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L’identità non deve essere un ghetto

di Alain de Benoist - 07/10/2007

 

I. La maggior parte degli strumenti concettuali ai quali si fa ricorso per parlare dell’identità

individuale possono agevolmente essere trasposti per parlare delle identità collettive. La

ragione di ciò sta nel fatto che i gruppi sono anche degli organismi singoli, ed inoltre che

l’identità personale del soggetto si costruisce anch’essa in rapporto alla società. In ciascuno,

identità individuale e collettiva sono quindi indissolubilmente mescolate.

Nessuno realizza da solo il proprio destino. Non si può quindi assolutizzare l’individuo come

un oggetto a sé stante. L’essere dell’umano non si limita al topos dell’individuo, ma si

estende all’ambito comune che contribuisce a costituirlo. L’esistenza umana è prima di tutto

estensione verso l’esterno (si veda la nozione di Ausser-sich-sein in Heidegger). Per sapere

chi si è, si deve già sapere dove ci si tiene. La stessa corporeità, come aveva ben visto

Merleau-Ponty, è sintesi di un corpo e di un ambiente sociale. Allo stesso modo, la

cittadinanza implica immediatamente la concittadinanza: la cittadinanza non è un attributo

dell’individuo, è l’attributo del concittadino. La piena definizione dell’identità di un

individuo rende perciò necessario fare riferimento al suo contesto di vita, allo spazio che egli

condivide con altri, perché è in funzione della percezione che ne avrà che egli si

autodefinirà. Il gruppo assegna sempre all’individuo una parte della sua identità, non

foss’altro che per il tramite della lingua o delle istituzioni. Non si può mai definire un Io o un

Noi senza riferirsi ad altri estranei a quell’Io o a quel Noi.

Per dirla in altri termini: a partire dal sé vi è un’esistenza, ma non vi è identità partendo

soltanto dal sé. L’identità è certamente ciò che dà un senso all’esistenza, ma poiché l’esistenza

non è mai puramente individuale, la questione dell’identità riveste necessariamente una

dimensione sociale. Anche l’identità giuridica di un individuo non si limita al suo stato civile

ma si trova ad essere legata, nel corso della sua esistenza, a molteplici tipi di contratto (di

matrimonio, di lavoro, ecc.) parzialmente definiti dal diritto ma soggetti anche all’evoluzione

della legge e dei rapporti sociali. Il concetto di persona, infine, può avere senso solo in

rapporto a un’antropologia. Per questo l’identità non può essere pensata se non in un

contesto di socialità. L’identità non si costituisce in disparte, partendo dal soggetto stesso, ma

sulla base di una relazione con l’identità degli altri.

L’identità non si riduce neanche alle identificazioni. Studiarla come tale, in maniera statica,

significa già reificarla. Per comprendere l’identità nella sua realtà dinamica, bisogna

intenderla come un processo permanente, che non si colloca solamente all’interno del gioco

delle identificazioni del soggetto ma anche in quello delle pressioni o delle influenze esterne

che egli subisce. Per l’individuo così come per il gruppo, l’identità implica sempre un

andirivieni fra il sentimento interiore e lo sguardo esteriore. Il motivo è che esistono sempre

due dimensioni dell’identità del soggetto: quella che fa di lui un soggetto singolare e quella

che ne fa un soggetto di socievolezza. Il rapporto con l’altro è dunque sempre elemento

fondante dell’identità nella quale il soggetto trova un sostegno nell’esperienza simbolica della

socievolezza.

Il rapporto con l’altro, ovviamente, può essere empatico oppure ostile. Giovanni Sartori non

ha torto, da questo punto di vista, quando sottolinea che «l’alterità è il complemento

necessario dell’identità: noi siamo ciò che siamo, nel modo in cui lo siamo, in funzione di ciò

che non siamo e del modo in cui non lo siamo». Tuttavia, anche un rapporto ostile è prima di

tutto un rapporto. Marcel Mauss, viceversa, che lo stesso dono mette in gioco l’identità,

perché «non si riduce a donare qualcosa a qualcuno» ma «consiste nel donarsi a qualcuno

tramite la mediazione di qualcosa». È per questo che il dono si costruisce attraverso una

reciprocità. Il dono fatto a qualcuno che non viene considerato in grado di renderlo è un

dono che non riconosce l’identità di chi lo riceve. Ci troviamo, in questo caso, al centro della

problematica del riconoscimento.

Siamo però anche al centro della questione dell’identità, giacché ogni identità, ogni coscienza

identitaria, presuppone l’esistenza di un altro. (Robinson, sulla sua isola, non ha identità. Ne

acquisisce una solo con l’arrivo di Venerdì). Le identità si costruiscono tramite l’interazione

sociale, cosicché non esiste identità al di fuori dell’uso che se ne fa in un rapporto con gli

altri. Lo stesso accade con l’identità etnica, che non è mai puramente endogena ma «si

costruisce fra la categorizzazione da parte degli altri e l’identificazione in un gruppo

particolare» (Alain Policar). Essendo l’identità la nostra lingua caratteristica, ogni lingua

implica un dialogo, e il dialogo a sua volta comporta una possibile componente di

conflittualità, nella misura in cui è un confronto.

Ogni identità è dialogica. Il che significa che soltanto partendo dalla propria identità

dialogica l’Io può diventare autonomo. Ma ciò significa anche che l’altro fa parte della mia

identità, dal momento che mi consente di completarla. L’individualismo concepisce il

rapporto con l’altro esclusivamente in un’ottica strumentale e interessata: l’unica

giustificazione del rapporto sociale consiste nel fatto che esso accresce il mio interesse o il

mio sviluppo immediato. In un’ottica comunitarista, viceversa, il rapporto sociale è

costitutivo del sé. Come scrive Charles Taylor, l’altro è anche «un elemento della mia identità

interiore». Il gruppo, come l’individuo, ha bisogno di confrontarsi con degli «altri

significativi». Ritenere che l’identità sarebbe preservata meglio senza questo confronto è

dunque un nonsenso: al contrario, è il confronto ciò che rende possibile l’identità. Un

soggetto diventa tale solo grazie ad altri soggetti. Per questo occorre stabilire, nel contempo,

che non si può rispettare l’appartenenza degli altri se non ci si fa carico della propria e che

non ci si può far carico della propria se non si rispetta quella degli altri.

