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Rileggere Rousseau

di Alain de Benoist - 02/11/2007

 

 

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) rappresenta nella storia delle idee un caso piuttosto curioso. Non soltanto ha continuato per due secoli ad essere oggetto di giudizi veramente appassionati (si adora o si detesta), ma pochi autori hanno suscitato come lui tante interpretazioni in contrasto l’una con l’altra. Per i più, è uno dei grandi ispiratori della Rivoluzione, ma gli si è anche attribuita la nascita del nazionalismo tedesco. Si è visto in lui un convinto individualista, un disadattato sociale, un dolce sognatore che cercava la dissoluzione del suo io, e nello stesso tempo un fanatico della logica, un sostenitore della disciplina spartana. È stato considerato un razionalista ma anche il profeta di una morale e di una religione fondate sul solo sentimento. Lo si è dipinto come il padre del romanticismo e come un precursore del socialismo di Stato. Taine gli rivolge l’accusa di collettivismo, Benjamin Constant di dispotismo. Proudhon vede in lui un teorico e un apologeta della tirannide.

La destra francese, che raramente lo ha letto, ne ha fatto la sua bestia nera. I liberali gli imputano la “deviazione” della Rivoluzione francese e lo collocano all’origine di una corrente « totalitaria » che spesso fanno sfociare in Karl Marx. 1 Per Rousseau il contratto sociale rimane in effetti, in larga misura, da scrivere: i limiti del possibile non sono stati ancora raggiunti e la società migliore è di là da venire. La destra tradizionale, più radicale nella sua critica, rimprovera a Rousseau l’idea stessa di contratto sociale e raccoglie sotto il nome di “rousseauismo” un’antropologia immaginaria, i cui misfatti non sarebbero mai stati smentiti. Rousseau viene dunque presentato, tout court, come il padre dell’egualitarismo e l’autore d’assurde teorie sul “buon selvaggio” e l’”uomo buono per natura”.

Tipico di questo modo di pensare è il ritratto che Charles Maurras traccia del «miserabile Rousseau»: « Né lo spirito di famiglia, né lo spirito di partito, né quell’interesse politico che avrebbe moderato qualunque altro ginevrino erano capaci di temperare la rabbia mistica di quel vagabondo dai natali sfortunati, sferzato malamente da una vecchia zitella e guastato sino al midollo dai suoi primi amici. Capace di tutti i mestieri, compresi i più disgustosi, di volta in volta lacchè e favorito, maestro di musica, parassita, mantenuto, si è istruito praticamente da solo; il capitale morale gli fa difetto non meno del capitale intellettuale [...] Nato sensibile e versatile, assolutamente impossibilitato ad attaccarsi con forza alla verità, i suoi vari ragionamenti concordano solo con il ritmo del suo lamento, e in lui si trovano, in dosi pressoché uguali, il criminale, il selvaggio e il semplice pazzo » 2.

Il pensiero di Rousseau ha nondimeno esercitato un’influenza considerevole, che si estende peraltro molto al di là degli ambienti intellettuali o politici nei quali spesso lo si confina 3. Tale influenza sembra però essersi situata, già nella sua epoca, molto più al livello della sensibilità che a quello della dottrina, e non tanto sulla base dei testi quanto piuttosto in funzione delle interpretazioni e delle semplificazioni, spesso arbitrarie, che se ne sono date. Rousseau è un autore frequentemente citato ma a quanto pare mai veramente letto. Inoltre in genere ci si riferisce soprattutto alle sue opere giovanili; i suoi progetti di costituzione per la Corsica e per la Polonia vengono troppo spesso ignorati, soprattutto dagli avversari. Infine, solo nel XX secolo si è cominciato a studiare seriamente la sua opera e a riconoscere l’unità del suo pensiero 4. Tutte queste controversie sono sufficienti da sole a dimostrare che le idee di Rousseau non possono essere riassunte in formule precostituite. Quella che ci proponiamo è quindi una rilettura di Rousseau, non per “riabilitarlo” (non ne ha alcun bisogno) ma per andare al di là dei pregiudizi e scoprire un autore che merita certamente qualcosa di meglio dell’immagine che troppo di frequente ne hanno fornita sia gli ammiratori che i nemici.

