ipotesi ed interpretazione. Se si capisce questo, si capirà anche perché più del 90% di quanto è stato prodotto in Italia dal marxismo critico, da Franco Fortini a Cesare Cases, da Gianfranco La Grassa ad Antonio Negri, da Raniero Panzieri a Ludovico Geymonat, ecc., ecc., è stato prodotto fuori e contro la nozione e lo statuto di intellettuale organico. Ma non si tratta solo di una storia delle idee marxiste in Italia. Questo, anzi, è solo l’aspetto secondario. L’aspetto principale sta nell’avere costruito un conformismo identitario di massa che alla fine produceva un vero e proprio blocco sia della conoscenza che dell’innovazione. Una catastrofe culturale che per la “lunga durata” che comporta pagheremo ancora per molti decenni.
7. Il decisivo intermezzo 1964-1973. Dalla morte di Togliatti alla proposta di compromesso storico di Berlinguer
Il togliattismo si riduce in ultima istanza ad una “guerra di posizione” in cui la garanzia di vittoria non è data dagli scontri fra opposte trincee, ma dalle riserve che possono giungere dalle retrovie. E negli anni Sessanta comincia ad apparire chiaro che le retrovie socialiste hanno una produttività minore delle retrovie capitaliste. Qui comincia a tramontare ed infine muore il togliattismo. Chi di forze produttive ferisce di forze produttive perisce. Chi aveva imposto al movimento operaio internazionale il paradigma economicistico subisce alla fine il dantesco contrappasso.
Nel decennio decisivo 1964-1973 il PCI diventa uno strumento diretto per l’integrazione di grandi masse studentesche ed operaie nel sistema capitalistico. Non si tratta a mio avviso di un “tradimento”, ma di una funzione fisiologica tipica di ogni normale socialdemocrazia europea moderna. L’eccezione del PCI era data dal fatto che questo strano partito-giraffa aveva una struttura socialdemocratica ed una sovrastruttura stalinista, ma questa peculiarità era secondaria di fronte alla funzione oggettivamente “integrativa” che esercitava, il cui ruolo di avanguardia era dato dalle cooperative delle cosiddette “regioni rosse”.
Io ripeto fino alla nausea: non ci fu tradimento. Tutti coloro che fantasticano di una situazione rivoluzionaria causata dalla sinergia delle lotte studentesche del 1968 e delle lotte operaie del 1969, con un “autunno caldo” che sembrò protrarsi fino al 1973, costruiscono a mio parere un mito storiografico estremamente diseducativo per le nuove generazioni. Bisogna distinguere in proposito fra due livelli storici distinti, il livello della dinamica superficiale ed il livello della dinamica profonda.
La dinamica superficiale era quella della formazione di gruppi rivoluzionari (Lotta Continua, Potere Operaio, Servire il Popolo in una prima fase, e poi i gruppi armati in una seconda fase) che mettevano all’ordine del giorno una rivoluzione di tipo socialista. In termini marxiani, si trattò della falsa coscienza necessaria, ma illusoria, di un’intera generazione.
La dinamica profonda era invece quella della integrazione in un capitalismo dei consumi, una dinamica che ovviamente avvenne in modo diverso per gli studenti e per gli operai. Gli studenti confusero un processo di modernizzazione del costume per un processo anticapitalistico, e questa confusione fu propiziata da una ideologia invecchiata che identificava la borghesia con il capitalismo, e non capiva che il capitalismo maturo per poter allargare il proprio spazio di mercificazione universale deve far fuori lui stesso i vecchi residui moralistici borghesi tradizionali. I posteriori esiti innocui di tipo pacifista, ecologista e femminista erano già dialetticamente contenuti in potenza dall’impossibilità di qualunque rivoluzione socialista in Italia.