Pierre Nora ha fatto notare che, con una simultaneità rivelatrice, più i referenti identitari

scompaiono, più l’idea d’identità si trasforma in un concetto collettivo, una forma collettiva

di definizione di sé. Certamente non è un caso. L’identità collettiva è nel contempo una

totalità e una combinazione. È ciò che permette di ri-conoscersi e di ri-prodursi, anche nel

cambiamento. È il luogo stesso di produzione della semantica sociale.

II. Un errore molto comune consiste nel definire l’identità come un’essenza fondata su

attributi intangibili. L’identità non è un’essenza o una realtà statica. È una sostanza, una realtà

dinamica, e in quanto tale costituisce un repertorio. Non essendo un dato omogeneo,

continuo, univoco, può essere pensata solo in una dinamica, una dialettica, una logica della

differenza che deve sempre confrontarsi con il cambiamento.

L’identità non afferma soltanto la singolarità né la persistenza di tale singolarità. Prendere in

considerazione l’identità sulla base della nozione di continuità porta infatti a percepirne

rapidamente i limiti: la continuità include anche il cambiamento, così come la definizione di

sé implica il rapporto con l’altro. «Quel che noi siamo non può mai esaurire il problema della

nostra condizione, perché siamo sempre cangianti e in divenire», sottolinea Charles Taylor.

Ciò vuol dire che siamo prima di tutto quel che siamo diventati, e che su tale base ci

proiettiamo verso il futuro. Non esiste quindi identità senza trasformazione; l’importante è

non considerare questi due termini contraddittori. Comparazione organica: per quanto

lontano io risalga nella mia esistenza, il mio corpo è sempre stato il mio corpo, eppure tutte le

cellule che lo compongono sono state rinnovate varie volte. Non diversamente accade con le

culture e i popoli. L’idea giusta non è che i popoli restano “sempre gli stessi” passando

attraverso i cambiamenti e le mutazioni spesso formidabili che toccano la loro storia, ma che

hanno una capacità specifica di cambiamento. La permanenza non è dunque tanto

nell’identità quanto nell’istanza che definisce e attribuisce tale identità. L’identità non è quel

che non cambia mai, ma anzi quel che ci permette di cambiare sempre senza mai cessare di

essere noi stessi.

Paul Ricoeur fa su questo punto una giustissima distinzione tra l’identità idem e l’identità

ipse, la «mêmeté» e la «ipséité». La permanenza dell’essere collettivo attraverso cambiamenti

incessanti (identità ipse) non si riduce a ciò che appartiene all’ordine della ripetizione

(identità idem). La vera identità non appartiene all’ordine del Medesimo, che è un ordine

delle cose, ma a quello dell’ipseitas, che definisce immediatamente lo status del vivente.

L’ipseitas corrisponde al valore differenziale. L’identità è ciò che preserva l’ipseitas

attraverso i cambiamenti.

Inoltre, l’identità ha sempre una molteplicità di sfaccettature, per la semplice ragione che, se

l’esperienza comune rimane il motore delle società umane, neppure tale esperienza è mai

unidimensionale (da ciò il «politeismo dei valori» di cui parla Max Weber). Ciascuno di noi

ha molteplici appartenenze (linguistiche, culturali, nazionali, politiche, professionali, sessuali,

ecc.), che non sono necessariamente sempre conciliabili.

L’ideologia della modernità pretende che l’identità dipenda esclusivamente dalla scelta

personale: non si nasce questo o quello, lo si diventa in funzione delle proprie scelte. Ciò è

nel contempo vero e falso. Sin dalla nascita vi è, come abbiamo visto, un già-là, un retroterra

che costituisce il contesto della costruzione di sé, ma quel già-là non ha la forza costrittiva

che taluni gli attribuiscono. Inversamente, esiste un libero arbitrio, ma esistono anche limiti a

quel libero arbitrio. È un modo come un altro di dire che è vano voler sfuggire ad ogni

determinismo, ma anche che nessun determinismo determina in maniera assoluta.

Quel che invece è esatto è che la progressiva dissoluzione dei rapporti organici e la

cancellazione dei punti di riferimento che ne è derivata hanno oggi reso molto più vero ciò

che non lo era in precedenza nella stessa proporzione: il fatto che l’individuo sia tenuto ad

intervenire in prima persona nelle sue scelte identitarie. Il che, sapendo che «il soggettivo e

l’oggettivo sono due facce intimamente legate dello stesso processo identitario», porta ad

esaminare il modo in cui si mescolano e si combinano la parte oggettiva e la parte soggettiva

dell’identità.

L’identità soggettiva è quella che un’istanza qualunque, soggetto individuale o gruppo, si

attribuisce dal proprio punto di vista. L’identità oggettiva corrisponde o all’identità attribuita

a quell’istanza dal suo ambiente di appartenenza nello spazio e nel tempo, o alla parte

dell’identità soggettiva di cui si può dimostrare l’effettiva corrispondenza con una realtà.

Non vi è dubbio che la parte soggettiva è oggi diventata fondamentale. Come afferma

Charles Taylor, «le cose che un tempo trovavano il loro centro di gravità in qualche realtà

esteriore – la legge o la natura – dipendono ormai dalla nostra possibilità di scegliere».

Aggiunge Jabuw Pélabay: «D’ora in avanti, l’identità sarà il risultato di un gioco di negoziati

fra ciò che io creo di originale e la mia storia, la comunità di appartenenza, la tradizione,

insomma tutto quello che mi hanno lasciato in eredità gli “altri datori di senso”. Il che implica

che – anche nel caso di una stretta conformità alla tradizione – la mia identità necessita in

ultima istanza di un’accettazione da parte mia».

Quest’ultimo punto è ovviamente essenziale. Significa che un’appartenenza, anche se

ereditata, svolge appieno il suo ruolo di indicatrice d’identità solo nella misura in cui la si

accetta o la si vuole considerare tale. Il fatto di essere francese, italiano o tedesco, ad esempio,

non è, da solo, pienamente determinante della mia identità. Lo diventa soltanto se per me

l’appartenenza alla nazione in cui sono nato, o a qualunque altra entità, è il criterio decisivo

dei miei pensieri e dei miei atti. Essere membro di un popolo, di una classe, di un’etnia e così

via non ha invece alcuna importanza se quell’appartenenza per me non significa niente. Una

appartenenza di questo tipo potrà eventualmente determinare alcuni dei miei pensieri o

comportamenti, ma ciò accadrà quasi a mia insaputa. Potrà eventualmente identificarmi agli

occhi degli altri, ma non ai miei. Non agirà nella mia coscienza sino a quando non la

considererò in grado di riuscirci, cioè finché non avrò accettato, scelto o voluto che lo faccia.

