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L’essenza della tecnica moderna secondo Martin Heidegger

di Fausto Borrelli - 14/12/2005

Fonte: filosofia-ambientale.it/

Alle radici della crisi ambientale

INDICE

Sommario

Introduzione

L’impreparazione del pensiero a pensare l’età della tecnica moderna

La scienza come “anticipazione conoscitiva” e il progetto di Cartesio di conquista della natura

Il significato dell’espressione heideggeriana: la scienza non pensa

Alla ricerca dell’essenza della tecnica moderna

La definizione strumentale della tecnica.

Che cos’è la strumentalità.

Il “disvelamento” (alétheia). La tecnica come modo del disvelamento.

Tecnica antica e tecnica moderna.

La provocazione della natura e il concetto di “fondo per l’impiego”.

L’essenza della tecnica moderna come “impianto di richiesta” che provoca e costringe l’uomo a disvelare il reale come “fondo da impiegare”. La scienza come ancella della tecnologia.

Il pericolo in sito nell’essenza della tecnica moderna.

Marx e la concezione strumentale della tecnica

La posizione della chiesa sull’ ambiente e sulla strumentalità della tecnica

Essenza della tecnica e crisi ambientale

Bibliografia

Note 


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Sommario
Questo studio ripropone le riflessioni di Martin Heidegger (1889-1976) sull’essenza della tecnica cercando di collegarle alle radici profonde della incipiente crisi ambientale conseguente all’ espandersi della tecnica moderna.

In primo luogo è impostato il tema della preoccupazione heideggeriana sulla impensabilità dell’età della tecnica moderna.

Si esamina poi l’interpretazione del1a scienza moderna come anticipazione conoscitiva che permette l’esperimento indagativo, ed è chiarito il senso del1’espressione heideggeriana: la scienza non pensa.

Attenendosi al testo del1a Conferenza di Heidegger a Monaco del 1953, si ripercorre in breve l’analisi da lui compiuta nell’interpretazione del1’essenza della tecnica moderna, individuata in quell’”impianto di richiesta che provoca e costringe l’uomo a disvelare il reale come fondo per l’impiego” (Gestell). Si accenna anche alla concezione della scienza moderna fondata sull’essenza della tecnica.

E’ poi presentato il punto di vista marxiano sulla tecnica come strumentalità padroneggiabile, e ciò al fine anche di evidenziarne le differenze rispetto al1’interpretazione heideggeriana.

E’ anche esaminata la posizione della Chiesa sull’ambiente e sul significato della “non neutralità morale” della tecnica moderna.

Infine, si rendono esplicite alcune implicazioni delle riflessioni di Heidegger sulla tecnica moderna, sia nei confronti del1a concezione comunemente accettata di una tecnica strumentale e padroneggiabile, sia nei confronti del rapporto fra uomo e mondo naturale, visto alla luce dei concetti di “impianto di richiesta” e di “fondo per l’impiego”. Si tenta quindi una definizione della crisi ambientale in termini heideggeriani.

 

Introduzione
Le riflessioni di Martin Heidegger sull’essenza della tecnica moderna risalgono a prima del 1953.

La crisi ambientale che sta cominciando a manifestarsi oggi su scala planetaria, può essere compresa nelle sue radici profonde riallacciandosi a quelle riflessioni. Infatti, le insidie latenti e le ricorrenti catastrofi provocate dalla tecnica moderna, e quelle ben più minacciose previste “con scientificità” in un prossimo futuro, stanno ponendo davanti agli occhi di tutti - per la prima volta nella storia - la prospettiva non immaginaria, non religiosa, né bellica, di una fine probabile di ogni tipo di civiltà umana come conseguenza diretta dell’espandersi della tecnica moderna.

Di quella tecnica moderna, la cui essenza è stata indicata da Heidegger in quel processo instauratosi nel nostro secolo come “impianto di richiesta” che provoca e costringe l’uomo a “disvelare” il reale come “fondo da impiegare” .

Cioè, con la tecnica moderna, secondo Heidegger, il vecchio ideale artigiano del “saper fare” si è capovolto nella coazione a “dover fare” della produzione industriale; e conseguentemente il “mondo naturale” viene conosciuto ormai soltanto come “fondo per l’impiego” e non più come semplice “fúsis” .

Queste riflessioni - nate in un clima diverso da quello della crisi ambientale rappresentano la più radicale messa in guardia del nostro tempo nei confronti della tecnica moderna e, in particolare, nei confronti di quegli “esercizi di ammirazione” verso le tecnologie avanzate e l’innovazione tecnologica, che accompagnano oggi lo sviluppo dell’economia mondiale, ancora solo agli inizi.

In questo senso, le riflessioni del filosofo tedesco anticipano e integrano il pensiero ambientalista, che in genere ancora ignora Heidegger.

Esse ci portano alle radici di un incombente destino, e dischiudono il significato reale della nostra crisi attuale, tanto più minacciosa quanto più incompresa nelle origini e rimossa nelle conseguenze ultime.

Il pensiero di Heidegger è cupo e anche oscuro. Ma se ci aiuta a comprendere il perché del “problema dei problemi difficilmente sopravvalutabile” vale forse la pena di avvicinarlo.

Fra i testi di Heidegger sono stati scelti i più accessibili, sui quali si sono dovute compiere molte semplificazioni.

Il testo principale al quale ci si è rifatti è quello della conferenza sulla questione della tecnica, tenuta a Monaco di Baviera nel 1953 che è stato ampiamente ripreso nella parte centrale di questo lavoro nella traduzione di Gianni Vattimo, tenendo conto di quella inglese di W. Lovitt e di quella francese di A. Préau.

In questo studio, sebbene vi sia un riferimento costante all’incipiente crisi ambientale, non vengono mai nominati gli aspetti specifici attraverso cui tale crisi si manifesta.

Questo studio, in alcune sue parti, deve molto ai lavori di Galimberti, Vattimo e De Benoist.

 

L’impreparazione del pensiero a pensare l’età della tecnica moderna
Per Heidegger “il modo di pensare della filosofia moderna non offre più alcuna possibilità di fare esperienza - col pensiero - dei lineamenti fondamentali dell’età della tecnica che è soltanto al suo inizio”[1].

Al pensiero si presenta così un compito inaudito, perché “al segreto della strapotenza planetaria dell’essenza della tecnica, corrisponde il non apparire del pensiero che tenta di pensare questo impensabile”[2].

D’altra parte sarebbe vano chiedere aiuto alla scienza perché, per Heidegger, “la scienza non pensa”[3]. E non pensa non perché non usi il pensiero; ma perché, in conseguenza del suo modo di procedere e dei suoi strumenti, non può pensare nel modo in cui pensa il pensiero meditativo. Che la scienza non sia in grado di pensare, del resto, non è per nulla un difetto precisa Heidegger - ma un vantaggio. Solo in virtù del suo “non pensare”, la scienza può dedicarsi alla ricerca su singoli ambiti e stabilirsi in essa[4].

La preoccupazione filosofica di Heidegger è dunque fondata:

“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Più inquientante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditativo, un adeguato confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”[5].