Un discorso diverso deve essere fatto per gli operai. Nella loro stragrande maggioranza (e chi vive a Torino lo ha chiaro come il cristallo, mentre solo chi vive a Teramo o a Benevento può non capirlo) gli operai sanno perfettamente di non potere “dirigere tutto”, e di aver bisogno per difendere i loro interessi di una classe politica e sindacale istituzionalizzata e professionalizzata. E’ questa la chiave del balzo in avanti elettorale del PCI dal 1968 al 1976. Il PCI garantiva alla piccola borghesia una stabile modernizzazione e liberalizzazione del costume contro i residui del tradizionalismo clericale, ed alla nuova classe operaia di recente emigrazione un processo graduale di integrazione nella società.
In assenza di qualunque prospettiva rivoluzionaria (ed è giunto il momento di dirlo anche sulle riviste di “estrema sinistra”) era il massimo che si poteva ottenere, ed il PCI contribuì ad ottenerlo. Dunque, nessun tradimento sociale e politico. Il tradimento però ci fu lo stesso, e fu un tradimento culturale terribile. In una parola: il graduale processo di modernizzazione del costume e di integrazione sociale delle classi popolari nel capitalismo fu fatto passare per una sapiente “via italiana al socialismo” ed addirittura per “eurocomunismo”. In questo modo si contribuiva ad un vero e proprio “impazzimento ideologico” di cui continuiamo ancora oggi a pagare i prezzi (berlusconite, infantilismo girotondino, ecc.).
8. Enrico Berlinguer ed il compromesso storico del 1973
La proposta del compromesso storico, la cui forma politica non poteva che essere il governo consociativo di unità nazionale, fu fatta da Berlinguer nel 1973 prendendo spunto dalla caduta del governo di Allende in Cile. Il contesto storico è noto. Si tratta allora di dargli una valutazione storica e politica. In estrema sintesi, si tratta di un fenomeno a due facce.
Da un lato, la sua dinamica non poteva che essere quella di una integrazione dentro gli apparati dello stato capitalistico, in particolare in quelli della cosiddetta “borghesia di stato”, di cui già allora Prodi era uno dei massimi esponenti. In un certo senso l’ulivismo prodiano trova nel 1973 la sua origine. Dopo il 1973 la corsa famelica della piccola borghesia picista soprattutto romana negli apparati statali fu inarrestabile (pensiamo al TG 3), e la dinamica consociativa assunse una sua logica del tutto autonoma dagli ideologismi “progressisti” con cui fu ricoperta goffamente. In termini marxisti, si trattò di una vittoria tennistica della struttura (di integrazione consociativa subalterna) sulla sovrastruttura (gli ideologismi paragramsciani di copertura). Il marxismo universitario spartitorio si consumò in Italia fra il 1973 ed il 1983, e fu sostituito dal pensiero debole tuttora dominante nel mondo giornalistico, universitario ed editoriale.
Dall’altro, ed è giunto il momento di riconoscerlo, nell’intenzione di Berlinguer la proposta di compromesso storico era più di “sinistra” di quella di governo di alternativa alla DC. Il pensatore di riferimento di Berlinguer era soprattutto il cattolico comunista Franco Rodano, come sappiamo anche dalla recente pubblicazione dei diari del segretario di Berlinguer Tonino Tatò. Attraverso Rodano e Tatò Enrico Berlinguer aveva maturato una critica non tanto al capitalismo quanto alla società radicale dei consumi di massa e della occidentalizzazione culturale. L’alleanza con il mondo cattolico sembrava dunque a Berlinguer più sicura e strategica di quella con i socialisti ed i cosiddetti “laici”, che erano inoltre i campioni dell’atlantismo e dell’americanismo in Italia. Come è noto, tracce di questa cultura restano anche nella attuale ideologia ulivista, che identifica spesso il berlusconismo con l’americanizzazione.
Come si vede, esistono sotterranee continuità di cui è bene tener conto in una ricostruzione storica.