L’identità soggettiva implica, in altri termini, l’autonomia necessaria alla percezione, alla

valutazione e all’interpretazione di sé. Siamo noi a stabilire ciò che ha importanza ai nostri

occhi. Lo stabiliamo, certo, a partire da un retroterra di cui siamo eredi, di un contesto

enunciativo dato a monte, ma è tramite la nostra capacità riflessiva ed ermeneutica che

determiniamo il criterio di appartenenza o i valori che scegliamo di considerare più

importanti. Anche in questo campo, le cose hanno prima di tutto l’importanza che scegliamo

di assegnare loro.

Questa constatazione permette di relativizzare la contrapposizione abitualmente posta tra

identità ereditate e identità scelte. È innegabile che esistono numerose associazioni che non

possono essere oggetto di una scelta, nel senso che la dottrina liberale assegna a questo

termine. Sono le «associazioni involontarie» richiamate da Michael Walzer quando scrive che

la vita associativa, «in parecchi campi, non è il prodotto di un eroe liberale, di un individuo

capace di scegliere le proprie appartenenze. Anzi, molti di noi si situano già adesso

all’interno di gruppi che potrebbero rivelarsi determinanti». La famiglia e il sesso si

collocano naturalmente in prima fila tra queste «associazioni involontarie», che possono

comprendere però anche il paese, la classe sociale, la cultura, i valori morali o la religione.

Aggiunge Walzer: «Sia per la loro natura, sia per il valore che attribuiamo loro, le

associazioni involontarie svolgono un ruolo significativo nella nostra decisione di aderire

volontariamente ad altre associazioni. Le prime precedono storicamente e biograficamente le

seconde e costituiscono l’ineluttabile retroterra di ogni vita sociale, che la si viva o no nella

libertà e nell’eguaglianza». Questa osservazione è senz’altro giusta, e tuttavia queste

associazioni involontarie, ereditate, non sono determinazioni assolute; limitano soltanto,

senza sopprimerla, la nostra capacità di liberarcene. Persino l’identità legata al sesso e alla

filiazione diventa una componente a pieno titolo della nostra identità solo se decidiamo di

considerarla tale.

C’è una bella frase di René Char: «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento».

Un testamento suddivide l’eredità. Ma fra gli umani spetta a ciascuno degli eredi determinare

la natura della propria parte. Ereditare non è solo identificarsi in ciò che si eredita, ma

determinare i mezzi migliori per appropriarsene. Non si cerca soltanto di proseguire quel che

si è ereditato, lo si modella anche, attraverso lo sguardo che vi si posa sopra. Questo

modellare equivale a un approccio narrativo. Per l’individuo come per il gruppo, il rapporto

con il sé non è mai immediato. Passa attraverso l’espediente di una serie di rappresentazioni e

di narrazioni che si fanno a se stessi. Alasdair MacIntyre mostra assai bene che l’unità della

vita umana è assimilabile all’unità di una ricerca narrativa: «Posso rispondere alla domanda

“cosa devo fare” solo se posso rispondere alla domanda precedente: di che storia o storie

faccio parte?».

Oggettiva o soggettiva, l’identità contiene sempre una parte postulata. Non è solamente un

oggetto da scoprire, ma anche un oggetto da interpretare. La vita umana, come hanno ben

visto Dilthey, Gadamer o Ricoeur, è fondamentalmente interpretativa, ovvero non si limita a

descrivere oggetti, ma si impegna anche a conferire ad essi un senso. L’uomo è «un animale

che si interpreta da sé», ricorda Charles Taylor. Si colloca all’interno di un cerchio

ermeneutica che si definisce come uno spazio di significati comuni. Appartiene nel contempo

al mondo che lo costituisce e al mondo che egli costituisce. L’identità non sfugge a questa

regola. È una definizione di sé, in parte implicita, che un soggetto elabora e ridefinisce lungo

l’intero corso della sua vita, in un processo vitale, nel vero senso del termine. L’identità è

fondamentalmente di natura narrativa e autonarrativa. E il suo vero soggetto è l’enunciatore

di questa narrazione.

Così come l’Io è narrativo, un’identità collettiva si costruisce ed evolve in funzione delle

autorappresentazioni che si dà. Lungi dall’essere un’essenza eterna o un dato immobile, essa

si narra attraverso un processo continuo di autodefinizione. Avere un’identità significa essere

capaci di darle una forma narrativa, forma che “svela” l’identità nel senso heideggeriano del

termine, vale a dire conservando sempre una parte di opacità e dissimulazione.

Non si può dunque rispondere alla domanda «chi sono io?» semplicemente pronunciando il

proprio nome o declinando un’appartenenza o una genealogia. «La nostra risposta costituisce

un riconoscimento di ciò che è essenzialmente importante per noi. Sapere chi sono implica

sapere dove mi situo […] In altri termini, la mia identità è l’orizzonte al cui interno posso

prendere posizione», scrive ancora Charles Taylor. E prosegue così: «Noi siamo degli “io”

solamente perché alcune questioni ci importano. Quel che io sono in quanto me, la mia

identità, si definisce essenzialmente attraverso la maniera in cui le cose hanno un significato

per me».

La nostra identità è inseparabile da una definizione di ciò che importa o no per noi. Esprime

la parte di noi stessi che privilegiamo e sulla quale ci appoggiamo per costruirsi, non

attraverso l’emancipazione dalle determinazioni di cui siamo il luogo, bensì tramite una scelta

che ci fa considerare talune di quelle determinazioni più determinanti di altre. Tale scelta è

completamente soggettiva. Una femminista, ad esempio, può benissimo definirsi come

«prima di tutto donna» (nel senso di: «determino le mie opinioni e i miei comportamenti in

funzione del mio sesso o del mio genere»), ma non sarà necessariamente seguita da tutte le

altre donne. Questo modo di definirsi ha ovviamente conseguenze sul ruolo che si assegna e,

inversamente, il ruolo che ci si vede assegnare (all’interno della famiglia, della società,

dell’impresa, ecc.) esercita un’influenza sul nostro modo di percepire la nostra identità. Per

questo motivo i concetti di identità e di ruolo sono legati.

