La nostra società aspetta solo il colpo di grazia
di Massimo Fini - 05/09/2007
Marcello Veneziani scrive che i
giovani d’oggi sono dei fannulloni
che non hanno più voglia di lavorare.
Se così fosse sarebbe
un’inversione di tendenza molto
interessante e feconda. Vorrebbe
dire che ci sono giovani che, pur
cercando, per il momento, di acchiapparne
quel che possono,
non hanno più voglia di sacrificarsi
per un modello di sviluppo
insensato che io ho definito “paranoico”.
E non è certamente un
caso che il pubblico che legge i
miei libri, che non è poco (“Il vizio
oscuro dell’Occidente” ha venduto
più di 200 mila copie) sia formato,
in prevalenza, da giovani
(18-35 anni) e che a teatro, quando
ho dato “Cyrano se vi pare…”,
ci fossero soprattutto giovani.
(...) Il mito del lavoro nasce infatti
con la Rivoluzione industriale razionalizzata
dall’Illuminismo nelle sue
due declinazioni: liberale e marxista.
Ed è presente in entrambe le ideologie:
per Marx il lavoro è “l’essenza del
valore” (non per nulla Stakanov diverrà
un eroe dell’Unione Sovietica),
per i liberal-liberisti è esattamente
quel fattore che, combinandosi col
capitale, dà il famoso “plusvalore”.
Prima il lavoro non era mai stato un
valore ma, come diceva San Paolo,
«uno spiacevole sudore della fronte».
Tanto è vero che è nobile chi non lavora
e contadini e artigiani lavorano
solo per quanto gli basta. Il resto è vita.
In contrapposizione ai “fannulloni”,
di oggi Veneziani ricorda le durissime
fatiche fisiche, il “gettar sangue”
(ma anche le sudate soddisfazioni)
dei contadini della sua terra, la
Puglia, e «l’orrore e il terrore per la
miseria».
Ma il mondo contadino, che Veneziani
ha visto da ragazzo, e che racconta
così bene, ha poco a che vedere
col mondo contadino dell’era
preindustriale. Perché non è che
un’enclave derelitta del mondo industriale
che lo circonda, lo aggredisce,
lo depaupera. Certo “la terra è
bassa” come dicono i contadini. Lo è
oggi e lo era ancor più quando le
macchine agricole non esistevano. E
il sole picchiava spietatamente allora
come ora. Ma non c’era alcun «terrore
della miseria». Perché la miseria
non c’era. Alexis de Tocqueville, uno
dei padri del pensiero liberal-democratico,
di cui Gianfranco Morra è
uno degli infiniti epigoni, ma che conosceva
bene entrambe le esperienze,
quella industriale e quella preindustriale,
nota, con stupore, come il
termine “pauperismo” compaia per
la prima volta nell’Inghilterra degli
anni ’30 dell’Ottocento, cioè nel Paese
più opulento d’Europa impegnato
in uno spettacolare sforzo produttivo
e imprenditoriale. E constata: «Allorché
si percorrono le diverse regioni
d’Europa si resta impressionati da
uno spettacolo veramente strano e
apparentemente inspiegabile. I Paesi
reputati come i più miserabili sono
quelli dove in realtà si conta il minor
numero di indigenti, mentre tra le
nazioni che tutti ammirano per la loro
opulenza una parte della popolazione
è costretta per vivere a ricorrere
all’elemosina». (A. de Tocqueville,
“Il Pauperismo”).
In Inghilterra - sono sempre notazioni
di Tocqueville - un sesto della
popolazione è povera, in Spagna e
Portogallo, ancora all’inizio dell’industrializzazione,
c’è un povero ogni
venticinque abitanti e nella Creuse,
la regione meno industrializzata della
Francia, «ci si limita a un indigente
ogni cinquantotto abitanti».
Ma anche la Spagna, il Portogallo,
la Creuse di quegli anni sono comunque
già attaccati e intaccati dall’industrialismo.
Nell’Europa preindustriale,
la cui popolazione era
composta al 90 per cento da contadini
e artigiani, i mendichi erano l’un
per cento e, in genere, era mendico
chi voleva esserlo (erano i “borderline”,
i disadattati del tempo).