 

 

L’innocenza naturale dell’uomo

 

Rousseau scrive: «L’uomo è naturalmente buono». Tuttavia possiamo leggere in apertura dell’Émile: « Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose; tutto degenera fra le mani dell’uomo ». Cosa si deve pensare, allora, di questo essere di cui si afferma la bontà naturale ma che farebbe « degenerare » tutto ciò che tocca? E poi, nell’espressione « naturalmente buono », qual è la parola che conta di più? Rousseau vuol dire semplicemente che l’uomo è buono, e che tanto più lo è in quanto questa bontà gli è naturale, oppure vuol dire che l’uomo è buono in quanto essere naturale? L’importanza che Rosseau assegna alla « natura » suggerisce ovviamente la seconda interpretazione, ma il termine si presta comunque ad equivoci. La tematica del « ritorno alla natura » è di moda nel XVIII secolo. In Diderot, nell’abate de Raynal e in tanti altri alimenta elucubrazioni d’ogni sorta sul« buon selvaggio », l’« età dell’oro» e via discorrendo 5. È a questo che pensa Rousseau? Inoltre, una parola d’ordine di questo genere assume significati assai diversi a seconda dell’idea che si ha della« natura ». La Chiesa, ad esempio, ha sempre predicato la « morale naturale », mentre Nietzsche denuncia « la morale come antinatura » (titolo di uno dei capitoli del Crepuscolo degli idoli). In effetti, basta leggere Rousseau per accorgersi che il termine natura è accolto in due accezioni molto diverse. « Naturale » si riferisce a volte a ciò che è originale e a volte a ciò che è autentico o essenziale. E si può constatare che ben presto è la seconda accezione a prevalere. Quando evoca lo « stato di natura », Rousseau si mostra d’altronde nettamente meno utopista di molti filosofi illuministi. All’inizio del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’in eguaglianza fra gli uomini 6, dice esplicitamente di non aver mai avuto l’intenzione di dipingere uno stato originale dell’umanità, giacché non si potrà mai sapere in che cosa questo stato consistesse, né se 10« stato di natura » sia mai esistito. Contrariamente a parecchi suoi contemporanei, Rousseau non si volge verso un passato remoto che potrebbe ricostruire a suo piacimento, così come non ritiene possibile apprendere qualcosa sulla « natura » umana fra le popolazioni cosiddette « selvagge ». Lo stato di natura in lui non è tanto un concetto storico quanto un’idea speculativa e regolativa che consente di organizzare i fatti. È una finzione che egli utilizza per spiegare la comparsa dei fenomeni sui quali esercita la sua critica. Lo stesso accade con l’idea di « contratto sociale », che, dice, fa parte « delle verità ipotetiche e condizionali » (si direbbe oggi: è un’ipotesi di lavoro).

Rousseau contrappone in compenso l’ “uomo naturale” all’ “uomo civile” (policé). Ma queste due categorie si sdoppiano immediatamente: come l’uomo civile comprende tanto il borghese che il cittadino (ritorneremo in seguito su questo punto), l’uomo naturale comprende l’uomo naturale selvaggio e l’uomo naturale che vive in società. Ora, ci si può chiedere se il primo sia veramente un uomo. Rousseau lo descrive come « un essere stupido e limitato », « legato dalla natura al solo istinto »: « limitato al solo istinto fisico, è nullo, è idiota » (Discorso). Questo selvaggio, guidato esclusivamente dall’« amore di sé », è un solitario che vive in autarchia. È autosufficiente nel senso che non intrattiene relazioni individualizzate con nessuno. Non ha né moralità, né credenze, né ragione, né linguaggio. La condizione di questo essere naturale, in altri termini, non si distingue affatto da quella degli animali. L’uomo selvaggio, soggetto ad una rigida selezione naturale, è prima di tutto un essere vivente fra gli altri. Dicendo questo, Rousseau intende, a quanto pare, affermare l’origine animale dell’uomo e giustificare la natura. È un punto di vista alquanto diverso da quello dei suoi contemporanei. Nello stato di natura, Rousseau non vede il punto di partenza di un ineluttabile sviluppo lineare. L’uomo naturale può apparirci oggi nelle vesti di un primitivo, ma non era votato ad esserlo. Lo stato di natura descritto nella prima parte del Discorso è essenzialmente statico; in teoria, l’uomo sarebbe potuto rimanervi in eterno, godendo perpetuamente della “felicità” connessa alla sua animalità. Quest’uomo selvaggio è con ogni evidenza un essere immaginario, una sorta di idealtipo di cui Rousseau ha bisogno per mettere in scena le altre sue categorie. Se, infatti, il selvaggio non è un uomo in atto, lo è nondimeno in potenza. È solitario, ma non refrattario alla socialità; possiede « delle virtù sociali in potenza» 7. Dunque per Rousseau la socievolezza non dipende dalla natura, ma neppure le si contrappone. L’uomo è sociale dal momento in cui è uomo nel senso pieno del termine. Non è dunque esagerato dire con Louis Dumont che Rousseau, contrariamente all’interpretazione che troppo spesso si dà del suo pensiero, riconosce pienamente il carattere sociale dell’uomo, vale a dire la sua appartenenza ad una società concreta come condizione necessaria della sua educazione all’umanità.

