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Cuori violenti. Un viaggio nella criminalità giovanile

di Marco Managò - 21/09/2007

Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, in questo volume pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli Editore, riporta alcune interviste effettuate a ragazzi ospiti di comunità e di carceri, al fine di sviscerare le origini, le cause e le possibili vie d'uscita da tale piaga giovanile.
L'autore, attraverso interviste e testimonianze dirette, delle quali preserva l'anonimato con nomi di fantasia, offre un quadro davvero sconcertante, in cui emergono immediatamente le responsabilità collettive e individuali.
Una comunità nazionale che poco si interroga, è, altresì, indolente all'introspezione; si affida al possesso materiale e alla “collezione di oggetti” (testuale), in cui la genitorialità è delegata o rinunciata e abbandona i figli a un vuoto presente e futuro. Poche speranze sussistono per un eventuale recupero.
Quale gagliarda gioventù... oppressa dall'indifferenza, dall'assenza di valori, di speranze e di futuro, distante anni luce, credo, da quella povera ma autentica e solidale dei loro nonni e dei loro bisnonni.
Si tratta di un saggio ben strutturato, che non vuol essere un tedioso manuale di intervento sociale con le classiche tiritere sui peccati di gioventù, ma un mezzo intelligente per riflettere su particolari meno conosciuti e affrontati.
Il primo caso che l'autore pone al centro delle proprie valutazioni è quello di una diciassettenne pugliese, rinchiusa in un carcere minorile dopo aver sconvolto la provincia foggiana con le sue rapine. L'attenzione è riposta innanzitutto nel personaggio, una ragazza sicura, annoiata di ciò che la circonda, intenzionata a parlare di sé, ostentando un linguaggio avulso da inflessioni dialettali per rendersi scevra da ogni provincialismo. Ricorda la fanciullezza, la gioia provata nel recarsi a trovare il padre in carcere ed essere felice proprio per l'opportunità di vederlo. Nel suo racconto emerge la consapevolezza di aver scelto autonomamente la vita scellerata, disordinata e violenta, senza condizionamenti esterni, anche se la condizione di carcerato, per il padre e i fratelli della ragazza, non può costituire un ambiente asettico.
La vera trasgressione, conferma la ragazza, sarebbe stata quella di completare gli studi, di sposarsi, ma l'anima ribelle, che sentiva in sé, la spingeva al rischio, alle avventure pericolose. La sua vita quotidiana era costellata di droga, spaccio e furti, ben lontana dall'ordinario delle sue compagne di classe, con le quali non si riconosceva più avendo bruciato le tappe della crescita in maniera esagerata.
A destare sorpresa è la carica di adrenalina ed emozioni che la giovane conferma di aver provato in ogni rapina, una piena di eccitazione poi sublimata in un benefico rilassamento generale. Una sorta di droga, come quella realmente provata e in grado, conferma ancora, di riempire i vuoti e la noia dell'esistenza. Il pericolo maggiore per le attuali e le prossime generazioni è proprio in quel vuoto che non augurerebbe a un'eventuale figlia.
Arrestata in un'ultima rapina nella quale era quasi tramortita dagli stupefacenti, la ragazza schernisce la stampa, rea di aver elaborato titoloni e nomignoli eccessivi pur di vender copie. Se da un lato tale esagerazione potrebbe condurla a una condanna più pesante, sull'onda dell'eccitazione mediatica e popolare, dall’altro sa che può conferirle una veste da leggenda.
Il secondo colloquio che viene presentato è quello con una fiera ragazza nomade (arrestata per rapina), segnata nel destino, anche a livello sentimentale, dalle decisioni paterne, ma non per questo meno orgogliosa di appartenere alla sua comunità. Spiega di come un'altra situazione sia impossibile, di come non possa legarsi a un italiano proprio perché in quel caso dovrebbe rinunciare alla natura di rapinatrice, insita nel dna rom. Forte della dignità delle donne zingare, chiarisce quanto il prezzo pagato dal suo pretendente sia stato alto proprio per le capacità furtive possedute e per la giovane età, variabili di prezzo non trascurabili.
La giovane si concede anche una critica al panorama italiano, allo scivolare verso una criminalità efferata e una indifferenza dilagante.
Se il rubare è stato anche per lei, inizialmente, una fonte di energia ed emozione, ora ne descrive l'assuefazione e l'abitudine, interrotte soltanto dal rammarico di dover, a volte (evento raro perché scientificamente preventivato ogni "intervento"), derubare un povero pensionato anziché un benestante.
L'autore, nel suo viaggio tra le comunità, coglie anche il ruolo degli educatori, di coloro che si impegnano per assicurare il rispetto dei ruoli e dei tempi, per costruire un tessuto sociale e comunitario che compensi il vuoto di quello familiare e assicurare, così, il senso di appartenenza al gruppo.
