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La neo-etica che vuole abolire le donne

di Enrico Nistri - 18/09/2007

Fonte: Il Secolo d'Italia

In molti documenti dell’Unicef è

utilizzata la locuzione “diritti

riproduttivi”. Tale espressione

non indica, come parrebbe evidente,

il diritto della madre a partorire in

condizioni di sicurezza e a sfamare i

suoi figli, ma la libertà di aborto. La

gravidanza, del resto, è considerata

da importanti agenzie internazionali

come la Banca Mondiale e l’Organizzazione

Mondiale della Sanità

una malattia come il tifo o la poliomielite,

visto che entrambi questi

enti hanno investito miliardi di dollari

nella ricerca di un vaccino antifertilità.

A partire dal 2004 nella maggior

parte degli statuti delle Regioni italiane

si è fatta largo l’espressione

“parità di genere”. Questa locuzione,

che ancor oggi viene percepita dai

profani come una variante del concetto

di “pari opportunità”, esprime

una concezione alternativa a quella,

tradizionale, di parità fra i sessi. Il

concetto di genere parte dal presupposto

che la natura umana sia fondamentalmente

androgina e che ciascun

individuo debba essere libero di

scegliere fra almeno cinque orientamenti

sessuali diversi: maschio, femmina,

omosessuale maschio, omosessuale

femmina e transessuale.

Nel gergo neofemminista, travasato

nel linguaggio di importanti organizzazioni

internazionali come l’Unicef,

si è fatta strada l’espressione

girl-child, mal traducibile in italiano,

che sta a indicare non una bambina

piccola, ma una bambina indotta dai

condizionamenti familiari e sociali

ad assumere comportamenti tipicamente

femminili. Tale termine nasce

dalla convinzione che non esistano

in natura inclinazioni maschili o

femminili, ma solo stereotipi prodotti

dalla cultura, e che compito della

controcultura femminista – sostenuta

dal “braccio secolare” delle organizzazioni

internazionali – sia favo-

comportamenti, se necessario procedendo

ad “azioni compensative” a

presunto beneficio delle bambine.

Nel gennaio del 2000 una delle più

potenti organizzazioni femministe

internazionali, la Cedaw (Convention

on the Elimination of all Forms

of Discrimination against Women),

ha criticato la Bielorussia per la

“prevalenza al suo interno di stereotipi

legati ai ruoli sessuali, come

esemplificato dalla reintroduzione di

simboli come la Festa della Mamma”.

Nei paesi anglosassoni si sta

diffondendo l’uso di sostituire nella

datazione di un evento anteriore alla

nascita di Cristo la formula B. C.

(equivalente al nostro A. C.) con la

sigla B. C. E. L’aggiunta di una lettera

può sembrare un dettaglio, ma in

realtà esprime un ben preciso disegno

ideologico. Se infatti B. C. sta per

Before Christ (Avanti Cristo), B. C.

E. sta per Before the Common Era,

“prima dell’era comune”. L’espressione

non significa nulla, ma toglie

dalla datazione ogni riferimento al

Cristo, che agli occhi di molte femministe

ha il torto di essere un

maschio.

Esempi come quelli finora elencati

confermano un fatto a suo tempo

intuito da Orwell: la capacità della

sinistra d’impegnarsi nella battaglia

delle parole per vincere la guerra delle

idee. È una strategia in cui, mezzo

secolo fa, i vecchi partiti comunisti

erano maestri, con la loro capacità di

colonizzare il linguaggio influenzando

il modo di parlare e poi di pensare

degli stessi benpensanti. Se gli anni

Settanta videro la fortuna di alcune

espressioni chiave (“democratico”,

“territorio”, “momenti aggreganti”),

negli anni Ottanta una sinistra in

fase difensiva si è affidata alle tecniche

sottili dell’eufemismo, con

“socialismo reale” e “stalinismo”

imposti in luogo del termine corretto,

“comunismo”.

Gli ultimi tre lustri, invece, hanno

visto svilupparsi un tentativo senza

precedenti di cambiare la stessa percezione

della natura umana. Un tentativo

tanto più insidioso perché condotto

attraverso le maggiori organizzazioni

sopranazionali, dall’Onu

all’Unione Europea. L’alleanza fra

catastrofismo ecologista, terzomondismo

antioccidentale e neofemminismo

“di genere” punta da oltre dieci

anni al controllo dell’etica. Per

ottenerlo si avvale di potenti strumenti

di pressione, ora ponendo il

veto alla nomina di commissari

europei responsabili di ritenere l’omosessualità

un peccato, ora minacciando

i governi le cui legislazioni in

materia di aborto non sono abbastanza

permissive, ora pretendendo

di censurare i libri di testo colpevoli

di utilizzare stereotipi “sessisti” o di

non dare sufficiente risalto alle figure

femminili nell’arte o nella storia.