Quando in Europa
ognuno viveva del suo
Come si spiega questo paradosso?
Col fatto che ogni famiglia viveva sul
suo (una metà nelle forme della proprietà,
l’altra in quella di un possesso
talmente illimitato nel tempo da corrispondere
alla proprietà) e del suo.
Scrive lo storico Giuseppe Felloni,
autore di un manuale per le Università,
e quindi del tutto ortodosso,
“Storia economica dal Medioevo all’età
contemporanea”: «In campagna
le terre sono distribuite con criteri
che antepongono l’equità distributiva
all’efficienza economica, mentre
quelle per loro natura inadatte alla
coltivazione (boschi, pascoli, paludi,
eccetera) sono usate promiscuamente
da tutti, ma entro limiti ben
precisi… le terre… per consentire il
libero accesso di quanti usufruiscono
degli usi civici (vale a dire delle
numerose servitù, di spigolatura, di
pascolo, di acquatico, di legnatico, e
via dicendo, che gravano sulla proprietà
e sul possesso privati, ndr) devono
essere lasciate aperte, senza
barriere confinarie». È il regime feudale
delle “terre aperte” (open fields),
un punto di equilibrio, sofisticato e
complesso, fra individualismo e comunismo,
che potremmo meglio definire
come “comunitarismo”, dove
ogni famiglia deve avere il suo spazio
vitale. E lo stesso criterio vale nel
mondo artigiano dove è assolutamente
proibita la concorrenza. Per
due secoli i Tudor e gli Stuart si opposero
ai grandi proprietari terrieri
che volevano recintare i loro campi,
ma poi con la rivoluzione parlamentare
di Cromwell, preludio della democrazia
(e quel Parlamento era
zeppo di grandi agrari, di grandi
mercanti, di banchieri), si ruppero gli
argini e si permise a costoro di recintare
i campi (enclosures), il che consentì
sicuramente di aumentarne la
produttività ma buttò milioni di contadini
alla fame pronti a servire da
carne da macello per le fabbriche
dell’incipiente industrializzazione.
Ed è in questo periodo che compaiono
i braccianti, quelli ricordati da Veneziani,
cioè contadini il cui campo,
per il venir meno delle servitù comunitarie,
non è più sufficiente a sostentarli
e son costretti ad andare a
lavorare, a paga, su quelli altrui.
Aumenta la vita,
cresce la paura
Il mondo economico feudale non
si basava sulla “competizione” ma
sulla “cooperazione”. Sembrerebbe
un sistema ragionevole, umano. Ma
non era razionale. Non era particolarmente
efficiente. E lo abbiamo abbattuto.
Privilegiando la concorrenza
e la competizione spietata che, al loro
estremo limite, ci hanno portato
alla globalizzazione, che esaspera le
disuguaglianze nel Primo e nel Terzo
mondo, e fra questi due mondi, e soprattutto,
acuisce tutti gli stress, le
nevrosi, le depressioni, le sofferenze
psicologiche del vivere moderno.
Certo noi non fatichiamo più come
un tempo, ma poi andiamo a fare
jogging, sudando, da soli, senza un
perché. Se ci sono dei giovani “fannulloni”
che non vogliono più stare a
questo gioco, rovinoso e turpe, ben
vengano. Borgonovo e anche Morra
gettano sul piatto il pezzo forte della
modernità: l’allungamento della vita.
Qui bisogna fare almeno una precisazione.
Tutta la comunità scientifica
emedica ci fa credere, non innocentemente,
che gli uomini dell’età
preindustriale vivessero trent’anni o
poco più. Ma questa è la “vita media”
che non ha nulla a che fare con quella
reale perché sconta l’altissima
mortalità natale e perinatale che lasciava
in vita i più robusti. Il confronto
corretto va fatto con “l’aspettativa
di vita” dell’adulto. Senza addentrarci
in complesse indagini statistiche di
cui abbiamo dato conto ne “La Ragione
aveva Torto?”, cui rimandiamo,
si può dire che l’aspettativa di vita
dell’uomo preindustriale era di
circa settant’anni. Anche padre Dante,
in pieno Medioevo, fissa il «mezzo
del cammin di nostra vita» a trentacinque
anni. E un paio di millenni
prima il salmista della Bibbia dice:
«Settanta sono gli anni dell’uomo».