Bisogna altresì risituare le affermazioni di Rousseau sull’« uomo naturalmente buono »nel contesto dell’epoca. La teoria di Rousseau mira in primo luogo a rispondere alla domanda classica della teodicea, cioè al problema del male in un mondo che si suppone essere stato creato liberamente da un Dio infinitamente buono ed onnipotente. Tradizionalmente, questo problema può essere risolto soltanto in due maniere: o si discolpa Dio spiegando il male attraverso il peccato originale, vale a dire a causa del cattivo uso che l’uomo avrebbe fatto della sua libertà prima di entrare nella storia, oppure si discolpa l’uomo e allora si è obbligati a dubitare della bontà o dell’onnipotenza di Dio. La posizione di Rousseau è invece assolutamente originale. Contro gli Enciclopedisti, Rousseau si schiera dalla parte della « giustificazione di Dio ». Contro la Chiesa, contesta l’idea di peccato originale, che rappresenta l’uomo come naturalmente cattivo. Affermando che il male non viene né dall’uomo né da Dio ma da un terzo, nella fattispecie dalla società, Rousseau non vuole affatto tessere l’apologia di un individuo irresponsabile che attribuisca alla « società » la responsabilità dei suoi atti, come abitualmente si fa dire alla vulgata “rousseauiana”. Mira semmai a rispondere ad un problema teologico fondamentale, con il quale ogni riflessione speculativa si trova immediatamente posta a confronto.

Anche questa concezione critica del sociale è originale in rapporto alla filosofia dell’epoca. L’idea di una distinzione tra la società civile e lo Stato è certamente corrente nel XVIII secolo: l’intera riflessione filosofica si fonda al tempo sull’idea che l’uomo moderno vive prima di tutto in una società, concetto che travalica sia gli individui che lo Stato. I primi teorici liberali articolano la loro critica delle istituzioni partendo dall’idea che esista una società civile che deve continuamente difendersi dalle usurpazioni del potere. Secondo gli Enciclopedisti, la società è dunque a priori buona in sé. Quel che è cattivo è il sistema politico, la monarchia assoluta, il potere che tende sempre ad eccedere dai propri limiti. Rousseau ragiona in modo esattamente opposto: l’assolutismo è a suo avviso un mero epifenomeno. Quella che per gli Enciclopedisti è una causa del male, per lui è solo una conseguenza. Si tratta di due prospettive molto diverse. Gli Enciclopedisti, che ragionano in modo puramente meccanicistico, ritengono che sarebbe sufficiente limitare il potere perché la società civile funzioni “liberamente” in un modo relativamente ottimale. Rousseau invece comprende benissimo che i fatti sociali sono molto più complessi, e che non si risolvono tutti i problemi semplicemente tenendo a freno l’autorità dello Stato o cambiando le istituzioni.