In occasione di una visita, Crepet nota quanto il suo arrivo abbia sconvolto un ragazzo ospite, vittima di attacchi epilettici; si genera, così, un piccolo rimorso per aver provocato tale disagio e, al tempo stesso, una notevole sorpresa per aver scalfito tempre che si credevano decisamente invulnerabili dopo esperienze d'ogni tipo.
A contatto con tali imberbi criminali e con le loro storie si apprende anche il gioco delle parti tra le organizzazioni malavitose, il rispetto per i ruoli e per la gerarchia, il senso dell'onore, del non tradire e l'aprioristica tutela di donne e bambini.
A proposito delle comunità e delle carceri Crepet spiega: “...in questo piccolo avamposto di rettitudine in un mondo decomposto dal degrado etico e sociale si misurano i limiti di un intervento pedagogico e riabilitativo nella cui progettualità sconfitta e frustrazione sono implicite, scandiscono solo la punteggiatura di un'odiosa grammatica quotidiana”. E aggiunge: “...è una minuscola utopia impiantata in un deserto, rispetto alla quale lo Stato e tutti noi siamo miseramente latitanti ed estranei”.
Interessante anche il colloquio con un umile e giovane frate a contatto fra le comunità di recupero, asserragliato in un curioso convento di vagoni ferroviari in disuso. Egli stesso ha provato il disagio giovanile, l’indifferenza regnante, la necessità di farsi largo a gomitate tra la gente per poter sopravvivere e, infine, la scelta, osteggiata in famiglia, di seguire Gesù e di farsi finalmente membro di una comunità senza l'obbligo di dover qualcosa a qualcuno. Il frate è chiaro: “...credere in qualcosa è proprio quello che manca a questi ragazzini: non hanno futuro, sanno di non poterlo avere e allora cercano di comprarsi il presente, la motocicletta, la scarpe buone, il ristorante. Non hanno avuto niente, né educazione né affetti, solo qualcuno che compra il loro tempo strappandolo ai giochi per farli diventare dei piccoli delinquenti”.
L’ultimo incontro, davvero “istruttivo” per ciò che riguarda il mondo della criminalità organizzata, è con un certo Gabriele, di Bari, un ex mito della delinquenza locale, ormai dedito ad altre attività, lavorative e di volontariato. Una figura che conosce ed è conosciuta in città, in grado di fornire dettagli sullo stereotipo del giovane criminale: un ragazzo privo di valori, slegato da qualsiasi valido legame familiare, in cerca di riconoscimento sociale attraverso atti efferati e impressionabili per le nuove leve.
I media che amplificano la cronaca (per un ritorno di natura finanziaria), a volte contribuiscono alla consacrazione del mito criminale; lo sa bene Gabriele, il cui inganno, in giovane età, ai danni di un carabiniere che lo cercava, è stato indirettamente esaltato dalla stampa e ha determinato la definitiva investitura criminale nel territorio, meritoria del rispetto degli altri delinquenti. Un particolare espresso da Gabriele, comune a tutti gli altri intervistati, è il netto rifiuto per qualsiasi eventuale imitazione di carriera delinquenziale da parte dei propri figli.
Gabriele snocciola il suo passato e ricorda le battaglie sostenute in carcere, prima violente, poi più misurate, per ottenere semplici diritti. La sua vocazione di capopopolo si era già palesata da ragazzo, quando, afferma significativamente lui stesso: “Era il quartiere che non riusciva a farmi lavorare. Era già scattato quel meccanismo per cui per me andare a lavorare, agli occhi della gente del San Paolo, voleva dire rinnegare una scelta, deludere un'aspettativa. Anche se allora la situazione non era quella di adesso, ora questi meccanismi sono ancora più forti...”.
Ora l’associazione di volontariato che gestisce, cerca di riscattare molti giovani dalla strada nonostante l'assenza di un contributo pubblico, a dispetto del business creatosi per il recupero dei giovani criminali. La corruzione riscontrata nei pubblici amministratori, aggiunge, sembra rivaleggiare con quella affiancata per anni per le strade e in carcere. L’autore conclude ricordando questo suo viaggio, poco programmato, con incontri anche casuali, in cui ha dismesso i propri panni e il proprio ruolo scientifico e ha meglio apprezzato il disagio giovanile, di un esercito di ragazzi con poche prospettive di lavoro, al quale si inviano bombardanti messaggi consumistici difficilmente soddisfabili.
“Il nostro mondo di adulti mi sembra sempre più popolato da tanti Don Chisciotte che tentano pateticamente di negare e di nascondere i fantasmi che essi stessi hanno creato”. Aggiunge: “Questa società non ama i suoi ragazzi. Noi adulti pensiamo spesso l'adolescenza come un'età che deve passare il più in fretta possibile, perché fa paura, perché è lo specchio su cui si riflette tutto quello che non siamo riusciti a costruire...”.
Il rammarico più grande credo sia proprio in questo scadimento vertiginoso dei valori e delle mentalità che, storicamente, non appartiene al popolo italiano ed è forse frutto di scimmiottamento esasperato, di una dittatura dell'esteriore di nuova importazione.