A questo compito Heidegger si è ripetutamente dedicato - nel più ampio orizzonte del suo pensiero che però converge sul tema dell’impensabilità dell’età della tecnica moderna - in un periodo che va dalla metà degli anni ‘30 al 1953, anno della famosa conferenza sulla questione della tecnica, che prenderemo in esame più avanti. Dal 1953 fino al ‘68, Heidegger è tornato più volte su questo tema, ma soprattutto per ribadire l’incalzare della preoccupazione filosofica per l’impreparazione del pensiero di fronte all’era della tecnica planetaria. Egli avvertiva che, pur essendosi incamminato. sul sentiero giusto, non riusciva ad andare più avanti e doveva limitarsi soltanto ad indicare una direzione di marcia.

Del resto la famosa invocazione di Heidegger, dalla quale è stato ripreso il titolo dell’intervista del 1968 “Ormai solo un dio ci può salvare”, è l’invocazione a un dio sconosciuto e contumace, particolarmente amara ed enigmatica se si tiene conto che proviene da chi rimpiange con Holderlin la sparizione degli dei dell’Olimpo greco, e da chi ha dedicato parte delle sue riflessioni al commento della sentenza di Nietzsche, “Dio è morto”.

La constatazione heideggeriana dell’impensabilità dell’età della tecnica moderna provoca l’insorgere della questione filosofica del nostro tempo.

La domanda è questa: se non riusciamo a comprendere nulla di ciò che sta accadendo di immensamente vicino a noi e che ci coinvolge totalmente, non vuol dire forse che il rischio supremo per l’uomo di cui parlava Heidegger - cioè l’avvento del nichilismo nella forma di dominio onniperversivo della tecnica moderna - è ormai diventato un destino compiuto? E da questa impensabilità del presente non è forse decretata anche l’impossibilità di stabilire un rapporto “significativo” del pensiero col passato e col futuro - con tutte le implicazioni che ciò comporta sul piano della conoscenza e dei valori?

E nel quadro di tali domande che assumono enorme rilievo le riflessioni di Heidegger sull’essenza della tecnica moderna.

 

La scienza come “anticipazione conoscitiva” e il progetto di Cartesio di conquista della natura
Prima di passare alla interpretazione di Heidegger dell’essenza della tecnica moderna contenuta nella conferenza del 1953, è necessario accennare alla sua concezione della scienza come “anticipazione conoscitiva su cui si fonda l’esperimento indagativo”. È una interpretazione heideggeriana, e, come tale, discutibile e discussa[6]; ma estremamente importante per comprendere il significato del suo pensiero sull’essenza della tecnica moderna e sullo stretto rapporto che lega tecnica moderna e scienza moderna.

Per illustrare questo aspetto del pensiero di Heidegger ci rifaremo prevalentemente al suo scritto “L’epoca dell’immagine del mondo (1938)[7].

La fisica moderna, per Heidegger, si sviluppa come fisica matematica, nel senso che i Greci danno al significato di “tá ma thémata” e cioè: “quello che nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”[8]. “Che la fisica si sviluppi esplicitamente nel senso di una fisica matematica, viene a significare che attraverso la matematica è determinato in anticipo qualcosa di già conosciuto”[9] .

Per Heidegger, la scienza moderna della natura non diviene ricerca in virtù dell’esperimento. Al contrario, è l’esperimento che è reso possibile là, e solo là, dove la conoscenza della natura ha assunto l’andamento della ricerca fondata sull’anticipazione matematica. Cioè, solo coll’esser matematica nella sua essenza, la fisica moderna può essere sperimentale[10].

L’esperimento “indagativo” della ricerca moderna è radicalmente diverso dalla stessa “empeiria” (esperienza) aristotelica che è l’osservazione delle cose nel loro comportamento naturale.

L’esperimento “indagativo” inizia invece con la formulazione di una ipotesi, che non è una escogitazione arbitraria nel preciso senso in cui Newton asseriva: “hypotheses non fingo”. Le ipotesi cioè sono ricavate dal progetto fondamentale della natura e inscritte in esso. E quanto più esattamente il piano fondamentale della natura è stato progettato, tanto più esatta diviene la possibilità dell’esperimento[11].

In Bacone, che pur esaltava l’“experimentum”, mancava invece il concetto di ipotesi come anticipazione matematica, anche se in lui è già presente (1624) il progetto di conquista della tecnica moderna:

“Se qualcuno riuscisse ad accendere una luce nella natura che col suo stesso sorgere illuminasse quelle regioni che sono al di là di quelle già da noi conosciute, costui sarebbe il propagatore del dominio dell’uomo sull’universo e il soggiogatore della necessità”[12].

In Galileo viene invece enunciato, con la massima limpidezza, il carattere distintivo della scienza moderna, cioè quell’anticipazione matematica che rende “scientifico” lo stesso metodo sperimentale. Scrive Galileo nel Saggiatore (1623):

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi a gli occhi, io dico l’Universo. Ma non si può intendere se prima non si impara a intendere la lingua e i caratteri né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”[13].

Ma è in Cartesio, però, che Heidegger vede l’iniziatore della metafisica moderna, su cui vengono fondate sia la scienza che la tecnica moderna. È in Cartesio che egli vede l’ente rappresentato come “oggettività” del rappresentare, e la verità “come certezza del rappresentare stesso”[14].

Ma c’è di più. In Cartesio (1637), viene enunciato per la prima volta, con orgoglio e consapevolezza, quel progetto di conquista e dominio della natura da parte della scienza e della tecnica moderna che oggi si sta realizzando a condizioni non previste da Cartesio:

“Tosto che ebbi acquisito alcune nozioni generali di fisica e cominciato a provarle in diverse difficoltà particolari e notato fin dove esse possono condurre e come differiscono dai principi di cui ci siamo serviti fino adesso, ho creduto di non poteri e tenere nascoste senza peccare grandemente contro la legge che ci obbliga di procurare, per quanto è in noi, il bene generale di tutti gli uomini. Poiché esse mi hanno fatto vedere che è possibile pervenire a conoscenze utilissime alla vita, e che, invece di quella filosofia che si insegna nelle scuole, si può trovare una filosofia pratica, per la quale, conoscendo la forza e l’azione del fuoco, dell’acqua e dell’aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci circondano, così distintamente come conosciamo i diversi mestieri dei nostri artigiani, noi potremmo alla stessa maniera adoperare le conoscenze a tutti gli usi ai quali sono adatte, e così diventare padroni e possessori della natura. Il che non solo è desiderabile per l’invenzione di una quantità di artifici, che ci farebbero godere senza alcuna fatica i frutti della terra e ogni comodità ma anche per la conservazione della salute,la quale è senza dubbio il primo bene e il fondamento di tutti gli altri beni in questa vita”[15].

La scienza moderna che progetta l’ente (e la tecnica che ne dispone) sono quindi, per Heidegger, il prodotto della moderna metafisica occidentale.

Per Heidegger, è a partire da Platone e dalla sua dottrina delle idee che si compie la separazione dell’ente dal suo fondamento, l’essere.