Per indicare «quel che [ci] importa», Taylor parla di «valutazioni forti» e di «beni

costitutivi» o «iperbeni». I «beni costitutivi» si distinguono dai beni materiali o dai beni che

rispondono a un semplice bisogno per il fatto che non sono affatto assimilabili a semplici

preferenze ma sono fondatori d’identità: «Formulare un bene costitutivo, significa rendere

chiaro quel che la vita buona che si adotta implica». Le «valutazioni forti» si caratterizzano

per il fatto che non sono negoziabili e non possono ridursi a una semplice preferenza o a un

semplice desiderio. Non sono relative al benessere, ma all’essere stesso degli individui.

Riguardano ciò che dà una ragione per vivere e per morire, il che vuol dire che si applicano

a valori considerati intrinsecamente buoni. Le valutazioni forti rappresentano obiettivi morali

dotati di un valore intrinseco.

L’identità ha una portata morale perché implica un riconoscimento di quel che

essenzialmente ci importa. «La mia identità definisce l’orizzonte del mio mondo morale.

Sulla base della mia identità, so cosa è davvero importante per me e cosa lo è meno; so cosa

mi tocca profondamente e cosa ha un significato minore». «Morale» va preso qui come ciò

che riguarda i valori: l’identità è indissociabile da un’idea del bene, è un concetto morale

subordinato al bene nel fatto di dire che cosa vale più e che cosa vale meno.

L’identità appare perciò immediatamente legata a tutta un’ermeneutica del sé, a tutta

un’opera di narratologia destinata a far apparire un “luogo”, un dato spazio-temporale che

configura un senso e costituisce la condizione stessa dell’appropriazione del sé. In una

prospettiva fenomenologia, in cui niente è mai dato immediatamente ma, al contrario, sempre

in maniera mediata, l’oggetto non può che procedere da un’elaborazione costitutiva, da un

racconto ermeneutico caratterizzato dall’affermazione di un punto di vista che organizza

retrospettivamente gli avvenimenti per dar loro un senso. «Il racconto costruisce l’identità

narrativa costruendo quella della storia raccontata. È l’identità della storia a fare l’identità del

personaggio», afferma Paul Ricoeur. Difendere la propria identità non significa dunque

accontentarsi di enumerare ritualmente referenti storici o presunti eventi fondanti; significa

considerare l’identità ciò che si mantiene nel gioco delle differenziazioni, non come la stessa

cosa ma come il modo singolare di cambiare di continuo.

Non si tratta dunque di scegliere l’identità idem contro l’identità ipse o viceversa, ma di

coglierle entrambe nei loro rapporti reciproci servendosi di una narrazione organizzatrice che

tiene conto sia della compresione di sé che della comprensione dell’altro. Ricreare le

condizioni in cui ridiventa possibile produrre un racconto di questo tipo costituisce

l’appropriazione di sé, ma un’appropriazione che non è mai data una volta per tutte, giacché

la soggettivizzazione collettiva discende sempre da una scelta più che da un atto, e da un atto

più che da un “fatto”. Un popolo si conserva grazie alla sua capacità narrativa,

appropriandosi del proprio essere in successive interpretazioni, diventando soggetto

attraverso la propria narrazione ed evitando in tal modo di perdere la propria identità, cioè di

diventare oggetto della narrazione degli altri. Come scrive Philippe Forget, «un’identità è

sempre un rapporto fra sé e sé, un’interpretazione di sé e degli altri, di sé da parte degli altri.

In definitiva, è il racconto di sé, elaborato nel rapporto dialettico con l’altro, che completa la

storia umana e consegna una collettività alla storia […] È attraverso l’atto del racconto che

l’identità personale perdura e concilia stabilità e trasformazione. Essere come soggetti

dipende da un atto narrativo. L’identità personale di un individuo, di un popolo, si costruisce

e si mantiene grazie al movimento del racconto, tramite il dinamismo dell’intreccio che fonda

l’operazione narrativa, come dice Ricoeur».

III. L’identità è problematica per molti versi. Ne esamineremo alcuni. La coscienza

dell’identità implica in linea di principio una preferenza naturale per coloro che condividono

la nostra appartenenza. Questa preferenza è alla base dell’amicizia nel senso aristotelico del

termine – quell’amicizia che, ben presto, è oggetto delle critiche di Lattanzio e di

Sant’Agostino, secondo i quali ogni preferenza nei confronti di talune delle creature uguali

dinanzi a Dio equivale a un’empia discriminazione («Perché scegli le persone?», rimprovera

Lattanzio a Cicerone, autore di un trattato sull’amicizia). La sociobiologia darà una

spiegazione a questa preferenza richiamandosi alla prossimità genetica (kin selection).

Tuttavia, identità e appartenenza non sono sinonimi, in quanto la prima non si riduce alla

seconda, e soprattutto le nostre appartenenze, essendo sempre multiple, possono entrare in

conflitto le une con le altre.

Le scelte di appartenenza sono paragonabili ai dilemmi morali: sorgono quando due o più

delle nostre componenti identitarie entrano in contraddizione. L’imputazione di «duplice

fedeltà» è ben nota, ma di fatto può essere applicata a ciascuno di noi. In caso di conflitto,

qual è quella delle nostre componenti identitarie a cui sceglieremo di conferire una priorità?

La domanda può essere posta a livelli diversi di appartenenza: ai miei occhi, sono prima

bretone, francese o europeo? Essa può essere il frutto di un conflitto di ordine morale: se

sono francese e cristiano, ma la legge civile contraddice quella che io reputo essere la «legge

naturale», obbedirò alla legge per senso civico oppure alla mia coscienza, per non

contravvenire a ciò che credo? L’appartenenza familiare, l’appartenenza nazionale,

l’appartenenza politica o ideologica, l’appartenenza religiosa non si articolano

necessariamente senza soluzione di continuità. La domanda che sorge è allora sempre la

stessa: qual è la parte della nostra esistenza che reputiamo più determinante?