9. Enrico Berlinguer e la deriva identitaria degli anni Ottanta
Negli anni Ottanta il vecchio dinosauro PCI è come un bastimento alla deriva. Come tutti i dinosauri, ha ormai un corpo grande ma una testa minuscola. Il togliattismo progressista e storicista si era già squagliato come un mucchio di neve al sole. La sconfitta operaia alla FIAT aveva di fatto sancito, con questa battaglia difensiva di retroguardia, la fine della funzione di opposizione e di contestazione della classe operaia di fabbrica in Italia. Gli intellettuali, che lungi dall’essere individualisti come spesso stupidamente si dice da chi non li conosce bene, sono invece profondamente conformisti e gregari e si muovono tutti insieme come banchi di pesci, si mossero negli anni Ottanta in gruppo dal gramscismo al pensiero debole postomoderno. Ai posti di comando PCI non arrivarono i vecchi maneggioni togliattiani di destra (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, ecc.), ma i giovani nichilisti della FGCI che avevano consumato integralmente la morte di Dio diventando così dei nicciani “ultimi uomini” (Occhetto, D’Alema, Veltroni, ecc.).
Un partito senza teoria è come un popolo civile senza metafisica, per usare l’espressione di Hegel. Il PCI degli anni Ottanta è un partito senza teoria, senza strategia e senza tattica. Un povero bestione barcollante, che trova inevitabilmente nella deriva identitaria il solo collante che possa ancora dare senso di appartenenza ai militanti ed agli elettori smarriti.
Il partito si ammalò di “craxite”, cioè di personalizzazione polemica contro la figura del cinghialone e del ladrone, cui venivano contrapposti gli austeri ed onesti comunisti. La lettura delle riviste degli anni Ottanta (e di “Linus” in particolare, brodo di coltura di tutti i morettismi successivi) è in proposito ad un tempo agghiacciante ed esilarante. Non esiste più analisi strutturale delle classi e dei rapporti sociali, ma solo una insistita e maniacale polemica contro i ladroni socialisti. Ora, non nego che i socialisti fossero veramente dei ladroni, e lo erano appunto perché non disponevano delle collaudate idrovore di finanziamento strutturale DC e PCI (industria di stato, finanziamenti esteri, cooperative, ecc.), e dovevano supplire con una sorta di dilettantismo brigantesco. Ma questa non era che la superficie pittoresca del problema, così come lo è oggi la “berlusconite”, cui la “craxite” assomigliava come una goccia d’acqua.
La personalizzazione mediatica del conflitto è il più evidente sintomo della avvenuta americanizzazione culturale. Tramonta Gramsci, ascende Fassino. Non a caso, quando alla fine del 1989 si sgretolò il baraccone tarlato dell’Est, Fassino dichiarò che il PCI non aveva potuto seguire bene il fenomeno perché impegnato nelle elezioni comunali romane del 1989. Trovo questa dichiarazione inconsapevole da teatro dell’assurdo assolutamente sublime, come le discussioni sul sesso degli angeli degli ultimi bizantini mentre i turchi entrano in città (anche se penso si tratti di una leggenda metropolitana, perché non mi risulta).
10. Il crollo della casa madre di riferimento 1989-1991. Dalla Cosa a Mani Pulite. L’inizio del processo PCI-PDS-DS
L’incurabile baraccone del cosiddetto “socialismo realmente esistente” (e di fatto inesistente) si riconvertì in tempo reale fra il 1989 ed il 1991, ed il solo partito comunista occidentale che attuò in tempo reale la stessa riconversione fu il PCI. Questo significativo parallelismo non è mai colto dalle tribù dei commentatori confusionari, che non capiscono che appunto perché il PCI era il partito meno filosovietico dell’Europa capitalistica era anche per la stessa ragione il partito più similsovietico. Se si guarda solo la superficie, come fanno i confusionari, il PCI era il partito meno filosovietico del mondo capitalistico, perché si dissociava sistematicamente dalle scelte sovietiche di politica estera (Cecoslovacchia 1968, Afghanistan 1979, ecc.) ed affermava che si poteva e doveva arrivare al socialismo per via parlamentare (eurocomunismo, ecc.). In questo modo, il PCI era molto meno filosovietico della maggioranza degli altri partiti comunisti europei (Grecia, Francia, Portogallo, senza contare i partiti comunisti più piccoli ed extraparlamentari). Ma un marxista dovrebbe sapere che le dichiarazioni diplomatiche sono poca cosa in confronto al carattere di formazione complessivamente interclassista che fa da struttura politica e sociale, e questo accumunava sia il PCUS sia il PCI , che infatti era il partito più similsovietico d’Europa, e proprio questa natura similsovietica comportò il loro duplice scioglimento in tempo reale, uno scioglimento parallelo che invece non toccò, come è noto, i partiti comunisti francese, greco, portoghese, ecc., che continuarono a sopravvivere in modo similcossuttiano pur essendo del tutto privi di prospettive strategiche.