Con Kant, che sviluppa tutte le potenzialità della metafisica cartesiana, la ragione umana diviene addirittura costitutiva dei suoi oggetti, creandoli nell’atto del conoscerli. L’ente, così, si rappresenta al soggetto come “oggetto matematico e fisico” , come ente fenomenico, cioè apparente; e l’essere di quell’ente (che Kant chiama “noumeno”) rimane escluso, è al di là del pensiero e cade nell’oblio. È il tema heideggeriano dell’oblio dell’essere[16].

 

Il significato dell’espressione heideggeriana: la scienza non pensa
Nel tema dell’oblio dell’essere si ritrova il senso della “scandalosa espressione” la scienza non pensa, che abbiamo già incontrato in precedenza. Sarà bene chiarire un po’ meglio questo punto ricorrendo ad alcuni testi heideggeriani. Dice Heidegger: “La scienza non pensa e non può pensare, per sua fortuna invero, perché ne va delle garanzie del suo modo di procedere. La scienza non pensa. Questa affermazione è scandalosa. Lasciamo all’affermazione il suo carattere scandaloso anche se aggiungiamo subito che la scienza ha comunque, sempre e in una sua maniera peculiare, a che fare con il pensiero. Ma questa sua maniera è autentica e carica di conseguenze solo quando l’abisso che sta tra il pensiero e le scienze diventa visibile e se ne riconosce l’insuperabilità. Qui non ci sono ponti, ma soltanto il salto. È per questa ragion che non fanno che recar danno tutti i ponti d’emergenza e tutti i ponti dell’asino che proprio oggi vogliono instaurare un comodo rapporto d’affari tra il pensiero e le scienze. Dobbiamo quindi, in questo momento, nella misura in cui proveniamo dalle scienze, sopportare quanto nel pensiero è scandaloso e inconsueto, posto che siamo preparati ad imparare a pensare.

Il pensiero, o più esattamente il tentativo e il compito di pensare, stanno entrando in un’epoca in cui le grandi esigenze che il pensiero tradizionale credeva di soddisfare e pretendeva.di dover soddisfare diventano caduche. Il cammino della domanda “Che cosa significa pensare?” corre già all’ombra di questa caducità. Quattro frasi bastano a caratterizzarla:

Il pensiero non porta al sapere come vi portano le scienze.
Il pensiero non comporta una forma di saggezza utile alla vita.
Il pensiero non risolve gli enigmi del mondo.
Il pensiero non procura immediatamente forze per l’azione.
Finché continuiamo a subordinare il pensiero a queste esigenze, sopravvalutiamo il pensiero e gli chiediamo troppo.

Il rapporto del pensiero con le scienze di cui stiamo parlando è stabilito da un tratto fondamentale dell’epoca moderna. Questo tratto si può descrivere in breve come segue: ciò che è, appare oggi prevalentemente in quella oggettività che si impone e domina grazie al procedimento oggettivante delle scienze in tutti i campi e in tutti gli ambiti. Il prevalere di tale tratto non ha origine da un’esigenza particolare propria della scienza, ma da un fatto essenziale che oggi ci si rifiuta ancora di vedere. Tre proposizioni bastano a definirlo. 

La scienza moderna si fonda sull’essenza della tecnica.
L’essenza stessa della tecnica non è’ qualcosa di tecnico.
L’essenza della tecnica non è soltanto una costruzione umana che la superiorità e la sovranità umane potrebbero assoggettare ad una costituzione morale appropriata.
Il procedimento oggettivante cui la scienza sottopone ciò che è, ci resta invisibile per il fatto che ci muoviamo in esso. Per questa stessa ragione anche il rapporto del pensiero con la scienza resta oggi oltremodo confuso e nell’essenza velato, tanto più che è proprio con la sua origine essenziale che il pensiero ha minor confidenza”[17].

 

Alla ricerca dell’essenza della tecnica moderna
Tenendo presente quanto nelle pagine precedenti abbiamo cercato di illustrare - cioè la concezione della scienza moderna come “anticipazione matematica basata sull’esperimento indagativo” - cercheremo di affrontare ora la riflessione heideggeriana sull’essenza della tecnica moderna, tema centrale di questo studio. Verso la metà degli anni ‘30, cioè a quasi dieci anni dalla pubblicazione della sua opera fondamentale “Essere e Tempo” (“Sein und Zeit”) del 1927, Heidegger avvertì l’esigenza filosofica di “pensare” la tecnica, che gli si veniva rivelando come una delle manifestazioni essenziali del mondo moderno. E di pensarla come rischio supremo per l’uomo, in analogia al tema della possibilità della morte immanente nell’ orizzonte finito delle possibilità umane, come aveva fatto in “Essere e Tempo” .

Questa “riflessione” di Heidegger differiva radicalmente da quella che veniva elaborata nell’ambito della filosofia della scienza a lui contemporanea, volta ai problemi di metodologia e di validità degli enunciati, più che al significato “venturo” della tecnica moderna.

Il tema del significato della tecnica moderna per l’uomo e per la civiltà, era stato ampiamente trattato invece dalla cosiddetta “letteratura della crisi”, che presentiva quanto di completamente nuovo si andava preparando nel mondo come conseguenza dell’espandersi del dominio planetario della tecnica. In Germania, questo tema aveva coinvolto, nel corso degli anni venti, persino il mondo degli ingegneri - in genere refrattari a certi tipi di speculazione - ad interessarsi del rapporto fra tecnica moderna e spirito della civiltà germanica[18].

In questo clima, notevole influsso, per lo meno come richiamo specifico al prepotente manifestarsi della tecnica moderna nell’ambito delle società tradizionali, Heidegger lo ricevette da “L’uomo e la tecnica” (1931) di Oswald Spengler e soprattutto, come egli stesso riconosce, da “Der Arbeiter” (1932) (L’operaio) di Enrst Jünger. Si tenga presente che Jünger, nel 1953, era fra il pubblico, quando Heidegger pronunciò la sua famosa conferenza alla Technische Hochschule di Monaco.

Gli studiosi del pensiero di Heidegger parlano di due approcci[19] al problema della tecnica moderna che comunque sono presenti nel testo fondamentale della conferenza del 1953: “Die Fragenachder Technik”,. conosciuto in italiano come “La questione della tecnica” , nel senso di “di domanda rivolta verso la tecnica”.

Infatti è Heidegger a interrogare la tecnica per coglierne l’essenza.

Il problema della tecnica, non così organicamente sviluppato come nella conferenza del 1953, si ritrova trattato in molti altri scritti di Heidegger, fra i quali ricordiamo: “L’epoca dell’immagine del mondo” (1938) “Scienza e meditazione” (1953), “Identità e differenza” (1955), “Gelassenheit (L’abbandono)” (1955), “La svolta” (del ‘49 pubblicato nel ‘62; in Italia nel ‘90) e “Ormai solo un dio può salvarci” (1968), intervista pubblicata postuma nel ‘76 (in Italia nell’87).

Quella della tecnica, come si vede, è stata una tematica centrale, di importanza crescente per Heidegger, e le sue meditazioni su questo argomento cominciano ad essere comprese nella loro reale portata soltanto oggi.

Ancora nel 1968, Heidegger non si stancava di ripetere che “il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui grandezza, storicamente determinante, non può essere in alcun modo sopravvalutata”[20].