Lo stesso problema si pone se si ragiona in termini di “prossimità”. Il dilemma più abituale è

quello che contrappone la prossimità “naturale” ereditata (la famiglia, il popolo, l’etnia, la

nazione, ecc.) alla prossimità “ideologica” scelta (intellettuale, politica, filosofica, religiosa,

ecc.). Se sono italiano (o tedesco) e cristiano, mi sento “più vicino” a un italiano (o a un

tedesco) non cristiano, o magari ateo, oppure a un cristiano asiatico o africano? Se sono una

donna trotzkista, mi sento più vicina a un uomo trotzkista oppure a una donna di destra? E

che cosa succede se sono buddista, omosessuale e canadese? Si potrebbero porre domande di

questo genere all’infinito. Le risposte che ad esse si danno sono evidentemente arbitrarie. (Un

francese “sovranista” e ostile all’Europa è comunque anche un europeo, così come il suo

compatriota che si definisce prima di tutto un europeo è comunque anche un francese). Si

creano in funzione del gruppo con il quale ci sentiamo più solidali e del gruppo da cui ci

sentiamo più lontani. Ogni volta che ci sentiamo più vicini a qualcuno che condivide le

nostre credenze o le nostre convinzioni che ad un semplice parente, privilegiamo queste

appartenenze rispetto alla semplice logica della filiazione (e nel contempo ne facciamo

risaltare i limiti). È una scelta di questo tipo quella che compie Gesù quando risponde, a

coloro che vengono a dirgli che la sua famiglia lo cerca, che la sua vera famiglia è altrove, è

quella formata dai suoi discepoli e da coloro che credono in lui (Mt 12, 46-50).

I conflitti di appartenenza o di “prossimità” non sono casi di scuola. In molti casi

assolutamente concreti, degli uomini sono stati portati a decidere in un senso o nell’altro in

funzione delle situazioni. E il modo in cui hanno deciso mostra che l’appartenenza ereditata,

quella più “naturale”, non si impone automaticamente. I monarchici che hanno scelto l’esilio

all’epoca della Rivoluzione francese si sentivano visibilmente più vicini agli aristocratici

inglesi, tedeschi o austriaci che ai loro compatrioti rivoluzionari. Sotto l’Occupazione, i

francesi che hanno scelto di collaborare con la Germania facevano prevalere le affinità

ideologiche o le convinzioni politiche sulla semplice appartenenza nazionale. Lo stesso

accadeva ai comunisti francesi che vedevano nell’Unione sovietica la vera «patria dei

lavoratori». L’adesione al patriottismo bellicista in occasione della Prima Guerra delle classi

operaie, in precedenza acquisite all’internazionalismo, costituisce un esempio di scelta

opposta. In tutti i casi, la scelta si accompagna sempre a razionalizzazioni giustificanti a

posteriori, sulle quali non è il caso di dilungarsi. Ma alla base troviamo sempre la stessa

domanda: a chi mi sento “più vicino”? Si vede, in questo modo, come anche la nozione di

“prossimità” sia soggettiva.

Altri problemi sono legati al concetto di memoria. L’identità presuppone la memoria, che è

tanto una facoltà individuale quanto un esercizio collettivo: non è un caso se il tema del

“dovere di memoria” accompagna le nuove spinte identitarie. L’uomo o il gruppo che ha

perduto la memoria non può intendere la propria identità in termini di continuità. Tale

memoria implica uno sguardo sul passato che sia anche correlativamente capace di

anticipazione, di proiezione di sé nel futuro. Nessuno può sopravvivere se non prova la

chiara consapevolezza che il suo presente è il prolungamento di un passato. In quest’ottica,

beninteso, l’origine è particolarmente importante, perché costituisce il punto di partenza (o di

arrivo) della memoria.

Questa memoria non può tuttavia confondersi con la nostalgia di tempi immancabilmente

presunti migliori o più felici. Christopher Lasch ha efficacemente mostrato la differenza

esistente tra questo tipo di nostalgia, che idealizza il passato – in genere, tanto più quanto più

esso è lontano –, e la memoria necessaria all’identità: «Le rappresentazioni nostalgiche del

passato evocano un’epoca conclusa per sempre, e per questo motivo atemporale e non

cambiata. La nostalgia, nel senso stretto del termine, non implica affatto l’esercizio della

memoria, giacché il passato che idealizza rimane al di fuori del tempo, immobilizzato in

un’eterna perfezione». La memoria, al contrario, «considera il passato, il presente e il futuro

continui. Non si preoccupa tanto della perdita, quanto del nostro debito permanente verso il

passato, la cui influenza formativa continua a vivere nei nostri modi di parlare, nei nostri

gesti, nelle nostre idee dell’onore, nelle nostre aspettative, la nostra disposizione di fondo nei

confronti del mondo che ci circonda».

Dal punto di vista identitario, la storia è un argomento di continuità, mentre la memoria può

essere definita come il modo di iscrizione dell’identità nella durata. Il ricorso alla storia fonda

l’identità degli attori sociali conferendo loro un sapere sulla base delle forme ereditata della

socievolezza che li caratterizza. Essa consente loro sia di riconoscersi nel passato, sia di

proiettarsi nel futuro. Lo sguardo rivolto alla storia non è quindi mai neutro, giacché da esso

traiamo le rappresentazioni simboliche della nostra identità che fanno di noi nel contempo

dei soggetti sociali e gli attori della nostra libertà. La nostra stessa identità è una storia: la

storia delle nostre specifiche trasformazioni identitarie. «Scrivere e leggere la storia», scrive

Bernard Lamizet, «sono maniere di rifondare sul passato l’identità di cui si è portatori e su

cui si sostiene la socievolezza che facciamo nostra nelle pratiche culturali e nelle pratiche

politiche. La storia rappresenta un insieme di rappresentazioni dell’identità nel succedersi

delle epoche e degli attori che ci hanno preceduti, ma nel contempo, dando un senso ai

processi che costituiscono le forme politiche e le strutture sociali alle quali apparteniamo, dà

una consistenza specificamente simbolica alle nostre identità […] La dimensione

propriamente politica della storia è qui: nella diffusione che assicura alle forme dell’identità

che sono suscettibili di conferire al legame sociale la consistenza che lo faccia riconoscere da

coloro che ne sono portatori».

«Nella misura in cui il passato viene trasmesso come tradizione, fa autorità. Nella misura in

cui l’autorità si presenta storicamente, essa diventa tradizione», notava già Hannah Arendt.

Tuttavia, la tradizione non è un’istanza immutabile, che ispira o attraversa le sue diverse

manifestazioni storiche senza esserne toccata. Anche la tradizione ha una storia.