Il riciclaggio fu tatticamente condotto molto male dall’infantile Occhetto e dal mediocre gruppo dirigente di figiciotti corrotti che lo circondava. L’interminabile autocoscienza affabulatoria di una base già rincoglionita dalla ideologia che gli era stata massicciamente iniettata (siamo i migliori del mondo, il vero comunismo è a Bologna, cambiamo nome per essere ancora più comunisti, e via farneticando) fu protratta per quattordici mesi, laddove uno strappo chirurgico attuato in due mesi avrebbe permesso di travasare l’intero baraccone identitario nel nuovo PDS, riducendo i rifondatori in una DP solo un poco più grande. Data la vischiosità ideologica della base confusionaria ed identitaria non fu subito possibile fare l’operazione che solo ora Fassino può fare dopo aver fatto “frollare” per più di un decennio questa base confusionaria, e cioè il trapasso a quella che potremmo definire una “socialdemocrazia neoliberale”, apertamente americanista e sionista, e dunque collocata nell’ala destra delle socialdemocrazie neoliberali europee.
Questo partito allo sbando fu salvato dall’imprevedibile (nel 1989-91) novità di Mani Pulite. Mani Pulite, e non voglio nascondere il mio profondo convincimento, fu sostanzialmente un colpo si stato giudiziario profondamente antidemocratico. Che questo colpo di stato giudiziario si sia svolto per iniziativa di un gruppo di onesti e coraggiosi magistrati (ma vedendo le facce di Borrelli e di Di Pietro non lo credo proprio), oppure si sia svolto dietro diretta committenza di forze oligarchiche e finanziarie (come personalmente ritengo) è storicamente interessante, ma anche poco importante. Ciò che conta è capire che Mani Pulite non fu l’elemento primario (come opina il paranoico Berlusconi), ma fu solo lo strumento di una strategia capitalistica più generale rivolta a far fuori una classe politica proporzionalista ed assistenzialista, incompatibile con il nuovo quadro mondiale globalizzato e neoliberale.
Il gruppo mercenario professionale dell’ex PCI era in proposito ideale per gestire il passaggio da un capitalismo “anomalo”, politicamente proporzionalista ed economicamente assistenzialista, ad un nuovo capitalismo “normale” (il “paese normale” del cinico baffetto bombardatore D’Alema). Ed era ideale non solo perché professionalmente specializzato in mediazione sociale (o come si dice oggi, in “coesione sociale”), ma perché si portava dietro gruppi sociali e culturali del paese molto importanti (professori universitari, ceto giornalistico ed editoriale scalfariano, classe operaia sindacalizzata, pensionati borbottatori ma sempre disposti all’obbedienza, nuovo ceto medio radicale postmoderno, ecc.).
Si trattava di una soluzione ideale. Ma inaspettatamente questa “gioiosa macchina da guerra” (Occhetto) si inceppò. E venne il Berlusca.
11. La “berlusconite”, stadio supremo della “craxite”
Nello sbandamento surreale della vecchia classe politica proporzionalista ed assistenzialista si inserì un elemento imprevedibile, come il Mutante dei romanzi di fantascienza di Asimov Fondazione. L’imprenditore Berlusca sapeva che De Benedetti e Scalfari, azionisti di riferimento del PCI-PDS-DS gliela avrebbero fatta pagare, e lo stesso D’Alema sostenne ghignando furbescamente che si augurava di vedere Berlusconi chiedere l’elemosina. Il Berlusca si mosse dunque per ragioni squisitamente personali, avendo un contenzioso pregresso con la cordata De Benedetti e con i suoi servi politici. Ma nella storia dagli elementi accidentali possono nascere anche conseguenze determinanti.