La definizione strumentale della tecnica
Si tenterà ora di riassumere le linee essenziali del pensiero di Heidegger, tenendo presente che il suo procedere è muoversi fenomenologico attraverso il linguaggio e la etimologia delle parole. Seguiremo il testo della Conferenza di Monaco del 1953.

Per arrivare all’essenza della tecnica - dice Heidegger - bisogna stabilire con la tecnica un rapporto di pensiero libero, sgombro da idee precostituite.

Non possiamo stabilire questo rapporto libero fintantoché ci limitiamo a praticare la tecnica, ad accettarla con rassegnazione, ad esaltarla o a disprezzarla. Ma saremmo ancor più in suo potere, se considerassimo la tecnica come qualcosa di neutrale: questo ci renderebbe ciechi di fronte all’essenza della tecnica.

Ciò premesso, Heidegger dice che, alla semplice domanda “cosa è la tecnica?”, si suole rispondere che “la tecnica è una attività dell’uomo che crea un mezzo in vista di fini”[21].

Questa è la definizione strumentale della tecnica. Essa, dice Heidegger, è “straordinariamente esatta”, tanto che può applicarsi benissimo anche alla tecnica moderna, la quale è considerata - con una certa ragione - come qualcosa di assai diverso dalla tecnica artigianale del passato. Per quanto estremamente più complesse delle tecniche artigianali, è esatto dire, ad esempio, che il generatore di alte frequenze, l’aereo a reazione o la centrale idroelettrica sul Reno, sono mezzi in vista di fini.

Ma, avverte Heidegger, pur così esatta, la definizione strumentale della tecnica ci condiziona, se non addirittura ci impedisce di arrivare nel luogo dove stabilire il giusto rapporto con l’essenza della tecnica. E poi la esattezza è anche verità? Non necessariamente e non sempre, risponde Heidegger[22].

Che cos’è la strumentalità.
Quindi l’essenza della tecnica potrebbe non essere qualcosa di tecnico. Potrebbe esser qualcosa di diverso dalla pura strumentalità. Proviamo quindi a muoverci in una altra direzione e a domandarci invece che cosa sia la strumentalità in se stessa.

La risposta è: la strumentalità è ciò mediante cui qualcosa viene effettuato.

La strumentalità cioè è responsabile (causa) dell’apparire di qualcosa; fa in modo che qualcosa avanzi nella presenza. Ma il far apparire, l’avanzarsi nella presenza, il disvelamento, a quale ambito appartiene?

Su questo punto cruciale, dice Heidegger, è Platone, nel Simposio, che ci soccorre opportunamente: “Tutto ciò che fa passare una qualsiasi cosa dalla non presenza alla presenza è “póiesis” (produzione)[23].

E’ di eStrema importanza a questo punto per noi - dice Heidegger - pensare la póiesis (produzione) in tutta la sua portata, tenendo presente il senso che ad essa davano i Greci. Póiesis (produzione) non è solo la fabbricazione artigianale, e non è solo il portare all’apparire proprio dell’artista e del poeta. Póiesis (produzione) è anche fúsis (natura), letteralmente il “sorgere di per sé” , la natura nel suo manifestarsi. La fúsis è póiesis in senso più alto, perché ha in se stessa il movimento iniziale, come ad esempio lo schiudersi del fiore nella fioritura.

All’opposto dice Hidegger, ciò che è prodotto dall’arte e dal lavoro manuale non ha il movimento iniziale in se stesso ma in un altro, nell’artigiano e nell’artista.

Cioè mentre il seme dispiega da sé l’albero, l’albero non dispiega da sé i prodotti artigianali, cioè la sedia, la barca[24].

Mediante la póiesis, quindi, viene disvelato, portato alla presenza sia ciò che cresce in natura (fúsis), sia ciò che è apprestato dal mestiere e dalle arti.

Ma come si manifesta questa póiesis (produzione) nella natura, nei mestieri e nelle arti? Si dà produzione quando “qualcosa di nascosto” viene alla disvelatezza. La póiesis conduce cioè qualcosa fuori dal nascondimento al disvelamento.

Il “disvelamento” (alétheia). La tecnica come modo del disvelamento
Ma, per i Greci, il disvelamento è alétheia (in latino veritas, in tedesco Wahrheit)[25]. Heidegger, retoricamento, si meraviglia, e dice: ma dove siamo arrivati? Dal problema della tecnica siamo arrivati all’alétheia, al disvelamento? Ma che ha a che fare l’essenza della tecnica con il disvelamento?

Tutto, risponde Heidegger.

Sul disvelamento si fonda infatti qualsiasi “produzione” che riunisce in sé i modi del “far avvenire”: cioè, strumentalità e causalità[26].

La tecnica, dunque, non è semplicemente uno “strumento” , ma un “modo del disvelamento”, un modo del conoscere. Si apre così un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica: l’ambito della verità.

Tecnica antica e tecnica moderna
Heidegger passa quindi ad esaminare l’etimologia, della parola tecnica (Technik). Essa viene dal greco téchne.

Téchne è un modo di conoscere, per l’esattezza “l’intendersene”.

Per Aristotele, téchne diversamente da fúsis, disvela ciò che non si produce da sé.

L’elemento decisivo di téchne non sta nel maneggiare, nel fare, o nella messa in opera di mezzi, ma nel “disvelamento”. L’etimologia di téchne osserva Heidegger, ci riporta dunque nello stesso luogo in cui eravamo stati condotti quando abbiamo cercato di elaborare il problema di cosa fosse la “strumentalità”[27].

La tecnica è un modo del disvelare. La tecnica di spiega il suo essere nell’ambito in cui accadono di svelare e disvelatezza, dove accade l’alétheia la verità.

Contro questa determinazione dell’ambito essenziale della tecnica si potrebbe obiettare - dice Heidegger - che essa può valere al massimo per il pensiero greco o che si adatta, nel migliore dei casi, alla tecnica artigianale, ma che non è adeguata alla tecnica moderna fondata sulle macchine mosse dalle energie artificiali. Ed èinfatti la tecnica moderna che ci preoccupa e che ci spinge a sollevare la’ ‘questione della tecnica”. Si dice che la tecnica moderna sia incomparabilmente diversa da ogni altra precedente perché si fonda sulle moderne scienze esatte. Però, se guardiamo le cose un pò più a fondo, si vede chiaramente che è vero anche l’opposto; e cioè che la moderna fisica sperimentale, dipende a sua volta da apparecchiature tecniche e dal progresso nella costruzione di tali apparecchi[28].

La domanda decisiva rimane aperta: quale deve essere l’essenza della tecnica moderna perché questa possa orientarsi verso l’utilizzazione delle scienze esatte? Heidegger risponde: anch’essa è un tipo di disvelamento. Solo quando fermiamo la nostra attenzione su questo tratto fondamentale ci si manifesta quel che vi è di nuovo nella tecnica moderna.

Il disvelamento che governa la tecnica moderna, pero, non si di spiega in un produrre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna, per Heidegger, è una “provocazione”la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata[29]. Ma questo non vale anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue pale girano sì spinte dal vento, e sono dipendenti dal suo spirare. Ma il mulino a vento, osserva Heidegger, non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree al fine di accumularle[30].