L’appello alla memoria (ritrovare la propria memoria, conservarla, non lasciarsene

espropriare, ecc.) è comunque sempre ambiguo. In primo luogo, la memoria può rivelarsi

abusiva, ad esempio quando pretende di venire prima della storia studiata dagli storici. Paul

Ricoeur parla a ragione di «quegli abusi di memoria in cui possono trasformarsi le

commemorazioni imposte dal potere politico o da gruppi di pressione». La memoria diventa

abusiva quando, facendosi militante, pretende di rendere conto della verità storica con

maggiore esattezza della storia tout court, quando invece esprime soltanto una ricostruzione

del tutto soggettiva del ricordo collettivo.

La memoria può anche esercitare una funzione inibitrice nei confronti dell’identità, quando è

troppo carica di elementi contraddittori. Essa corre il rischio di ingombrarsi di cose talmente

disparate e contraddittorie che, lungi dal fondare un’identità, la renderà ancor più nebulosa.

L’eredità diverrà allora un’eredità neutra, che non avrà più senso e non potrà più servire da

guida dei pensieri e degli atti. Ma è proprio perché tende sempre ad evitare un simile

sovraccarico che la memoria è prima di tutto selettiva e quindi arbitraria. La memoria, e in

ciò risiedono tanto la sua principale caratteristica quanto il suo limite intrinseco, riflette infatti

sempre solo ciò di cui la narrazione identitaria vuole ricordarsi, gli episodi che ritiene

soggettivamente siano più essenziali o fondanti. Ritroviamo qui la dialettica fra identità

oggettiva e soggettiva. Ogni approccio alla storia in termini di “memoria” è inevitabilmente

soggettivo.

La memoria non è mai integrale. Filtra, seleziona, sceglie ciò che a suo avviso merita di

essere trattenuto e trasmesso. È dunque tanto memoria quanto oblio, tanto trasmissione

quanto occultamento. La tradizione procede allo stesso modo. «Separa il positivo dal

negativo, l’ortodosso dall’eretico, quel che è importante e costringente nella massa delle

opinioni dai dati privi di importanza o semplicemente interessanti». È esattamente quel che

dice Charles Maurras quando scrive: «La vera tradizione è critica, e in mancanza di queste

distinzioni il passato non serve più a niente […] In ogni tradizione così come in ogni eredità

un essere ragionevole fa e deve fare la defalcazione del passivo». La tradizione opera dunque

una cernita nell’eredità. Ma chi decide, e secondo quali criteri, che cosa deve essere portato

all’attivo e al “passivo”? Ancora una volta, la volontà soggettiva del narratore identitario, i

cui criteri di valutazione si trovano inevitabilmente a monte dello sguardo che rivolge alla

storia. Il caso di Maurice Barrès è a questo proposito doppiamente esemplare. In primo luogo

perché, partito dal «culto dell’Io», è giunto senza rotture al nazionalismo, cioè al «culto del

noi», che non è altro che un allargamento del primo. In secondo luogo perché questo cantore

del determinismo de «la terra e i morti» ha scelto di gettare radici in una provincia che

corrispondeva a una parte soltanto della sua eredità. «Sono lorenese», dice ai suoi amici della

Patria francese. Lo è, in effetti, ma solo per parte di madre. Sul versante paterno, Barrès viene

da una lunga schiatta dell’Auvergne. Il «determinismo» al quale si richiama non esclude

dunque una scelta soggettiva; il che vuol dire che non determina in modo assoluto.

Rari sono coloro che, come Péguy, hanno tenuto a rivendicare l’intera eredità nazionale. Per

gli uni, la Francia è la «figlia maggiore della Chiesa», è la Francia di Clodoveo, di Giovanna

d’Arco e di Carlo Martello. Per altri è il «paese dei diritti dell’uomo», è la Francia delle

fronde e delle rivolte popolari, delle rivoluzioni e dell’emancipazione della classe operaia.

Per un cristiano, la storia dell’Europa inizia davvero solo con il cristianesimo. Per un pagano,

il cristianesimo non è che una sovrastruttura ideologica e lo stesso Medioevo è stato solo

nominalmente cristiano. La storia forma pur sempre un tutto, ma la memoria passa questo

insieme al setaccio e trattiene soltanto ciò che è conforme all’idea che si fa del passato e

all’immagine che intende darne per dotarla di un senso. Dopodichè, essa giustifica le sue

scelte alla maniera dei rivoluzionari del 1793, che denunciavano negli aristocratici dei

rappresentanti del «partito dello straniero», o alla maniera dell’estrema destra, che stigmatizza

come «anti-Francia» la parte della storia nazionale in cui ha deciso di non riconoscersi.

Queste giustificazioni, evidentemente, hanno solo un’apparenza di realtà. La cernita che la

memoria opera nella storia – si tratti della storia reale, idealizzata o fantasticata – non è che

un rivelatore di preferenze. Ricorrere al passato in un’ottica identitaria non significa

riconoscerlo quale è realmente stato, bensì piuttosto, come diceva Walter Benjamin nelle sue

tesi sul concetto di storia, «rendersi padroni di un ricordo tale quale scaturisce nel momento

del pericolo».

La stessa inevitabile soggettività si ritrova nella ricerca delle origini. L’individuazione e la

designazione dei “grandi antenati” sono un modo di procedere in parte arbitrario e nel

contempo una costruzione evolutiva. Montesquieu, sulla falsariga di Boulainvilliers, parlava

dei «nostri padri Germani». Augustin Thierry, sulla scia dell’abate Dubos, gli replicava che i

francesi discendono dai «nostri avi Galli». Altri preferiranno fare riferimento a Roma (o a

Gerusalemme). Si può anche presentare (e non si avrebbe torto nel farlo) l’Europa come

erede della Grecia. Ma di quale? La Grecia di Omero o quella di Platone, quella di Pericle o

quella di Socrate? E chi può dire quale sia “la più greca” fra tutte queste Grecie? (La pittura

olandese si distingue agevolmente dalla pittura italiana. E tuttavia Rembrandt e Vermeer sono

assai diversi: qual è “il più olandese” dei due e perché?). I valori dell’Iliade, d’altronde, non

sono già più gli stessi dell’Odissea. Al di là dei Greci, si può anche risalire agli Indoeuropei,

modo di procedere esso pure legittimo. Ma se l’origine è essenziale, se la provenienza

ancestrale ci dice qualcosa su quel che siamo, allora bisogna anche interrogarsi sull’origine

degli Indoeuropei, i quali, per definizione, non hanno potuto avere per antenati che dei nonIndoeuropei.