Sull’aspettativa di vita abbiamo
quindi guadagnato una decina d’anni.
Ma poiché, nonostante tutte le
nostre autoillusioni, la vecchiaia comincia
come allora a sessant’anni
(questo è il termine fissato, per
esempio, dai Romani) come sa
chiunque abbia compiuto questo fatidico
compleanno, ciò significa che
abbia semplicemente raddoppiato il
tempo da vivere in questa età atroce
(“atra senectus” la chiamavano i Latini
che erano meno retorici e più
realisti di noi che crediamo di poter
sostituire le parole - “la terza età” - alle
cose). Ma lasciamo pur perdere un
discorso che sarebbe troppo lungo.
Borgonovo dice che la medicina moderna,
tecnologica, ha consentito di
salvare molte vite, altrimenti inesorabilmente
compromesse, compresa
la sua. E questo è incontestabile. Ma
per una vita che salva questa medicina
miracolistica ne fa morire mille
altre. Di paura. La medicina tecnologica,
con i suoi interventi eccezionali,
ci ha completamente disabituati a
confrontarci con quelli che i filosofi,
quando esistevano ancora, hanno
chiamato “i nuclei tragici dell’esistenza”:
il dolore, la vecchiaia, la
morte. Nella nostra società la morte -
quella biologica e inevitabile, intendo,
ché quella violenta possiamo
sempre sperare di scapolarla - è stata
rimossa. Scomunicata. Interdetta.
Proibita. Dichiarata pornografica. La
morte è il Grande Vizio dell’era tecnologica,
quello che davvero «non
osa dire il suo nome», altro che la pederastia
di vittoriana memoria. Tanto
che non osiamo nominarla nemmeno
là dove parrebbe inevitabile
(nei necrologi c’è scritto di tutto tranne
“è morto”). Ma tutte queste rimozioni,
divieti, verboten, precauzioni,
prevenzioni, autopalpazioni, autoauscultazioni,
sei esami clinici l’anno,
vogliono dire una cosa sola: una
paura della morte, un abbietto terrore
della morte, quale nessuna società
del passato ha conosciuto in questa
misura. E, come diceva il vecchio e
saggio Epicuro, «muore mille volte
chi ha paura della morte». Se quindi
la medicina tecnologica può essere
positiva nei singoli casi, nel complesso
è negativa perché ci fa vivere male,
tutti, quando siamo ancora sani.
Morra mi bolla come un revenant
del Sessantotto, un tardo seguace
della sinistra sia pur critica (Adorno,
Marcuse), un “rivoluzionario al contrario”,
cioè un reazionario. Non capisco
come un uomo dell’acutezza
intellettuale di Morra possa cadere in
simili equivoci. Probabilmente ha
letto solo, voglio sperare, i sunti, necessariamente
semplificatori, che ho
scritto per Libero.
Lasciamo pur perdere le storie
personali (io al Sessantotto ho partecipato
per i primi tre mesi, quelli libertari,
me ne sono andato, schifato,
quando ho visto che si linciava la
gente trenta contro uno).
Io non sono affatto un reazionario.
Sono un Antimodernista, che è cosa
del tutto diversa. Sconfitti nazismo e
fascismo, che erano comunque fenomeni
novecenteschi, noi siamo
tornati a ragionare esclusivamente
con le categorie del liberalismo e del
marxismo, e con i loro derivati, che
sono di origine settecentesca o del
primo Ottocento. Si considerano il
top della Modernità. E in effetti lo sono.
Solo che in questi due secoli, in
cui la storia ha corso a velocità vertiginosa,
la Modernità è molto invecchiata.
Non è più nient’affatto moderna.
E i veri reazionari, “le vecchie
zitelle”, sono proprio i modernisti
che si affidano acriticamente a un
modello che ha fatto il suo tempo e
che invece considerano, talmudicamente,
irreversibile. Sono loro i veri
deterministi.
Considerarmi un reazionario e
nello stesso tempo un pensatore di
sinistra, che è per sua natura progressista,
è quantomeno una contraddizione
in termini. Se la mia critica
si appunta oggi soprattutto sull’industrial-
capitalismo è perché il
marxismo è morto nel 1989 e solo
Berlusconi può credere che esistano
ancora dei comunisti in Occidente.