All’opposto, dice Heidegger, una determinata regione viene provocata a fornire all’attività estrattiva carbone e minerali. La terra si di svela così come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che un tempo il contadino coltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. L’opera del contadino non provoca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo. Intanto, però, anche la coltivazione dei campi è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione che precetta la natura, nel senso della provocazione[31]. L’agricoltura è diventata industria meccanizzata dall’alimentazione. L’aria è richiesta per la fornitura di azoto, il suolo per la forni tura di minerali, il minerale per la fornitura di uranio, l’uranio per l’energia atomica.

Il “richiedere”che provoca le energie della natura, osserva Heidegger, è un promuovere orientato a spingere avanti qualcosa verso la massima utilizzazione con il minimo costo. Il carbone estratto nel bacino carbonifero non è richiesto solo affinché sia in generale e da qualche parte disponibile. Esso è immagazzinato, cioè è “messo a posto” in ‘lista dell’impiego del calore solare in esso accumulato. Quest’ultimo viene provocato a riscaldare, e il riscaldamento prodotto è impiegato per fornire vapore la cui pressione muove i meccanismi mediante i quali si fornisce l’energia che mantiene la fabbrica in attività.

La centrale elettrica è impiantata nelle acque del Reno. Questo è richiesto a fornire la pressione idrica che mette all’opera le turbine perché girino e così spingano quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale di un certo distretto e la sua rete sono richiesti di produrre per soddisfare la richiesta di energia. Nell’ambito di questo successivo concatenarsi dell’impiego dell’energia elettrica anche il Reno appare come qualcosa di “impiegato”. Per Heidegger, la centrale idroelettrica non è costruita sul Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all’altra. Qui, invece, è il fiume che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di forza idrica, in base all’essere della centrale[32].

Per misurare sia pur approssimativamente tutta l’enormità inquietante che qui domina, osserva Heidegger, prestiamo attenzione per un momento al contrasto che si rivela tra le espressioni “Il Reno” inteso come il fiume incorporato nella centrale (Kraftwerk), e “Il Reno” detto di un’opera d’arte (Kunstwerk), l’inno di Holderlin che porta questo titolo. Si obietterà che il Reno rimane pur sempre il fiume di quella regione. Può darsi, dice Heidegger, ma come? Solo come oggetto “impiegabile” per le escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha impiantato una industria di vacanze[33].

La provocazione della natura e il concetto di “fondo per l’impiego”
Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha, per Heidegger, un carattere particolare, quello del “richiedere” nel senso della provocazione. Questa provocazione si esplica nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto; ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento. Questo disvelamento, apre a se stesso le sue proprie vie interconnesse, le dirige e si autoalimenta.

Heidegger si chiede: quale tipo di disvelatezza è appropriata a ciò che ha luogo mediante il richiedere provocante? Ciò che è disvelato è richiesto di restare nel suo posto in modo da poter essere esso stesso impiegato per un ulteriore uso.

Ciò che così è impiegato ha una sua propria posizione.

Heidegger la indica con il termine “fondo” (Bestand). Il termine dice qui qualcosa di più e di più essenziale che la semplice nozione di “scorta, provvista” . La parola “fondo” prende qui il significato di un termine-chiave. Esso, per Heidegger, caratterizza niente meno che il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto col disvelamento provocante, cioè come “fondo per l’impiego”[34].

Un aereo da trasporto che sta sulla sua pista di decollo si di svela, sulla sua pista, solo in quanto “fondo”, nella misura in cui è impiegato per assicurare la possibilità del trasporto. In vista di ciò bisogna che esso, in tutta la sua struttura, in ognuna delle sue parti costitutive, sia pronto all’impiego, cioè pronto a partire.

Il fatto che, in questo sforzo di mostrare la tecnica moderna come disvelamento provocante si facciano avanti termini come “richiedere”, “impiegare”, “fondo”[35], e si accumulino in un modo scarno, uniforme e perciò anche noioso tutto questo, osserva Heidegger, ha la sua ragion d’essere proprio in ciò che è in questione.

Chi compie il richiedere provocante con il quale ciò che si chiama reale viene disvelato come “fondo per l’impiego”? Evidentemente l’uomo. In che misura egli è capace di un tale disvelamento? Sulla disvelatezza entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l’uomo, dice Heidegger, non ha alcun potere; il pensiero dell’uomo ha sempre risposto solo e soltanto all’appello della disvelatezza[36].

Solo nella misura in cui l’uomo è già, per parte sua, provocato a mettere allo scoperto le energie della natura, può realizzarsi questo disvelamento impiegante. Se però l’uomo è in tal modo provocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancor più originario che la natura, del “fondo per l’impiego”? Il parlare di “materiale umano” di “contingente di malati” di una clinica, dice Heidegger, lo fa pensare. La guardia forestale della Foresta Nera, che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti, e che solo apparentemente segue nello stesso modo dei suoi avi gli stessi sentieri, è oggi impiegata dall’industria del legname, che lo sappia o no.

Egli è impiegato al fine di assicurare l’impiegabilità della cellulosa, la quale a sua volta è provocata dalla domanda di carta destinata ai giornali e alle riviste illustrate.

Questi a loro volta, spingono il pubblico ad assorbire le cose stampate, in modo da divenire “impiegabile” per la costruzione di una “pubblica opinione” costruita su commissione.

Tuttavia proprio perché l’uomo è provocato in modo più originario che le energie della natura, e cioè provocato all’impiego, egli non diventa mai puro “fondo”. In quanto esercita la tecnica, l’uomo prende parte all’impiegare come modo del disvelamento.

Ma la disvelatezza non è mai opera dell’uomo.

Quando l’uomo disvela ciò che è presente entro la disvelatezza, egli non fa che rispondere all’appello della disvelatezza.

Quando dunque l’uomo, nella ricerca e nello studio, cerca di catturare la natura intesa come uno dei campi del suo rappresentare, osserva Heidegger, egli è già precettato da un modo del disvelamento, che lo provoca a rapportarsi alla natura come a un oggetto della ricerca, finché anche l’oggetto scompare nel “fondo”.

L’essenza della tecnica moderna come “impianto di richiesta” che provoca e costringe l’uomo a disvelare il reale come fondo da impiegare. La scienza come ancella della tecnologia.
Ora quell’appello provocante che costringe l’uomo ad impiegare come “fondo” ciò che si disvela, Heidegger lo chiama: “Gestell”[37]. “Gestell” è quell’impianto di richiesta che provoca e costringe l’uomo a disvelare il reale, come “fondo da impiegare”; è il modo di disvelamento che vige nell’essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico. All’ ambito tecnico appartiene invece tutto ciò che conosciamo sotto il nome di intelaiature, pistoni, ecc., che sono parti costitutive di ciò che si chiama un montaggio. Questo, tuttavia, insieme con le menzionate parti costitutive rientra nell’ambito del lavoro tecnico, il quale risponde sempre soltanto alla provocazione dell’impianto di richiesta (Gestell), ma non lo costituisce né lo produce. Nell’ambito dell’”impianto di richiesta” accade la disvelatezza, conformemente alla quale il lavoro della tecnica moderna di svela il reale come “fondo” .