Di prossimo in prossimo, perché non risalire fino ai primi ominidi africani, fino

agli australopitechi, fino all’antenato comune ai primi primati?

L’origine e la storia, infine, possono entrare in contraddizione, pur essendo entrambe fonti

forti d’identità. Così, è facile constatare che l’Europa, nel corso della sua storia, si è

fortemente allontanata dai suoi valori fondanti, o quantomeno da una larga parte di essi. Per

certi versi, l’intera storia europea può anche essere letta come storia di quell’allontanamento

che, per farla breve, ci ha fatto passare dall’olismo istituzionale all’individualismo moderno.

Ma se le cose stanno così, se ne deve concludere che l’Europa non ha mai smesso di tradirsi.

Richiamarsi ai valori fondanti, in una simile ottica, significa nel contempo ridurre l’identità

all’origine e contrapporre l’origine alla storia. Questo divorzio tra l’origine e la storia

costringe immancabilmente, se si ritiene che l’identità risieda nell’origine, a considerare

l’intera storia contraria a tale identità o l’intera identità contraria a tale storia. Tuttavia, non vi

è un’esistenza umana che non sia storica. Come si può affermare che l’identità dell’Europa

non ha niente a che vedere con la sua storia? Si può, certo, rispondere che gli europei sono

sempre «quel che non hanno mai smesso di essere», ma che hanno dimenticato (o che si è

fatto loro dimenticare). In questa prospettiva, lo “spirito europeo” si baserebbe

sull’inconscio, in una sorta di strato sotterraneo, e il compito sarebbe farla giungere alla

consapevolezza. È una visione dualista, volontaristica e ottimistica al contempo, che questa

volta ci rimanda a Platone: il “vero reale” sarebbe nascosto; sarebbe ciò che non si vede ma

che si postula, contraddicendo la percezione immediata. Con un approccio del genere, ci si

rassicura con poca spesa. Karl Marx era più realista quando diceva che «il modo in cui gli

individui manifestano la loro vita riflette esattamente quel che sono».

Non esiste un doppio “sotterraneo”, ma un cambio di orientamento è sempre possibile. Non

ritorno alle fonti, ma ricorso alle fonti, cosa del tutto diversa. Per riconoscere l’identità

europea, scrive Peter Sloterdijk, «la domanda non deve essere: chi, e in base a quali criteri e a

quali tradizioni, appartiene ad un’Europa “vera”, ma: quali scene gli europei interpretano nei

loro momenti storici decisivi?».

IV. Come ogni altra nozione o realtà, l’identità è suscettibile di deformazioni o di

formulazioni patologiche. La richiesta identitaria vi cade frequentemente quando si scontra

con una mancanza di risposta, cioè con una negazione del riconoscimento. Coloro che

rifiutano di soddisfare tale richiesta traggono allora pretesto dall’aggressività che essa

manifesta, dall’esclusivismo che adotta, per giustificare il loro atteggiamento. Le patologie

dell’identità vengono utilizzate, stigmatizzate in maniera strumentale, per screditare il

concetto stesso di identità. I due estremi si confortano vicendevolmente. Ci si trova in un

circolo vizioso.

La patologia più corrente dell’identità è l’essenzialismo. Invece di considerare l’identità come

una realtà sostanziale, derivante da una narrazione di sé continuamente ripresa, se ne fa

un’essenza intangibile. L’identità viene definita allora come un attributo che non cambia mai,

come quel che viene suddiviso in parti identiche da tutti i membri del gruppo. La parte

soggettiva dell’identità viene surrettiziamente reificata, trasformata in identità oggettiva. La

differenza viene considerata autosufficienza e determinazione assoluta, esattamente nello

stesso modo in cui gli avversari dell’identità la rappresentano; la sola diversità sta nel fatto

che ci si compiace di quel determinismo che gli altri condannano come altamente

“carcerario”. In parallelo, si rifiuta l’universale, che viene a torto assimilato all’universalismo,

senza capire che una delle funzioni del particolare è appunto quella di accedere all’universale

partendo dalla propria particolarità, di far nascere l’infinito dall’incontro delle finitezze – e

che, inversamente, l’universale non ha un contenuto concreto proprio, il che significa che

non può incarnarsi se non nel, e grazie al, particolare.

Mentre l’identità è normalmente ciò che permette lo scambio e il dialogo, in questo caso essa

viene considerata come ciò che permette di escluderlo. La preferenza del tutto naturale si

trasforma in esclusivismo, le differenze significative vengono trasposte in fratture assolute, in

frontiere invalicabili. Si rompe, in tal modo, con il pensiero cosmico o pagano tradizionale,

creando fratture insuperabili in un universo che, di conseguenza, non può essere più inteso

come un insieme unitario e organico ove tutto si collega e si tiene. La rivendicazione

identitaria si trasforma in un pretesto per legittimare l’ignoranza, l’emarginazione o la

soppressione degli altri. È ciò che consente di scongiurare, in una prospettiva dominata dal

complesso dell’assedio, la paura suscitata dagli altri. L’essenzialismo obbedisce alla logica del

“ghetto positivo”, del ghetto dove ci si rinchiude per non dover sapere niente degli altri, con

l’idea, come diceva Péguy, che le uniche parole convenienti siano quelle della propria tribù.

A questo punto si può a buon diritto parlare di “ripiegamento identitario”.

In una simile ottica, la distinzione tra “noi” e “gli altri”, che è alla base di ogni identità

collettiva, viene immediatamente posta in termini di disuguaglianza o di ostilità di principio.

Le identità vengono immobilizzate in un idealtipo atemporale, vietando ogni scambio invece

di farsene strumento. La differenza viene assolutizzata, cosicché qualunque dialogo fra

diversi viene svalutato o ritenuto impossibile. Le razze e i popoli vengono trattati alla stregua

di una sorta di specie distinte, che non possiedono più niente in comune. Per chi sostiene

questa posizione, difendere la propria identità significherebbe ignorare o disprezzare gli altri:

un europeo, ad esempio, tradirebbe la sua identità amando la poesia araba, il teatro

giapponese o la musica africana! Significherebbe autoincensarsi, attribuirsi tutti i meriti, darsi

sempre ragione, pretendere di non dovere niente agli altri, collocarsi al di sopra degli altri in

una visione del mondo (“noi contro gli altri”) che, ovviamente, non può non essere

ultraconcorrenziale (liberalismo classico) o conflittuale (darwinismo sociale).