I problemi aperti
dalla tecnologia
Dice bene Morra quando scrive
che «ogni società nel corso della Storia
risolve alcuni problemi solo nella
misura in cui ne fa nascere altri».
Una volta Paolo Rossi, non il calciatore,
non il comico, ma il grande filosofo
della scienza, mi disse: «La
tecnologia nelmomento in cui risolve
un problema ne apre altri dieci,
sempre più difficili e che non è detto
che, alla lunga, riesca a risolvere». La
tecnologia si pone oggi come un vertiginoso
moltiplicatore di irresolubili
in cui stiamo naufragando tutti. Ma,
a parte questo, è evidente che un
modello che si basa sulle crescite
esponenziali, che esistono in matematica,
non in natura, il giorno che
non potrà più espandersi, né verticalmente,
producendo oggetti sempre
più inutili, né orizzontalmente,
conquistando nuovi mercati, imploderà
su se stesso. Questo Morra lo sa
come tutti i Morra della Terra. Ma
preferiscono tapparsi gli occhi e le
orecchie, come le scimmiette dell’apologo.
Questi stanno tagliando il ramo
su cui sono seduti. Se fossi su un
altro albero - poiché non sono buono
- riderei a crepapelle. Ma poiché sono
sullo stesso ramo urlo. E, con
buona pace di Morra, in Italia sono il
sono a farlo o quasi (in Francia ci sono
Latouche, De Benoist e altri, negli
Stati Uniti ci sono le correnti di pensiero
del bioregionalismo e del comunitarismo,
nel nord Europa l’ambientalismo
radicale scandinavo che
non ha nulla a che vedere con i nostri
Verdi).
E non sono per un ritorno al passato
che, come sempre si dice, non si
può mai ripetere nelle stesse forme.
Sono piuttosto per recuperare alcuni
suggerimenti che ci vengono dal passato
per andare oltre il presente. E
non mi riferisco al tanto strombazzato
filone giudaico-cristiano che, con
la sua idea di progresso lineare, ci ha
portato, attraverso varie mutazioni e
completamente desacralizzandosi,
al punto in cui siamo. Ma al pensiero
greco, che pur è all’origine della nostra
civiltà, che aveva, fortissimo, il
senso del limite. Molti miti greci battono
su questo punto e sul Tempio di
Delfi stava scritto “Mai niente di
troppo”. Ecco noi, in Occidente, col
nostro delirio di onnipotenza, abbiamo
perso proprio il senso del limite.
So bene che l’uomo è natura e cultura,
che questa è la cifra che ci distingue
dagli altri esseri viventi. Ma la
componente culturale, artefatta, artificiale,
virtuale ha preso dimensioni
enormi, tali da schiacciare quasi
completamente quella naturale e
istintuale. Ed è uno dei motivi, non
ultimo, per cui viviamo male. Quel
che propongo è un riequilibrio fra
questi due elementi, entrambi essenziali,
della natura umana. Un progetto,
come si vede, riformista.
E non sono io ad avere certezze,
tanto meno moralistiche. Sono stati
altri a proclamare che l’Occidente è il
Bene Assoluto, detentore di valori
universali, i suoi, che si chiamano “libertà,
democrazia e libera impresa”.
Sono stati altri ad affermare che la
democrazia, questo sputo che ha appena
due secoli di vita, è il fine e la
fine della Storia. Non sono io il totalitario.
Ma resto un reprobo. Oppure
quando si vuole essere gentili, un
“provocatore intelligente”, che è un
modo elegante per non rispondere
alle mie domande. E va bene, continuate
pure così. Io sto, da tempo, da
un’altra parte.
«Corre, corre la “società del benessere”,
col suo sole in fronte e le sue
inattaccabili certezze, e, come un toro
infuriato, non si rende nemmeno
conto, mentre già gronda sangue,
che, in ogni caso, al fondo, non più
tanto lontano, della strada delle crescite
esponenziali l’aspetta la spada
del matador» (Il Giorno, “Cause perse”,
21 luglio 1988)