L’uomo dell’età della tecnica, per Heidegger, è provocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento riguarda anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia. Conformemente a ciò, il comportamento “impiegante” dell’uomo si manifesta anzitutto nell’apparire della moderna scienza esatta della natura. Il suo modo di rappresentazione cerca di afferrare la natura come un insieme organizzato di forze calcolabili. La fisica moderna non è sperimentale per il fatto che interroga la natura con la messa in opera di apparati tecnici; all’opposto: proprio perché la fisica usa gli apparati tecnici richiede alla natura di presentarsi come un insieme precalcolabile di forze. Per questo è impiegato l’esperimento, per domandare se e come la natura, così richiesta, si dia[38].

L’essenza della tecnica moderna si nasconde ancora anche là dove si sono già inventati i motori, dove l’elettrotecnica e la tecnica dell’atomo sono ormai in movimento.

Tutto ciò che è in senso essenziale (e questo non solo nella tecnica moderna) si mantiene ovunque nascosto più a lungo possibile. Nondimeno esso rimane quello che viene prima di tutto, cioè il più principiale[39]. Di ciò sapevano qualcosa già i pensatori greci, quando dicevano: ciò che è primo, diventa manifesto solo più tardi a noi uomini. All’uomo, l’origine principiale si mostra solo da ultimo. Per questo, osserva Heidegger, nell’ambito del pensiero, uno sforzo di pensare in modo ancora più originario ciò che è stato pensato alle origini non è la volontà insensata di far rivivere un passato, ma la lucida disponibilità a meravigliarsi di ciò che è venturo nell’origine.

Per la cronologia degli storiografi, dice Heidegger, l’inizio della scienza moderna va collocato nel secolo XVII. Per contro, lo sviluppo della tecnica meccanizzata si ha solo nella seconda metà del secolo XVIII. Ma quello che è posteriore per l’osservazione storiografica, cioè la tecnica moderna, è in realtà, rispetto all’essenza che in essa vige, ciò che viene storicamente prima[40].

Perciò la fisica, per quanto possa rinunciare a quel tipo di conoscenza esclusivamente rivolto agli oggetti, che fino a poco tempo fa sembrava l’unico valido, a una cosa non potrà rinunciare mai, cioè al fatto che la natura si dia definibile in base al calcolo e rimanga impiegabile come un sistema di informazioni[41].

E’ perché l’essenza della tecnica moderna risiede nell’”impianto di richiesta” che essa deve adoperare le scienze esatte. Di qui si origina la falsa apparenza che la tecnica moderna sia scienza applicata. Questa apparenza può imporsi come vera fino a che non vengano messe in luce adeguatamente l’origine essenziale della scienza moderna, e, più ancora, l’essenza della tecnica moderna. La scienza, cioè, è ancella della tecnologia.

Dunque ripetiamo, perché con Heidegger “repetita juvant”: l’essenza della tecnica moderna è quel processo, apparentemente inarrestabile e che si autoalimenta, attraverso cui si è instaurato quell’impianto coattivo di richiesta che provoca e costringe l’uomo a di svelare (conoscere) il reale (cioè il mondo naturale e l’uomo stesso) come “fondo da impiegare”. Questo modo di conoscere, per Heidegger angusto al pensiero, domina oggi su ogni altro modo più originario per l’uomo di esperire il reale.

Il pericolo insito nell’essenza della tecnica moderna
Nella seconda parte della Conferenza del 1953, che esamineremo più brevemente, Heidegger si pone il problema del rapporto fra l’uomo e l’essenza della tecnica. E’ un tema da lui ripreso anche in altri scritti.

L’essenza della tecnica moderna, sottolinea Heidegger, porta l’uomo sul cammino di quel disvelamento mediante il quale il reale, in modo più o meno percettibile, diviene dovunque “fondo da impiegare”[42].

Su questo cammino, l’uomo procede perseguendo e coltivando soltanto ciò che si disvela nel modo dell’impiego, come “fondo” .

In tal modo si preclude all’uomo un’altra possibilità, quella di orientarsi verso l’essenza del disvelato, cioè non come “fondo”. Quando il disvelato si presenta all’uomo esclusivamente come “fondo da impiegare”, allora il cammino dell’uomo è sull’orlo del precipizio.

Ma proprio quando è sotto questa suprema minaccia, osserva Heidegger, l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è prodotto dall’uomo, e che dovunque l’uomo non incontri altro che se stesso[43].

Con piena ragione Werner Heisenberg ha fatto notare - sottolinea Heidegger - che all’uomo di oggi il reale non può presentarsi altro che in questa maniera, cioè come oggetto di scienza e come fondo per l’impiego[44].

In realtà, invece, l’uomo di oggi tende a non incontrare più, in alcun luogo, neanche se stesso.

L’uomo, cioè, per Heidegger, si conforma in modo così decisivo all’”impianto di richiesta” da non accorgersi di essere lui stesso il “precettato”, e quindi si lascia sfuggire tutti gli altri modi secondo i quali egli stesso può esistere, chiamato cioè ad un disvelamento più originale[45].

Il destino che ha messo l’uomo in cammino verso il disvelamento del reale nel modo dell’impiego come “fondo”, è, in questo senso, il pericolo estremo. Il pericolo - dice Heidegger - non è negli “apparati tecnici”. Non c’è nulla di demoniaco in essi; c’è invece il mistero dell’essenza della tecnica; è lì che il pericolo risiede. E il non “riconoscerlo” è il rischio supremo. Il dominio dell’essenza della tecnica - cioè il nichilismo - minaccia l’uomo nel senso che fonda la possibilità che all’uomo possa esser negato di raccogliersi in un “disvelamento” (in una verità) più originario di quello offerto dalla tecnica moderna. Cioè di non essere più in grado di esperire il richiamo di una verità più profonda (principiale)[46].

Ma quanto più ci avviciniamo al pericolo, conclude Heidegger, tanto più comincia a illuminarsi la via verso ciò che salva; e tanto più noi domandiamo, “perché il domandare è la pietà del pensiero”. Con questa espressione di speranza si chiude la conferenza del 1953[47].

Nei quindici anni che separano la conferenza di Monaco del 1953 dall’intervista del 1968, il percorso compiuto dalla tecnica moderna è stato immenso.

Heidegger se ne rendeva perfettamente conto e la sua preoccupazione filosofica per l’espandersi del “Gestell” si acuiva di conseguenza. Nel rapido e straordinario percorso compiuto dalla tecnica moderna, egli trovava una preoccupante conferma del suo pensiero.

