Normalizzare la donna è fra le più persistenti fantasie umane. In uno dei miti più antichi, il Dio-Figlio, Marduk, getta una rete di ferro sulla Grande Dea, per costringerla a star ferma (la mobilità femminile inquietava anche allora), ma anche per vederla bene, per “prenderne le misure”. Aspirazione viva tutt’oggi, tanto che il governo spagnolo ha riempito le piazze di apposite cabine, dove le donne sono appunto invitate a mettersi in mutande e reggiseno, per farsi misurare.
Non si tratta di una fantasia esclusivamente maschile: anche alle “donne d’ordine”, come sono a volte le ministre, l’inafferrabilità ed il mistero femminile dà sui nervi. Infatti la ricerca, lanciata dal governo, è però realizzata da una donna, Angelas Heras, direttrice dell’Istituto Nazionale del Consumo. L’obiettivo, ha detto «è quello di promuovere un ideale di bellezza sana», in un Paese dove l’anoressia colpisce mezzo milione di persone, in gran parte donne.
Si vuole arrivare a taglie unificate per legge, calcolate sulla media delle misure delle donne, tagliando fuori le taglie troppo mini, che indurrebbero l’anoressia. Questi gli obiettivi dichiarati, quelli consci. Difficile però non vedere dietro l’iniziativa dell’iper razionalista governo Zapatero, nemico delle differenze al punto da aver sostituito le parole padre e madre con l’espressione genitore 1 e genitore 2, la realizzazione dell’antica fantasia di sferrare un colpo mortale al mistero del femminile, che con la sua persistenza scompagina i piani di un perfetto egualitarismo sessuale.
Dal punto di vista psicologico, l’idea di misurare le donne in piazza per vedere come sono veramente fatte, rivela una curiosità, ed anche un’ingenuità, piuttosto infantile. Le forme femminili hanno poco a che vedere, almeno psicologicamente, con la media dei centimetri del seno, o del sedere. Il corpo della donna viene percepito, non misurato, sia da chi ce l’ha, che da chi ci entra in relazione. C’entra l’intuizione, l’immaginazione, la fantasia, non i centimetri.
Quella che gli psicologi chiamano l’immagine corporea, e cioè come uno si vede, ha poco a che vedere con quanto misura. Una donna tendenzialmente anoressica si sente comunque grassa, anche se indossa una misura minima, di quelle che Zapatero vuole abolire. E se non la troverà più nei negozi, metterà al lavoro sartine, mamme e zie, per farsi stringere lo stringibile, trovato fra le misure disponibili.
Dietro questa campagna poi c’è una visione mercantile dell’anoressia, come se fosse una questione di moda, o di pubblicità. Mentre è, purtroppo, qualcosa di ben più profondo, che risale indietro alle prime esperienze con la madre, al rapporto che lei stessa aveva col suo corpo, a come tu sei stata alimentata dopo la nascita, come sei stata accolta sul corpo materno nel quale eri stata fino ad allora…
Altro che cabine e centimetri governativi per farti misurare sulla pubblica piazza. Dietro quella malattia c’è un mistero che affonda invece nell’intimità più profonda di molte donne, nella loro originariamente ferita relazione col femminile. Non certo qualcosa che misurazioni di massa e leggi coercitive possano svelare, o riparare.
Anzi. Ogni anoressica, in fondo, lotta, a suo modo, contro la riduzione della donna a cosa, a materia. Il cibo viene rifiutato appunto perché è materia, con la quale quel tipo di donna non vuole avere a che fare, come dimostrano le biografie di molte sante, nella loro tensione verso il puro spirito. Misurarla con un centimetro equivale a dirle: sei una cosa, un oggetto, misurabile. Col rischio che non mangi mai più.
da “Il Mattino di Napoli”