Anche questa concezione si esprime nella prospettiva di un gioco a somma zero: tutto quello

che possiede l’uno non può essere posseduto che a detrimento dell’altro. Noi saremo pertanto

tanto più noi stessi quanto meno se stessi saranno gli altri. La nostra identità sarebbe prima di

tutto minacciata da quella degli altri; potrebbe affermarsi solo sradicando quella degli altri.

Sopravvalutazione da un lato, svalutazione dall’altro: il fra-di-noi diventa il luogo della

norma e del bene, il mondo esterno diventa il luogo della minaccia e del male. La

conseguenza di questo modo di vedere le cose è l’eliminazione del terzo: «Chi non è con noi

è contro di noi».

Quella che Édouard Glissant chiamava l’«intolleranza sacra della radice» porta così,

paradossalmente, a trasformare il gusto della differenza in culto dell’Identicità.

All’omogeneizzazione “mondialista” non ci sarebbe altro da opporre all’infuori del desiderio

di un’omogeneità a livello minore, come quello espresso da quei movimenti indipendentisti o

separatisti che criticano lo Stato giacobino solo per rivendicare il diritto di instaurare un

micro-Stato che, sulla sua scala, lo sarebbe altrettanto. Il narcisismo dei membri del gruppo si

rafforza attraverso l’interiorizzazione nella loro identità personale degli ideali che essi

attribuiscono all’entità nella quale si riconoscono. Questa soddisfazione narcisistica consente

a ciascuno, compresi i più mediocri, di identificarsi con le realizzazioni più elevate (reali o

idealizzate) della propria comunità. Ci troviamo, in questo caso, di fronte a quella che

Georges Devereux ha definito un’«identità di sostegno».

Le identità biologiche, considerate l’esempio stesso di ciò che non cambia, vengono perciò

spesso privilegiate per essere poste al servizio dell’etnocentrismo, del razzismo o della

xenofobia. Ma i criteri biologici di appartenenza (alla razza, alla specie) hanno un valore

relativo. Possono ovviamente svolgere una funzione, ma non rimandano a nessuno dei

caratteri specifici umani, perché l’uomo non ha nessun’altra essenza specifica al di fuori della

sua esistenza socio-storica. All’interno di una determinata entità, tali criteri non permettono

né di discriminare politicamente tra l’amico e il nemico né di determinare quale concezione

del bene comune debba prevalere. Sono inoltre incapaci di rendere conto delle rapide

evoluzioni politiche e sociali che si verificano all’interno di una popolazione omogenea.

Ridurre ad essi la definizione di chi è “come me” significa spazzare via tutte le altre forme di

appartenenza, ereditate o scelte. A questa rappresentazione si aggiungono ossessioni di

contaminazione, di purezza e di impurità, la fobia delle mescolanze, tutte tematiche di origine

biblica, spesso agitate nella visione di un declino obbligato, di un disastro imminente, di una

congiunzione di catastrofi future che non è altro che la ripresa invertita di segno

dell’ideologia del progresso (l’inevitabile si limita a cambiare direzione).

È senz’altro vero che le culture formano dei mondi distinti, ma quei mondi possono

comunicare. Non sono specie differenti. Dal momento che incarnano nelle loro modalità

specifiche l’essenza della natura umana, i loro rappresentanti possono cercare di capirsi e

soprattutto di accettarsi reciprocamente, senza cadere nella perdizione o rinnegarsi.

(D’altronde, se le culture costituissero degli universi a compartimenti stagni, come sarebbe

possibile la globalizzazione? Come potrebbe, una cultura, convertirsi a una religione che ha

fatto la sua comparsa all’interno di un’altra cultura? Come si potrebbe spiegare che dei

ricercatori appartenenti a una determinata cultura possano diventare specialisti di un’altra?).

Già Rousseau aveva avuto il presentimento del rischio di ogni identità di degenerare in amor

proprio. L’essenzialismo si collega chiaramente alla metafisica della soggettività. Consiste

nell’allargare ad un “noi” collettivo l’accentramento su se stessi che il liberalismo attribuisce

all’“io” individuale. Questo accentramento su se stessi procede di pari passo con

un’autoconsiderazione che rafforza ulteriormente la sottovalutazione dell’altro.

L’appartenenza finisce così col confondersi con la verità, il che vuol dire che non esiste più

una verità. L’essenzialismo applica al gruppo il principio liberale che legittima e fa prevalere

su ogni altra cosa l’egoismo interessato e l’assiomatica dell’interesse. Per il liberalismo

l’egoismo individuale è nel contempo raccomandabile e legittimo; per il razzismo, l’egoismo

di gruppo lo è altrettanto. I gruppi si vedono perciò attribuire le medesime caratteristiche di

autosufficienza che il liberalismo attribuisce all’individuo quando ne fa una monade

autosufficiente. (Ma secondo logica, se io devo sacrificare tutto a chi mi assomiglia di più, in

definitiva è a me stesso che devo concedere tutto).

L’essenzialismo è un ritorno alla solitudine ontologica di Cartesio, con la differenza che

opera un transfert dall’“io” verso il “noi”. La confusione del fatto politico con la soggettività

assume la forma di una negazione dello specchio e di una dinamica di esclusione, nella

speranza totalmente vana di garantire l’unicità e la purezza dell’appartenenza. Un

atteggiamento di questo tipo porta al rigetto di ogni dialettica politica dell’identità.

«L’integralismo politico identitario consiste, in definitiva, nel non basare più l’impegno sulla

dialettica, tutto sommato rischiosa, tra un rapporto e l’altro, ma sulla ricerca di un ideale

politico impossibile fondato su quella che può essere chiamata una socievolezza politica

dell’identico».

Certo, non vi è dubbio che la presenza di un nemico designato rinserra la coesione del

gruppo che si reputa minacciato da esso, e nel contempo contribuisce ad assegnargli

un’identità sociale; ma questa identità resta negativa: l’identità di chi si oppone a X non è che

non-X. In certi discorsi sull’immigrazione, ad esempio, non si fa fatica a sentire la

lamentazione