Nello stesso tempo constatava i limiti delle sue forze filosofiche e la brevità del cammino percorso su quel “sentiero della speranza”, in cui si era avviato nel ‘53, meditando sull’ essenza incompresa della tecnica moderna. “Il dominio del Gestell”, dice Heidegger nel ‘68, “significa che l’uomo è collocato, impegnato e provocato da una potenza che diviene palese quando individuiamo l’essenza della tecnica, che egli non signoreggia. Far capire questo: di più il pensiero non pretende. Non conosco nessuna strada per una immediata modifica dell’attuale stato del mondo, posto che una tale strada sia in genere umanamente possibile. Si tratta di pensare verso il futuro, a partire dai tratti non ancora pensati dell’età attuale, senza pretese profetiche”. E, ritornando sul tema della speranza, poco più avanti aggiungeva: “Non vedo la posizione dell’uomo nel mondo della tecnica planetaria come una sventura inestricabile e inevitabile; anzi, vedo il compito del pensiero nel dare mano, nei propri limiti, affinché l’uomo riesca a conquistare un rapporto sufficiente con l’essenza della tecnica”[48].

 

Marx e la concezione strumentale della tecnica
“L’uomo è un animale che fabbrica strumenti”; la definizione è di Benjamin Franklin, e Marx la fa sua[49].

Ma, per Marx, questa definizione, pur valida, è insufficiente. L’uomo reale del suo tempo infatti si serve e fabbrica strumenti come “operaio salariato”, inserito in quella rete di rapporti economici e sociali che lo aliena dal suo lavoro[50].

Marx amplia così la definizione di Franklin. Ma nel far ciò perde di vista la tecnica in sé stessa, per considerarla invece come un elemento nell’ambito dei rapporti di lavoro stabiliti dal capitalismo, ritenendo di trovare qui il segreto dell’alienazione umana[51].

Marx si rende perfettamente conto che l’operare del capitalismo ha luogo in un ambiente tecnico; ma in lui non sorge mai il dubbio che possa essere proprio la tecnica ad originare ciò che con vigore denuncia, cioè l’alienazione umana[52]. La tecnica, per Marx, assoggetta l’uomo soltanto perché viene usata da una classe sociale a detrimento di un’altra classe sociale, complice l’ideologia giuridica della proprietà privata e la divisione del lavoro salariato.

Marx non si interroga - come potrà fare Heidegger cent’anni dopo - sul significato dell’essenza della tecnica; per lui è scontato che l’essenza della tecnica risieda nella “strumentalità”, che, a sua volta, implica la credenza nella neutralità della tecnica. Il bene o il male di ogni tecnica dipende solo da chi la padroneggia. E la borghesia, per Marx, non può fare altro che un pessimo uso della tecnica.

Il superamento dell’alienazione umana si realizzerà quando il proletariato si riapproprierà di ciò che, nell’essenza, gli appartiene, cioè dei mezzi della produzione e riproduzione sociale inglobanti anche la tecnica, di cui la borghesia detiene solo temporaneamente il controllo[53].

Una volta realizzato lo stadio finale cioè il comunismo - la tecnica, in virtù proprio del suo carattere strumentale e neutrale, potrà esplicarsi in tutte le sue potenzialità al servizio e sotto il controllo dell’uomo liberato dallo sfruttamento del capitale.

La tecnica, quindi, in virtù proprio del suo carattere strumentale e neutrale svolgerà un ruolo liberatorio fondamentale per l’uomo.

Il regno della riconciliazione dell’uomo con se stesso, scomparso il capitalismo, sarà, per Marx, anche quello del tecnicismo compiuto[54].

Bisogna tener ben presente che la non neutralità della tecnica moderna di cui parla Heidegger, è una non neutralità “in essenza”, completamente diversa sia dalla non neutralità “classista” di cui parlava Marx, sia dalla non neutralità “sociale” di cui parla la sociologia contemporanea, sia dalla non neutralità “morale” di cui ha recentemente parlato il Papa.

 

La posizione della chiesa sull’ambiente e sulla strumentalità della tecnica
Il messaggio del Papa “Pace con Dio Creatore, Pace con tutto il Creato” (dicembre 1989) è una preoccupata denuncia della gravità delle devastazioni ecologiche, alcune ormai giunte alla irreversibilità. Il messaggio del Papa riporta il problema della crisi ambientale ad una dimensione essenzialmente morale: “Se manca il senso del valore della persona e della vita umana, ci si disinteressa anche degli altri e del creato”, e si porta così l’uomo sulla soglia dell’autodistruzione. In particolare, per quanto riguarda le tecnologie e le ricerche avanzate, il messaggio parla di “indiscriminata applicazione dei progressi scientifici e tecnologici” e di “turbamenti indotti in natura da una indiscriminata manipolazione genetica, e dallo sviluppo sconsiderato di nuove specie di piante e forme di vita animale, per non parlare di inaccettabili interventi sulle origini stesse della vita umana” .

L’uso di espressioni quali “indiscriminata applicazione” e “indiscriminata manipolazione” ci mostra come anche questa presa di posizione ufficiale della chiesa cattolica sulla crisi ecologica, si muova nella logica di una tecnica concepita come “strumentalità neutrale e padroneggiabile”, della quale l’uomo può fare buono o cattivo uso in funzione del rispetto o meno dei valori dell’etica cristiana.

Anche questa messa in guardia nei confronti dei pericoli della crisi ambientale non tocca quindi le radici profonde del problema che sono altrove e riguardano non soltanto la non neutralità morale, ma la non neutralità e non padroneggiabilità “in essenza” della tecnica moderna da parte dell’uomo.

Infatti per Heidegger - come abbiamo visto - l’unico uso della tecnica concesso all’uomo è soltanto quello che l’essenza stessa della tecnica moderna gli impone. Se proprio volessimo trovare, in Heidegger, una dimensione etica nel rapporto ira l’uomo e la tecnica, questa andrebbe vista nel rischio supremo al quale l’uomo si espone, affidandosi entusiasticamente a quell’angusto modo di conoscere il mondo naturale che oggi gli viene offerto dall’essenza della tecnica moderna. Ciò, per Heidegger, preclude ogni possibilità di esperire il reale in un modo più originario, cioè nel modo della coappartenenza di uomo e fúsis di pensiero ed essere.

 

Essenza della tecnica e crisi ambientale
L’idea della tecnica come “strumentalità neutrale padroneggiabile dall’uomo” risale a prima di Marx. La ritroviamo nel pensiero illuminista di Diderot e degli enciclopedisti; la ritroviamo in Bacone e in Cartesio che, nel 1637, enunciava, come abbiamo visto, con piena consapevolezza il progetto di conquista del mondo naturale da parte dell’uomo[55].

Questa concezione ha dominato incontrastata (e domina tuttora) la storia dell’Occidente. Ha resistito alla prova di due guerre mondiali e ai numerosi micidiali conflitti del secondo dopoguerra. Anzi queste guerre, con l’aver mostrato gli aspetti bellici “nuovi e tremendi” della tecnica moderna, hanno preparato negli animi l’attesa per gli aspetti di pace “nuovi e meravigliosi”.

Anche la guerra fredda, con la corsa agli armamenti, ha favorito il forte sviluppo della tecnica; così come la coesistenza pacifica, che nella tecnica ricercava lo strumento per la soluzione dei problemi sociali. E dalla tecnica, perfino Marcuse, nel 1967, si attendeva nientemeno che la “fine dell’utopia”, cioè la trasformazione del lavoro in gioco, e ne discuteva a Berlino con Rudi Dutschke e Jurgen Habermas[56].

