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Cioran

di Stenio Solinas - 13/12/2005

Fonte: lineaquotidiano.it

 

Non c’è niente in Cioran del lugubre abito apocalittico-nichilista indossato da altri pensatori. È, al contrario,
un uomo spiritoso, beffardo, allegro, pieno di curiosità, compassionevole e portato a confrontarsi con i suoi simili.

 

Quando, nel 1937, Cioran
arrivò in Francia dalla nativa
Romania era nient’altro
che uno studente-studioso di filosofia,
poco più che ventenne, ma già in
fuga dal suo Paese, dal mondo, dalla
vita. Installatosi in un alberghetto
del Quartiere latino, in rue Racine,
forte di una piccola borsa di studio
rinnovatagli dall’Istituto di cultura
non per i suoi lavori, ma per l’aver
girato la Francia intera in bicicletta
(“di lei almeno si può affermare che
conosce questa nazione” gli disse il
funzionario che gliela fece avere) e
usando la mensa della Sorbona
come suo ristorante abituale, Cioran
riuscì a vivere senza lavorare, suo
unico massimo-minimo obiettivo.
Quando una legge dello Stato stabilì
che dopo i 27 anni non ci si poteva
più iscrivere all’università, l’allora
quarantenne studente-studioso si
ritrovò “cacciato da quel paradiso”,
ma non per questo si diede per vinto
e accettò le regole della società civile
che impongono uno stipendio,
una carriera, degli obblighi. Al giornalista
che nel 1970 lo intervistava
confessò: “La maggior parte del
tempo non faccio niente. Sono l’uomo
più sfaccendato di Parigi. Credo
che in questo possa battermi soltanto
una puttana senza clienti”. Aveva
sessant’anni.
Adesso che Adelphi manda in libreria
Un apolide metafisico (362 pagine,
15 euri), ovvero una raccolta di
venti interviste concesse in un arco
di tempo che va da quella data prima
citata al 1994, un anno prima cioè
della sua morte, l’impressione di
quella scioperaggine si rafforza e
con essa l’incredibile fisionomia di
questo spregiatore del genere umano
condannato però a una formidabile
ansia di vivere. Perché esteriormente
non c’è niente in Cioran del lugubre
abito apocalittico-nichilista indossato
da altri pensatori, ma al contrario
un uomo spiritoso, beffardo, allegro,
pieno di curiosità, compassionevole
e portato a confrontarsi con i suoi
simili. E tuttavia, al contempo, è difficile
trovare un altro pensiero così
distruttivo nella sua asistematicità.
Bastano alcune frasi per rendere
un’idea di quanto sopra: “Ho scritto
per ingiuriare la vita e per ingiuriare
me stesso. il risultato? Mi sono
sopportato meglio, e ho meglio sopportato
la vita”. “Io non sono pessimista,
ma violento... è
questo che rende vivificante
la mia negazione”.
“Il vantaggio
dell’aforisma è che
non si ha bisogno di
fornire prove. Si tira
un aforisma come si
tira uno schiaffo”. “Io
non ho mai davvero
creduto in niente. Non
c’è niente che io abbia
preso sul serio. L’unica
cosa che abbia preso
sul serio è il mio
conflitto con il mondo.
Tutto il resto per me è
soltanto un pretesto”.
Un apolide metafisico,
il bellissimo titolo che
tiene insieme queste
conversazioni, è una
definizione dello stesso
Cioran e spiega
bene il suo modo di
essere e di pensare.
“Io non potrei essere
un politico, perché
credo nella catastrofe.
Per parte mia, sono
certo che la storia non
è la via al paradiso. Eppure, se sono
un vero scettico, non posso neanche
essere sicuro della catastrofe...
Diciamo che ne sono quasi sicuro!
Ecco perché mi sento distaccato da
qualsiasi Paese, da qualsiasi gruppo.
Sono un apolide metafisico, un
po’ come quegli storici della fine
dell’Impero romano che si sentivano
‘cittadini del mondo’, il che è come
dire che erano cittadini di nessun
luogo”.
Questo sentimento di marginalità, di
fine e di confine è centrale nella sua
riflessione filosofico-esistenziale:
“Ho cercato a lungo di capire come
reagissero a certi avvenimenti uomini
che non potevano diventare cristiani
e che sapevano di essere perduti.
A me pare che la nostra situazione,
la nostra posizione, assomigli
un po’ a quella degli ultimi pagani
prima che si diffondesse il cristianesimo,
con la differenza, per la verità,
che non possiamo più aspettarci
