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Hamburger Usa, gli inferi dell'industria alimentare

di redazionale - 23/07/2007

 
Lo zoom d'apertura del film entra lentamente nella polpa rosa di un hamburger. «C'è merda nella carne», concluderanno le analisi dei vendutissimi pasti pronti di Mickey's, una grossa franchise alla McDonald. A indagare il problema, in Colorado, viene mandato un solare esperto di marketing (Greg Kinnear). Il suo viaggio negli inferi dell'industria alimentare americana si intreccia alle storie di un gruppo di immigrati illegali che lavorano nel mattatoio di Mickey's e di una ragazzina che ne serve il macabro prodotto in un ristorante dai colori allegri e asettici.
Attacco frontale (più onesto e lucido di Babel) ai destini incrociati della globalizzazione e agli effetti del capitalismo nel secondo millennio, il nuovo film del texano Richard Linklater non potrebbe essere più attuale - basta pensare all'empasse della riforma sull'immigrazione in Usa, e al direttore della Food and Drugs Administration cinese giustiziato per corruzione un paio di settimane fa.
Contiene anche due memorabili apparizioni, di Kris Kristofferson (nei panni di un ranchero in via di estinzione) e di Bruce Willis («tutti dobbiamo mangiare un po' di merda prima o poi», è la frase chiave del suo imperdibile monologo)
Adattando l'omonimo best seller di Eric Schlosser pubblicato nel 2001, Linklater fa di Fast Food Nation, traendone un film diffuso, obliquo, «meditabondo», che diffida delle conclusioni facili, come d'altra parte tutti i suoi lavori. Un film di sintonie piuttosto che di partiti presi.
«Non ho mai fatto un film così topico, così esplicitamentre su un soggetto preciso. Sono spaventato. Non voglio fare politica facile o dire alla gente cose pensare», mi aveva detto oltre un anno fa sul set di Fast Food Nation, a Austin. L'intervista che segue è stata realizzata per questo giornale durante l'edizione 2006 del festival di Cannes.

Eri alle prese con un libro molto vasto, piano di dati, di ricerca, come hai deciso, alla fine per queste trame incrociate?
Partire da un libro di non fiction di quel tipo era la sfida più grossa ed è la prima cosa che ho detto a Eric quando abbiamo iniziato a parlarne. Non sono un regista di documentari. E lui mi ha ricordato Sherwood Anderson e Winesburg, Ohio: un piccolo centro in cui si intrecciano le vite di tante persone. In quell'ottica ho cominciato a intravedere una soluzione, ho iniziato a riconoscermi: dopo tutto sono un filmmaker che lavora sul personaggio. E fare un film sui lavoratori dell'industria era una cosa che mi interessava. Ancora di più visto che si trattava dell'industria del cibo, nei confronti della quale coltivo interesse da anni. Una volta trovato un mondo, la cittadina del Colorado in cui abbiamo ambientato il film, abbiamo incominciato a popolarla e a immaginare le storie dei personaggi. Fast Food Nation sarà senz'altro considerato un film «politico» ma per me è la storia di questi lavoratori.

Alcuni dei personaggi del film appaiono anche nel libro, come avete fuso fatti e fiction?
Molti dei personaggi raccolgono in sé un insieme di persone realmente esistenti. Il libro è basato in una realtà precisa e il film ha cercato di lavorare su di essa. Anche se è fiction parla di cose che stanno succedendo veramente: i padroni degli ultimi ranch indipendenti sono minacciati, ci sono enormi pressioni per industrializzare interamente quel settore, i teen agers lavorano in fast food di cui consumano troppo cibo e che progettano di derubare....

Tutti i tuoi film usano le trame dei personaggi in questo modo, lavorando obliquamente su quello che ci sta dietro...
Credo che il cinema sia un medium ideale per trattare un canovaccio a diversi livelli di complessità, guardare dietro alla superficie delle cose - che si tratti di un prodotto che acquisti al supermercato o di un essere umano. Spero che per il pubblico questa non sia soltanto la parabola di una ragazzina che acquista consapevolezza rispetto a un problema ma anche un invito a chiedersi quali sono le storie dietro alle cose. Recentemente una signora mi ha detto che non mangerà mai più il suo hamburger senza pensare al lavoro delle persone che sta dietro quell'hamburger.
Ma è lo stesso per il taxista che ti porta all'aeroporto e con cui passi otto minuti. Com'è la loro vita di immigrati? Ci sono tante narrative... Il fatto è che viviamo in una cultura che non incoraggia nessuno ad andare oltre la superficie della cose. L'efficienza dell'era moderna non incoraggia l'idea di una visione allargata. È orientata verso il prodotto: lo compri e te lo mangi. Tutto è molto veloce.
La Guerra in Iraq ha usato il model fast food per la prima volta nella storia: una guerra senza sacrifici, che costa poco, è facile e dietro a cui non si vede nulla, specialmente i cadaveri americani. Missione compiuta in modo efficiente: in e out. Non ha funzionato come avrebbero voluto ma il modello era certamente quello. Ed è un modello ubiquo.

La sequenza che hai scelto per finire il film, quella del mattatoio, stabilisce un'equazione tra il modo in cui macelliamo gli animali ma anche gli essere umani...
Siamo tutti carne da macello. Intercambiabili. È un sistema di sfruttamento. E, certo, dispiace per la sorte degli animali, la crudeltà che è loro riservata. Ma ci sono anche i lavoratori. È un lavoro spietato. Vogliamo veramente appoggiare una cosa del genere?

Quando hai capito che l'ossatura principale del film sarebbe stata costituita dalla storia degli immigranti messicani?
Abbastanza presto. È intenzionale che la loro trama sia quella che emerge, un po' perché abbiamo trovato il cast adatto, un po' perché emozionalmente è quella che si segue di più. Anche gli americani più poveri, coloro che appartengono agli strati più bassi della classe lavoratrice, come Amber - che è un personaggio importante nel film - sono in una situazione migliore degli immigrati illegali.

Ti aspettavi che da quando hai iniziato a fare il film l'immigrazione diventasse un tema così caldo nel dibattito politico americano e anche nelle strade?
Perché avrebbe dovuto? La situazione è così da sempre. Solo che adesso l'amministrazione ha scelto di farne un problema politico per ragioni opportunistiche. Credo sia facile per uomini politici che vivono in stati non di confine. Sono i peggiori: parlano duro, fanno dichiarazioni drastiche. Ma quando sei in uno stato in cui gli immigrati illegali sono una grossa forza della comunità e dell'economia, come in Texas, non puoi permetterti quelle dichiarazioni.