È stata soprattutto la Chiesa, che aveva riconosciuto in Rousseau un avversario dell’idea di peccato originale, a sforzarsi di presentarlo, fino all’eccesso, come il sostenitore di una « bontà naturale » dell’uomo. In realtà, per Rousseau, allo stato di natura l’uomo non è né buono né cattivo, per l’elementare ragione che non vi è in lui alcuna moralità innata. Allo stato di natura, non vi è « né bontà nei nostri cuori, né moralità nelle nostre azioni » 8. D’altro canto, l’uomo è pienamente tale solo quando è « snaturato », vale a dire quando ha cessato di essere un tutto solitario e perfetto per diventare parte del tutto sociale. Rousseau, che ritorna frequentemente su quest’idea, scrive che « le istituzioni buone sono quelle che sanno meglio snaturare l’uomo [...] in modo tale che ciascun caso particolare non si creda più uno, bensì parte del tutto ». Il suo pensiero su questo punto è dunque assolutamente chiaro. Più che “buono”, l’uomo è naturalmente innocente in quanto uomo in potenza; non è né buono né cattivo (oppure è l’una e l’altra cosa simultaneamente) in quanto uomo realizzato.

 

 

Il difficile apprendimento della libertà

 

In una seconda accezione, che acquista in Rousseau un’importanza sempre maggiore, « naturale » significa essenziale. Per Rousseau, in fin dei conti, l’uomo « naturale » non è tanto l’uomo originale, l’uomo senza società, quanto il titolare di un’essenza che lo rende autentico di fronte a se stesso. La « natura » dell’uomo è pertanto ciò che vi è in lui di specificamente umano. Di conseguenza, il problema della natura umana diventa un problema esclusivamente morale e filosofico. Per sapere ciò che l’uomo ha in sé di « naturale », bisogna intraprendere una riflessione sull’io interiore, sull’archetipo di cui l’uomo è portatore. Concordiamo con Louis Dumont quando scrive: « Il centro del messaggio di Rousseau è assai più nella coscienza morale e religiosa che nella sensibilità verso la natura, come a volte si crede ».

Qual è allora la « natura » dell’uomo? È prima di tutto la sua libertà. Rousseau abbozza un approccio particolarmente interessante quando si domanda se l’uomo dipenda proprio dalla « natura » e non piuttosto dalla libertà. La sua risposta è che i due termini s’innestano l’uno nell’altro. E da quella libertà fondamentale trae immediatamente la nozione di « perfettibilità ». Ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi è il fatto di essere perfettibile. Egli possiede la capacità di trasformarsi da solo. Rousseau non è troppo lontano, qui, dall’idea, esposta in particolare da Arnold Gehlen, di un uomo « aperto al mondo », non determinato, libero di « snaturarsi », cioè di acculturarsi come meglio crede. Lungi dal predicare il ritorno ad un qualsivoglia stato di natura, Rousseau definisce l’uomo reale come un essere che non si limita mai allo stato originario ma cerca costantemente di”superarsi e di creare nuove formule di esistenza. « La natura dell’uomo consiste nel non avere natura, e nell’essere invece una libertà » (Pierre Manent). Quest’affermazione, ovviamente, può essere interpretata in maniere diverse. Rimane l’idea fondamentale che la libertà consista prima di tutto nell’identificare il proprio essere e nell’essere se stessi, il che vale tanto per gli individui quanto per i popoli.

La libertà, d’altro canto, non è per Rousseau né una grazia né uno stato passivo. Essa esiste, in una prospettiva dinamica, esclusivamente nella misura in cui si è capaci di conquistarla. Contrariamente ai filosofi dei Lumi, Rousseau non intende fondare il legame sociale sulla “simpatia” o sull’interesse. Non spera che la società garantisca il benessere o la “felicità” ma semmai che assicuri all’uomo le condizioni in cui gli sarà possibile conquistarsi la libertà. Anche in questo caso siamo molto lontani dai presupposti economicistici e utilitaristi dell’epoca.