Bersaglio primario di questa campagna

è naturalmente la religione cristiana,

in particolare la Chiesa cattolica,

colpevole di difendere una concezione

dell’uomo e della donna

incompatibile con ogni sorta di

manipolazione ideologica. Non a

caso il femminismo radicale esalta la

stregoneria, offende sistematicamente

la figura di Maria di Nazareth,

propugna una nuova religione panteistica

fondata su una banalizzante

riedizione del culto della dea madre.

Il modo con cui il femminismo

antagonista sta cercando negli ultimi

decenni di utilizzare le legittime

istanze femminili per scardinare gli

archetipi sociali occidentali realiz-

zando una nuova egemonia culturale

è stato puntualmente analizzato da

Alessandra Nucci nel suo saggio La

donna a una dimensione (Marietti

1820, Genova-Milano 2006, pp. 256, €

18): riflessione acuta, stringente,

documentata sul processo di indottrinamento

e di coercizione psicologica

e a volte giuridica attraverso il

quale una minoranza organizzata sta

operando un’operazione di manipolazione

collettiva senza precedenti.

La Nucci, già “femminista ribelle”

convertitasi alla fede, direttrice del

settimanale cattolico “Una voce grida”,

continua ad accettare il femminismo,

se con questo termine, secondo

l’insegnamento pontificio, s’intende

la difesa dei diritti della donna,

non il tentativo di stravolgerne il

ruolo e la natura. Il suo libro può

essere letto come un lungo viaggio

attraverso le aberrazioni ideologiche

e pseudoscientifiche del terzo millennio;

e basterebbero solo alcune

delle notizie in esso contenute (e in

larga parte sconosciute al pubblico

italiano) per renderne utile la consultazione.

Si va dal caso patetico di

“Brenda”, un bambino che un medi

co statunitense cercò di condizionare

a sentirsi una femminuccia, senza

per altro riuscirvi, all’aberrante

Convenzione sui diritti dei bambini

varata dall’Unicef, che prevede per

loro “il diritto di frequentare chiunque

vogliono”, di “vedere, sentire o

leggere qualunque cosa desiderino”

e di “rifiutare qualunque insegnamento

religioso”. Si spazia dalle

organizzazioni internazionali che in

occasione di calamità distribuiscono

pillole abortive più che medicinali

alla presidente della maggiore organizzazione

femminista statunitense

che ha definito la politica demografica

cinese – fondata sull’obbligatorietà

dell’aborto dopo il primo figlio –

“la più intelligente del mondo”.

Al di là di questa tragicomica rassegna

di aberrazioni, La donna a una

dimensione si presta a una lettura

più sottile, come denuncia di un nuovo

totalitarismo risorgente dietro

apparenti stravaganze lessicali.

Come osserva l’autrice, tipica del

totalitarismo è la pretesa di modificare

in profondità la natura umana,

di creare l’uomo (o in questo caso la

donna) nuovo; pretesa supportata

dalla convinzione, tipicamente

marxista, che tutti i comportamenti

siano un prodotto dell’ambiente

materiale. Ma questa concezione è

ora funzionale a una società ipercapitalistica,

interessata a integrare il

più possibile la donna nei meccanismi

del consumo e della produzione,

non solo allontanandola dalla famiglia,

ma facendole detestare la maternità.

Il tutto inserito nella politica

antinatalista perseguita da alcune

grandi lobby internazionali in collusione

con certo ecologismo oltranzista

incline a considerare l’uomo un

pericoloso intruso all’interno del pianeta.

Le femministe antagoniste, che

propugnano il riscatto della donna

da una millenaria servitù, mirano in

realtà – osserva l’autrice - alla

“costruzione di una donna artificiale,

apertamente indottrinata alle

rivendicazioni di genere e strumentalizzata

per costruire una società

fatta di atomi isolati e di opposti

antagonismi, società bisognosa di un

governo forte, benevole, educatore,

mondiale”. Un libro all’apparenza

conservatore presenta così una

valenza rivoluzionaria che in pochi

hanno percepito: la “donna a una

dimensione” denunciata dalla Nucci

ha forse più dell’uomo unidimensionale

di Marcuse i suoi buoni motivi

per ribellarsi a una società che sfrutta

anche la sua volontà di emancipazione.