Ma già la letteratura della “‘Science-fiction”, a partire dagli anni trenta, lavorando sull’”immaginario scientifico e tecnologico” aveva cominciato, a veder chiaro nella direzione verso cui poteva portare la tecnica moderna. E così a fronte dell’ottimismo scientista “alla Haldane”[57], venivano proposti alla riflessione anche temi di complessa decifrazione, come le conseguenze delle manipolazioni genetiche, dell’ esaurimento delle materie prime e delle fonti di energia, della sovrappopolazione, dell’inquinamento, della congestione del traffico, della morte della biosfera e via dicendo[58].

Nel 1972 il Club di Roma lancia l’allarme sull’assurdità dell’ideologia dello sviluppo illimitato, basato sulla estrapolazione all’infinito di una sola esperienza storica (la crescita economica de16% annuo) durata appena un quarto di secolo; criticando la fede, spesso vicina alla superstizione, in una tecnologia moderna capace di fornire i mezzi per produrre a basso costo l’energia e le materie prime per lo sviluppo[59].

Nel 1973 è la crisi energetica - il cui significato reale va ben al di là della mera preoccupazione per l’esaurimento delle riserve energetiche - a dare un primo forte scossone, a livello collettivo, alla fiducia nella continuità della civiltà della tecnica, facendo sorgere il fondato sospetto che questa civiltà, al pari di altre del passato, possa anche estinguersi[60].

Ma è la crisi ambientale degli anni 80 con le sue insidie latenti e le sue ricorrenti catastrofi provocate direttamente o indirettamente dalla tecnica moderna, e con quelle ben più minacciose previste “con scientificità” in un orizzonte di tempo piuttosto ravvicinato, a porre davanti agli occhi di tutti - per la prima volta nella storia - la prospettiva apocalittica, non immaginaria, non religiosa, né bellica di una probabile e imminente fine di ogni tipo di civiltà umana, come conseguenza del diffondersi della tecnica moderna.

Di fronte a ciò, il mondo istituzionale della tecnologia ripropone la sua fiducia nella “strumentalità” della tecnica. Come potrebbe fare altrimenti? Nasce così l’ideologia del superamento dei contrasti fra ambiente e industria, ambiente ed energia, ambiente e tecnica. Anzi la tecnica moderna più avanzata - quella di cui non si conoscono ancora le conseguenze ultime - viene prescritta come “medicina per l’ambiente”. Ambiente e tecnica vengono presi come entità separate da armonizzare, come se esistesse ancora un ambiente non coinvolto dalla civiltà industriale ed una civiltà industriale immune da coinvolgimenti ambientali.

Heidegger aveva già indicato la pericolosità insita nella “concezione strumentale e neutrale” della tecnica, sulla quale si è basato tutto lo sviluppo delle società industriali, mostrando che l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico, bensì un modo imperfetto di conoscere o rapportarsi al mondo naturale, cioè soltanto come “fondo da impiegare”. Nei confronti della prassi capitalista e dell’ideologia marxista, che vedono nella tecnica qualcosa di governabile, Heidegger mostra come sia proprio l’essenza della tecnica moderna il vero soggetto del quale sia la borghesia, sia il proletariato sono soltanto i predicati sociali[61]. Dice Heidegger: “A fronte di queste concezioni per le quali la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo ha nelle sue mani, sta il punto di vista secondo cui la tecnica, nell’essenza, è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare. Tutto funziona; e questo è appunto l’inquietante, che tutto funziona e che questo funzionare spinge sempre verso un ulteriore funzionare e la tecnica strappa sempre più l’uomo alla terra. Non’ so se Lei si è spaventato - dice Heidegger al suo intervistatore nel 1968 -, in ogni caso io lo sono stato appena ho visto le fotografie della terra scattate dalla luna. Lo sradicamento dell’uomo dalla terra è già effettuato, non c’è bisogno della bomba atomica. Tutto ciò che resta non è altro che una situazione puramente tecnica”[62].

Il vecchio ideale del “saper fare” artigianale della tecnica antica si capovolge così nella “coazione a fare” dell’industria moderna, sorretta nel suo operare dal riduzionismo della scienza economica, portando a compimento il progetto di Cartesio di conquista del mondo, del “regnum hominis”, in assenza però del suo legittimo monarca[63].

“Quanto alla filosofia” conclude Heidegger “essa non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale solo per la filosofia, ma per tutto ciò che è mera impresa umana. Ormai solo un dio ci può salvare”[64].

Il pensiero di Heidegger è ovviamente molto più vasto delle sue riflessioni sulla tecnica. Ma è sul tema dell’impensabilità dell’età della tecnica moderna che esso converge. E ciò perché l’espandersi planetario della tecnica moderna costituisce, per Heidegger, il grande ostacolo del nostro tempo a quel raccogliersi del pensiero meditante che, solo, potrebbe rimetterci in cammino verso una direzione alternativa. Quale? Heidegger può indicare soltanto una direzione di marcia, direzione che non è quella della tecnica moderna. Nel non riconoscere l’essenza della tecnica moderna per quello che essa è, cioè “impianto di richiesta” , sta il supremo pericolo per l’uomo, che lo allontana da una conoscenza (un disvelamento) più principiale e lo costringe ad una conoscenza della natura come “fondo per l’impiego” e non più come semplice fúsis.

Nell’individuazione di questo secondo aspetto del pericolo, le meditazioni di Heidegger anticipano ed integrano il pensiero ambientalista, che, in genere, ignora Heidegger[65]. Questo pensiero si sviluppa come riflesso della crisi ambientale, della quale, giustamente, cerca di individuare le cause e di proporre i rimedi. Nel fare questo è necessariamente portato a trattare la crisi ambientale nei termini dell’ecologia, cioè di una dinamica di sistemi esprimibile soltanto attraverso gli strumenti concettuali delle scienze naturali. In Heidegger questo ovviamente non c’è. La sua attualità sta invece nella critica serrata che egli rivolge alla concezione di una tecnica strumentale e neutrale, quindi padroneggiabile dall’uomo[66].

Se l’essenza della tecnica non ha nulla a che fare con la strumentalità e perciò non è dominabile dall’uomo, il non riconoscerlo diviene, come Heidegger non si stanca mai di ripetere, il supremo pericolo per l’uomo e per il mondo naturale; e sottolineiamo “per il mondo naturale”.

In questo senso, il pensiero di Heidegger, ci porta proprio alle radici di un incombente destino, dischiudendoci il significato reale della nostra crisi attuale, tanto più minacciosa, quanto più incompresa e continuamente rimossa, o interpretata soltanto nei termini più rassicuranti del linguaggio scientifico, che impediscono un’intuizione immediata delle conseguenze ultime e probabilmente irreversibili dell’incipiente crisi ambientale.

Il pensiero di Heidegger fa sorgere poi scandalosi interrogativi. Come quello sull’ entusiasmo ottocentesco e sugli “esercizi di ammirazione” che vengono tributati alle tecnologie avanzate e all’innovazione tecnologica in piena crisi ambientale conseguente all’espandersi della tecnica moderna. E’ infatti difficile non riconoscere come l’innovazione tecnologica - nonostante ogni tipo di “valutazione di impatto” o di “Technology Assessment” - resti pur sempre la cieca pu