È importante sottolineare che è la perfettibilità a far entrare l’uomo nella storia ed a farne un essere storico nel senso pieno della parola. Mediante la sua concezione dell’uomo, Rousseau getta le basi di una filosofia della storia, che è comunque assai lontana dallo storicismo moderno. Egli non vede, come Hegel, nello sviluppo umano un progresso continuo, un’ascesa sempre più accentuata della ragione nella storia. La nozione di perfettibilità, in lui, non risolve di punto in bianco la questione del progresso. Rousseau si chiede viceversa perché la storia della perfettibilità umana sia cosi spesso una storia del male. Contrariamente all’ottimismo liberale, non crede né alle virtù intrinseche del progresso né ai futuri radiosi. In un certo senso, a suo avviso il divenire storico è neutro. La perfettibilità è fonte di errori e di speranze, di successi e di fallimenti. Causa dell’infelicità e di tutte le « miserie» dell’uomo, fonte dell’alienazione di ciò che vi è in lui di più autentico, essa può essere altresì lo strumento di una riappropriazione di ciò che gli è proprio. Nei fatti, a seconda delle circostanze, può condurre alla servitù o a una società migliore.

Contrariamente a molti suoi contemporanei, esperti in esercizi arcadici, Rousseau non crede minimamente alla possibilità di un ritorno ad uno stato originario: « La natura umana non torna indietro ». Non sogna un’età dell’oro e non vuole ricreare un paradiso perduto. È assai più volontarista. Il contratto sociale di cui parla non è, come in Locke, un evento del passato, bensì un elemento del futuro che deve essere ancora sancito. Non va ricostituito, ma scritto. Destinato a salvare l’essenza dell’uomo corrotto da una società degenerata, esso non rivela l’immagine di un individuo autosufficiente ma stimola all’azione collettiva. Quest’azione equivale ad un passaggio dalla storia incosciente, subita, alla storia cosciente. Rousseau vede bene che la società è sempre stata il risultato dell’azione degli uomini e non della loro volontà, ma ne trae conclusioni opposte a quelle enunciate ai giorni nostri da Hayek. Rousseau è risolutamente “prospettivista”:proprio perché la società si è elaborata sino ad oggi quasi all’insaputa dell’uomo, essa ha preso una direzione errata, e per questo l’uomo deve cercare di prenderne volontariamente la guida. L’esistenza umana non è inevitabilmente inautentica e “depravata”. Non si tratta di andare in cerca della “felicità” o di tornare allo “stato di natura”, ma di imboccare il cammino della libertà. L’ottica dell’uomo-buon selvaggio corrotto dalla società appare di conseguenza un po’ miope; l’uomo è semmai un animale perfettibile, che la sua perfettibilità ha portato ad autoalienarsi ma che può ritrovare l’autenticità senza dover ritornare ad uno stadio anteriore. L’uomo deve essere creatore di se stesso.

Operare all’avvento di una società migliore significa in definitiva sapere come l’uomo può essere conforme alla propria essenza, come può essere se stesso. Questa preoccupazione di « autenticità » spiega l’influenza esercitata da Rousseau sui romantici tedeschi e sulla generazione dello Sturm und Drang, un’influenza che si esprimerà peraltro in due forme differenti, dato che gli uni assegnano il primato al sentimento della natura e gli altri alle esigenze morali. La morale di Rousseau non si riduce infatti alle prerogative del sentimento, a quel« diritto del cuore »che ha fatto accostare il Werther di Goethe alla Nouvelle Héloise. È un’esigenza etica più fondamentale, già annunciata da Kant, il quale elaborerà d’altro canto la sua teoria morale con esplicito riferimento a Rousseau; e proprio “fra Kant e Rousseau” si elaborerà il discorso dei giovani scrittori dello Sturm und Drang.