nessuna nuova religione. Ma a parte
questo ci troviamo
nella situazione
degli ultimi pagani.
Vediamo che stiamo
per perdere tutto,
che forse abbiamo
già perduto tutto,
che non ci resta un
briciolo di speranza,
che non possiamo
neanche lontanamente
pensare
alla speranza. In
questo il nostro
destino è molto più
patetico, molto più insopportabile e
al tempo stesso più interessante. C’è
almeno questo di positivo nella
nostra epoca; io la trovo estremamente
interessante, forse troppo
interessante. Sicché da un lato si
può essere sfortunati a dover trascorrere
l’esistenza in un posto simile,
ma dall’altro è comunque meraviglioso
assistere all’approssimarsi
del diluvio. Mi avrebbe davvero
estasiato essere contemporaneo del
diluvio”.
En attendant la catastrofe, Cioran
vive e dalla insensatezza del vivere è
comunque affascinato. “Il paradosso
della mia natura è che provo
amore per l’esistenza, ma allo stesso
tempo ogni mio pensiero è ostile
alla vita. Ho sempre avvertito e
intuito il lato negativo della vita, il
vuoto di tutto”. Deriva da qui il
fascino singolare di queste interviste
e in genere delle sue opere e la
ragione per la quale uno scritto di
Cioran ha spesso effetti spiazzanti,
ovvero tonici, corroboranti. La sua
visione negativa è fiammeggiante, è
polemica, è ingiuriosa e quindi per
certi versi è vitale. Senza raggiungere
le sue vertigini e la sua profondità
chiunque di noi abbia le sue stesse
coordinate, ovvero nessuna fede trascendente,
nessuna propensione alla
Storia come Progresso, nessuna
fiducia nella Scienza come risposta
ai misteri del mondo, si ritrova in un
universo di cui conosce perfettamente
entrate e uscite, nascondigli e
spazi aperti. L’universo di chi vive
la noia come una compagna, di chi
si appassiona a un progetto, ma sa
che tanto non porterà a niente, di chi
assiste disgustato alle competizioni
per un posto, un premio, un successo,
perché già ne conosce il fondo
amaro, già sa che dopo non ti serviranno
a niente, di chi è quietamente
disperato e avverte il battito inesorabile
del Tempo.
Dice Cioran che “la cosa veramente
bella della vita è l’avere perso ogni
illusione e ciononostante fare un
atto di vita, essere complici. Essere
in totale contraddizione con quello
che si sa. E se la vita ha qualcosa di
misterioso è appunto questo, che
pur sapendo ciò che si sa, si è capaci
di compiere un atto che va contro
il proprio sapere”. In ogni impresa
in cui ci mettiamo, in ogni passione
che viviamo noi non facciamo altro
che attingere a questo mistero: non è
un’illusione, è una convenzione o,
se si vuole, un atto di sopravvivenza,
un’accettazione delle regole del gioco
pur sapendo che il gioco è tarato
in partenza, vincitori e vinti sono già
stabiliti.
Proprio perché conosce la vita Cioran
è lontano dalla algida perfezione
dei nichilisti puri, di quelli che
costruiscono un perfetto sistema
distruttivo che è però squisitamente
intellettuale, ma non umano, ha a
che fare con le idee, ma non con la
realtà. Dal confronto con quest’ultima
Nietzsche esce pazzo proprio
perché, non conoscendola, ne viene
sopraffatto, laddove Cioran, che
pure non ha illusioni, ne comprende
appieno la potenza seduttrice e
sa quando abbandonarsi a essa per
meglio fuggirla poi. Anche l’idea
del suicidio rientra in questa prospettiva.
“Il pensiero del suicidio è
un pensiero che aiuta a vivere. Senza
l’idea del suicidio mi sarei
ammazzato subito. La vita è sopportabile
soltanto all’idea di poterla
lasciare quando si vuole. La vita
è a nostra discrezione. L’idea che
si possa vincere la vita, l’idea di
aver in pugno la nostra vita, di
poter abbandonare lo spettacolo
quando vogliamo, è un’idea esaltante”.
Un apolide metafisico è un libro che
si dovrebbe tenere sul comodino. È
pieno di humour, di aneddoti, di
considerazioni serie e di annotazioni
all’apparenza marginali, sul cibo, sul
sonno, sull’amicizia, ma che in realtà
fanno parte del nostro essere. È il
breviario delle felicità di un infelice,
un po’ la condizione esistenziale di
noi poveri disgraziati condannati a
morire avendo in bocca il gusto di
vivere.