Come tutti i politici intelligenti, il Berlusca partì da un’intuizione semplicissima: in Italia gli “anticomunisti” (nel senso degli anti-PCI, perché come è noto il PCI aveva scelleratamente monopolizzato il termine per se solo, esattamente come avevano fatto i cattolici controriformisti con il cristianesimo) sono la maggioranza, e si tratta allora di riunirli tutti in un polo delle libertà (libertà ovviamente ridefinita in senso integralmente imprenditoriale ed aziendale).
Se ci fosse stato ancora un minimo di metodo marxista strutturale in Italia, ci si sarebbe gramscianamente chiesti quale fosse il blocco storico che il Berlusca guidava, e di rimando quale fosse quello opposto di Prodi e di Rutelli. Ma il metodo marxista era già stato completamente distrutto dalla riconversione postmoderna e “debolista” degli intellettuali e dalla deriva moralistica ed identitaria dei militanti e degli elettori. Essi si erano ammalati negli anni Ottanta di “craxite”, e cioè di personalizzazione estetica del nemico ladrone, cafone e cinghialone, e poterono così passare facilmente alla “berlusconite”.
La “berlusconite”, cioè l’antiberlusconismo maniacale, è forse uno dei fenomeni culturali più grotteschi e disgustosi della storia culturale italiana, che ha conosciuto già in passato molti momenti grotteschi e disgustosi. Berlusconi, questo paperone incontinente, è ovviamente un grande produttore di “berlusconite”, con le sue quotidiane esternazioni sui giudici disturbati mentali, su Mussolini che mandava gli oppositori in vacanza, eccetera. Si crea in questo modo una italica commedia dell’arte in cui ogni attore può recitare a soggetto. Il Berlusca e l’Antiberlusca recitano infatti delle parti come Arlecchino e Pulcinella, in cui lo spettatore può già aspettarsi il copione intero. Chi scrive, se convenientemente pagato, potrebbe scrivere un’ottima commedia comica con i due protagonisti Berlusca ed Antiberlusca, con personaggi intermedi come il Pensoso Pera, il Bel Casini, il Padano Bossi e l’Arringante Bertinotti.
Ma sarebbe tempo perduto e sottratto al difficile sforzo di comprensione di quanto sta accadendo.
12. Il punto di svolta storico: la guerra contro la Jugoslavia del 1999
La signora Rossanda si chiede spesso in modo sapienziale quando sarebbe avvenuta la rottura definitiva nella tradizione comunista e di sinistra del mastodonte PCI-PDS-DS. Eppure avrebbe la risposta sotto gli occhi. La rottura definitiva, clamorosa, irrevocabile ed irreversibile è avvenuta il 24 marzo 1999, quando gli aerei della NATO, partendo da basi italiane, hanno scatenato una guerra di aggressione contro la Jugoslavia, con l’inesistente pretesto di una inesistente pulizia etnica e di un ancor più inesistente genocidio contro la minoranza albanese (maggioritaria nel Kosovo).
Oggi sappiamo che la guerra era stata già pianificata nel 1998, e vi sono indicazioni inequivocabili di Scognamiglio e di Cossiga sul fatto che questa guerra doveva essere “venduta” alle masse ignoranti e mascalzone da qualcuno più potente di Prodi, e cioè da D’Alema stesso (cfr. R. Mordenti, La Rivoluzione, Tropea, Milano 2003, pp.150-153).
Chi vuol sapere può ormai sapere quasi tutto. Nel Kosovo non c’era nessun genocidio e non c’era nessun progetto di espulsione etnica della popolazione albanese, ma c’era una guerra secessionistica scatenata a freddo dal gruppo UCK, che invece aveva come progetto dichiarato l’espulsione della popolazione serba (come infatti avvenne). I cialtroni criminali che fecero questa guerra per conto della NATO e degli USA dovettero mentire e nasconderla sotto l’etichetta rassicurante di “operazione di polizia” come se la cosmesi terminologica potesse cambiare le cose. La guerra fu fatta contro l’ONU, che non la consentiva a causa del veto di Russia e Cina, e contro la Costituzione italiana, che non la consentiva espressamente.