 

 

Contro l’autoaddomesticamento attraverso l’opinione

 

Veniamo adesso al problema dell’eguaglianza. Anche in questo caso, è troppo facile restare fermi alla frase «Tutti gli uomini sono nati eguali e liberi» (Contratto Sociale). L’idea che Rousseau si fa dell’eguaglianza è in realtà molto complessa, e non ha niente a che vedere, ad esempio, con le idee di un Baboeuf. L’eguaglianza di natura si riduce in lui all’appartenenza specifica: gli uomini sono eguali nella misura in cui appartengono alla medesima specie (sub specie naturae); ed anche alla costituzione metafisica della natura umana: gli uomini sono soggetti ad una comune finitezza, sono tutti egualmente votati alla morte. Accanto a quest’eguaglianza legata alla condizione umana, c’è un’ineguaglianza naturale che Rousseau non nega assolutamente. Nel Discorso, anzi, fa esplicita menzione di tale ineguaglianza « stabilita dalla natura », « che consiste nella differenza di età, di salute, delle forze del corpo e delle qualità dello spirito, dell’anima ». Certo, il contratto sociale rappresenta un momento in cui l’eguaglianza fra gli uomini è perfettamente realizzata; ma Rousseau descrive l’eguaglianza che si stabilisce a quel punto come un « impegno reciproco di tutti verso ciascuno ». Questo concetto di reciprocità è abbastanza vicino alla definizione aristotelica di giustizia, ed indirizza l’idea di eguaglianza verso quella di proporzione o di giusta misura: a ciascuno ciò che gli spetta. Sul piano sociale, Rousseau rifiuta peraltro senza ambiguità quello che Montesquieu chiamava lo spirito di « eguaglianza estrema ». Il dispotismo di tutti non è a suo avviso migliore del dispotismo di uno solo, ed egli vede chiaramente che l’eguaglianza estrema non riconosce più alcun dovere e conduce alla tirannia di tutti. Nei suoi progetti per la Corsica e la Polonia, preconizza addirittura l’istituzione di una gerarchia di tre classi non ereditarie, aventi funzioni e privilegi differenti. Non auspica affatto la sparizione delle differenze sociali; si limita a chiedere che le diseguaglianze sociali si accordino con le diseguaglianze naturali e non comportino insopportabili dominazioni. « Riguardo all’eguaglianza », scrive, « non bisogna intendere con questa parola che i gradi di potenza e di ricchezza siano assolutamente gli stessi, ma che, quanto alla potenza, essa sia al di sotto di ogni violenza e non si eserciti mai solamente in virtù del rango e delle leggi, e, quanto alla ricchezza, che nessun cittadino sia tanto opulento da poterne acquistare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi » (Discorso). Per riprendere la celebre distinzione di Isocrate, Rousseau si pronuncia in definitiva più per un’eguaglianza geometrica, vale a dire per una giustizia distributiva, che per l’eguaglianza aritmetica caratteristica dell’egualitarismo moderno. Questa è l’opinione di Raymond Polin, il quale scrive: «Rousseau non ha mai difeso altra eguaglianza al di fuori di una forma proporzionale e moderata di eguaglianza, che riconosce la legittimità delle distinzioni e delle differenze morali e politiche a patto che esse si accordino alle ineguaglianze stabilite dalla natura » 9.

Rousseau non critica neanche il diritto di proprietà, e neppure l’ineguaglianza della proprietà, ma intende in compenso limitarne gli abusi. « La proprietà », afferma, « è il più sacro fra tutti i diritti del cittadino, più importante, per certi versi, della stessa vita ». Inoltre, la proprietà è « il vero garante degli impegni dei cittadini », giacché la legge sarebbe inapplicabile se le persone non potessero rispondere della sua applicazione sui loro beni. Rousseau contesta invece l’idea di Locke secondo la quale il diritto di proprietà è un diritto naturale, creato dal lavoro. La proprietà, egli dice, è « di convenzione e di istituzione umana », il che significa che il diritto di proprietà è un diritto sociale. Anche lo Stato non è per lui, diversamente che per Diderot, un « dispensatore di felicità », ma deve intervenire quando i dislivelli patrimoniali raggiungono un punto tale da condannare talune categorie di cittadini ad una dipendenza economica che le riduce alla condizione di oggetti. In linea generale, Rousseau comprende benissimo che i diritti possono esistere solo là dove vi è una relazione: il diritto nasce con la società. I diritti dell’uomo, nel senso in cui li definiscono i teorici liberali, come diritti imprescrittibili che l’uomo trarrebbe dal suo « stato di natura », lo lasciano assolutamente indifferente.

L’importanza che Rousseau assegna alla società civile lo porta a riconoscere che il potere centrale, all’interno di tale società, risiede nell’opinione. Essa fissa la posizione degli uomini e il credito di cui godono, determina la considerazione sociale da cui risultano la maggior parte delle diseguaglianze. (Qui si nota, ancora una volta, l’originalità di Rousseau: non è dalle diseguaglianze che discende la considerazione sociale, ma è dalla considerazione sociale che discendono le diseguaglianze). E in questa critica Rousseau manifesta nuovamente il suo antiliberalismo. Se la prende con l’assiomatica dell’interesse: la società « porta necessariamente gli uomini ad odiarsi tra di loro in proporzione all’incrociarsi dei loro interessi ». Si rende perfettamente conto che, nelle società moderne, il differenziale di valore attribuito agli uomini è ricalcato innanzi tutto sul processo attraverso il quale le cose ricevono un prezzo. La stima attribuita ad ognuno si allinea sul valore di scambio.. Ora, per Rousseau, il valore degli uomini non può essere ridotto ad un prezzo. Egli intende dunque dimostrare che, essendo le qualità personali all’origine delle diseguaglianze e dei fenomeni di subordinazione che queste ultime provocano, « la ricchezza è l’ultima a cui esse si riducono alla fine, perché, essendo la più immediatamente utile al benessere e la più facile da comunicare, ci se ne serve facilmente per comprare tutto il resto » (Discorso).

Rousseau osserva che questa ineguaglianza “concorrenziale” la si ritrova a Parigi come a Londra, a Napoli come a Ginevra. Il potere del denaro è un portato della nascente modernità, che ha collocato il borghese al posto del cittadino. L’uomo moderno non vive né per gli altri né per la patria, ma soltanto per la considerazione di un’opinione pubblica spontaneamente portata a ricalcare il credito sociale sul credito monetario, cioè sul denaro. Rousseau chiama tale atteggiamento « amor proprio », e in esso vede una degenerazione dell’amore in sé.« L’amor proprio non è l’amore di sé », scrive Pierre Manent,« anzi ne è per certi versi l’opposto. L’amor proprio vive di comparazioni, è il desiderio di vedersi attribuire dagli altri la stessa stima che ci si assegna da soli, ed è condannato ad essere frustrato, dal momento che ciascuno ha il medesimo amor proprio e prova il medesimo desiderio. L’amor proprio sa di non poter essere soddisfatto, ed odia gli altri per il loro amor proprio. Esso nutre nell’anima la frustrata predilezione di se stessi e l’odio impotente degli altri. L’uomo di una simile società vive esclusivamente nello sguardo degli altri, che odia»10. Invidia e frustrazione formano pertanto la coppia maledetta dello spirito moderno. Vediamo spuntare, in queste parole, un’analisi del risentimento che precorre contemporaneamente Nietzsche e Tocqueville. La trasformazione dell’uomo naturale in uomo socievole, in « uomo dell’uomo », tale quale è descritta nella seconda parte del Contratto sociale, attesta d’altronde l’importanza della funzione svolta dall’amor proprio e dal risentimento per il tramite delle preferenze e dei paragoni. Il paragone suscita delle preferenze; le preferenze danno vita a relazioni personali individualizzate; queste ultime vengono mediatizzate dall’opinione degli altri, che è all’origine delle diseguaglianze. Descrivendo questo processo, Rousseau mette in rilievo anche il legame esistente fra il dominio della natura e l’autoalienazione dell’uomo. Più l’uomo si pone come un soggetto di cui il mondo è l’oggetto, più si sottrae ad un rapporto di coappartenenza al mondo, più si trasforma a sua volta in oggetto, perde il senso dell’esistenza e diventa estraneo a se stesso. Un’idea che si riaffaccerà in Heidegger. Rousseau constata infine che, nella società che è il risultato di questa evoluzione, la « libertà » è mera illusione: quando tutti i componenti della società sono schiavi dell’opinione pubblica, la libertà di ognuno non è altro che l’impotenza di tutti. E ciò giustifica le espressioni pungenti attraverso cui si esprime la sua critica dello spirito borghese 11.