Il cinico baffetto D’Alema credeva di essersi così legittimato presso i suoi padroni imperialisti, ma non faceva i conti con il Berlusca e con il suo bacino elettorale maggioritario. Tuttavia, l’esperienza maturata da me in quattro anni di conversazioni in tutti gli ambienti mi ha confermato sul fatto che l’operazione D’Alema è perfettamente riuscita. Il “popolo di sinistra”, sempre pronto a girotondare in nome della sua “berlusconite”, non si è praticamente accorto di questa guerra, o se se ne è accorto lo ha dimenticato in pochi mesi. Chi rivanga la guerra del Kosovo, come chi scrive, corre il rischio di passare per un monomaniaco fissato. Hanno già dimenticato tutti, per il semplice fatto che non hanno ricevuto i bombardamenti sulla loro testa.
Questa dimenticanza è forse l’esempio più scandaloso e sintomatico della decadenza morale di questo ultimo decennio. Altro che craxite e berlusconite, conflitto d’interessi e sparate idiote sui giudici e su Mussolini. Purtroppo, è storicamente poco probabile che D’Alema e Scognamiglio vengano trascinati in tribunale e condannati per alto tradimento contro la costituzione e crimini contro la pace. Gli è riuscita l’operazione di menzogna sulla pulizia etnica e sul genocidio, su Hitlerovic e sulla operazione di polizia internazionale.
Rifletta su questo la signora Rossanda. E se ci rifletterà sopra, i dubbi amletici che la tormentano troveranno finalmente una risposta. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, e peggior cieco di chi non vuol vedere.
13. La chiusura di una storia torinese. Da Antonio Gramsci a Piero Fassino
La storia del PCI si era già chiusa nel 1999. Ma in un certo senso la sua chiusura simbolica poteva avvenire solo a Torino, con la sostituzione della parola d’ordine “proletari di tutto il mondo unitevi” con il motto tipicamente torinese “non esageriamo” (esagerôma nen). Piero Fassino ha perfettamente ragione nello scrivere che egli ha fatto politica e continua a farla “per passione”. Io gli credo sinceramente. Se non ci fosse passione nessuno potrebbe fare la vita stressante e paranoica del ceto politico professionale.
Ma quale passione? Non certo la passione durevole della rivoluzione o dell’anticapitalismo. Si tratta della passione del “far politica”, una passione forse rispettabile, ma che con la passione precedente non ha assolutamente alcun rapporto. Nel libro di Fassino esistono scivolamenti semantici assolutamente esilaranti, come il fatto che l’aggettivo “iniquo” viene trasformato in “disequo”. Cose da psicanalista. Ma il succo è estremamente chiaro.
Io non ho dubbi, personalmente, sul fatto che la direzione Rutelli-Prodi-Fassino-Amato-D’Alema sia molto più affidabile per il grande capitalismo italiano ed internazionale di quanto lo sia la direzione Berlusconi-Bossi-Fini. Mi spiace molto che questa pacata e sobria affermazione possa suonare come “estremistica” laddove non lo è per niente, ed in proposito basta leggere la bibbia del grande capitale finanziario, l’inglese Economist. Ma non sta qui il problema. Il problema sta nel capire due cose, e solo due cose. La prima cosa da capire è che Fassino non ha assolutamente “tradito” Gramsci, ma ha soltanto preso atto di un fatto storico che tutti i gruppi estremistici continuano colpevolmente a rimuovere, e cioè che ogni progetto rivoluzionario anticapitalistico basato sulla classe operaia di fabbrica è tramontato definitivamente, e continuare ad agitarlo farà diventare (ma ha già fatto diventare) i comunisti come gli anarchici, e cioè residui di un passato glorioso ma che però non tornerà.
La seconda è che Fassino è oggi molto più egemone nella società di quanto lo siano correntonisti, cofferatiani, cossuttiani o bertinottiani vari. E se questo è vero, come mi sembra che sia, allora la situazione è veramente critica, perché registra semplicemente una sconfitta storica epocale di proporzioni inaudite.
E chi non lo ha ancora capito si svegli, per favore.