Rousseau descrive il borghese come un « essere duplice », diviso, totalmente sottomesso ai diktat dell’opinione pubblica, e che per questo non ha altro scopo all’infuori di quello di apparire. Evocando la nascita del borghese, egli scrive nel Discorso sull’ineguaglianza: « Essere ed apparire divennero due cose assolutamente differenti; e da tale distinzione nacquero il fasto imponente, l’astuzia ingannevole e tutti i vizi che le fanno ala [...] Tutto riducendosi alle apparenze, ogni cosa divenne fittizia e atteggiata ». Questo brano è importante, perché mostra come agli occhi di Rousseau il borghese si definisca, ancor più che per la posizione economica, per il tipo psichico, per la mentalità. Il borghese è la negazione stessa di tutto ciò che è autentico, di tutto ciò che rimanda l’uomo alla sua sostanza essenziale. È un uomo falso, privo di consistenza, un decadente che vive esclusivamente in funzione dell’opinione degli altri, un essere che si caratterizza per la menzogna, la prudenza, il calcolo, lo spirito servile, la bassezza morale, la mediocrità dei sentimenti: « Sarà uno di questi uomini dei nostri giorni, un francese, un inglese, un borghese; non sarà niente» 12.

 

 

La figura del cittadino contro quella del borghese

 

Su questo punto, la contrapposizione agli autori liberali è totale. Mentre costoro criticano il potere ma non la ricchezza, Rousseau se la prende con i ricchi assai più che con i potenti. Mentre gli Enciclopedisti cercano prima d’ogni altra cosa di modificare il sistema istituzionale e politico, Rousseau si rende benissimo conto che il problema posto dall’onnipotenza di una visione sociale fondata sulla comparazione e sull’invidia, e in fin dei conti. Sul potere del denaro, è di una natura infinitamente più complessa. Rousseau è dunque ben lungi dall’opporre all’assolutismo francese il regime liberale inglese tanto ammirato dall’illuminismo. Vede bene che, al di là di ciò che li separa, i due sistemi presentano dei punti comuni e consacrano entrambi l’ascesa del medesimo tipo borghese, vale a dire di quel tipo d’uomo che mira costantemente e prima di tutto al suo interesse 13. Soprattutto, Rousseau non crede per un solo istante che la società civile, lasciata a se stessa, possa fare la felicità degli uomini, né che la ricerca dell’interesse egoistico possa, grazie all’azione di una “mano invisibile” «vizi privati, pubbliche virtù », finire col giovare a tutti. In verità, detesta l’egoismo: « Quando nessuno vuol essere felice se non per se stesso, non vi è alcuna felicità per la patria» 14. Al contrario, intende lottare contro l’indifferenza dei membri della società verso la cosa pubblica e vuole che si contenga « in stretti limiti quell’interesse personale che isola talmente i singoli che lo Stato si indebolisce a causa della loro potenza e non ha alcunché da sperare dalla loro buona volontà ».

In Rousseau non vi è nemmeno traccia della fiducia ottimistica con cui gli Enciclopedisti osservano la fioritura e il movimento delle scienze. Egli non condivide l’idea secondo la quale esisterebbe un’armonia naturale fra le esigenze della società e quelle della scienza, né si aspetta che la diffusione del sapere faccia arretrare le “superstizioni”. In un celebre testo (Si le rétablissement des sciences et des arts a contribué à épurer les moeurs, 1750) esprime i suoi dubbi riguardo ai poteri della scienza. Ed altrove ricorda che «se la ragione ci illumina», «la passione ci conduce».

Forse è alla luce di questo rifiuto dello scientismo che occorre considerare l’importanza che egli dà al sentimento. È noto che per lui la coscienza è ciò che per il corpo è l’istinto. « Troppo spesso la ragione ci inganna [...] ma la coscienza non si inganna mai », possiamo leggere nell’Émile (IV). Questo soggettivismo morale, questa idea che la coscienza personale è l’unica in grado di determinare il bene e il male «Tutto ciò che sento essere bene è bene, tutto ciò che sento essere male è male; il migliore di tutti i casisti è la coscienza » è valso a Rousseau delle critiche, soprattutto da parte di Maurras, che sono assolutamente giustificate. Bisogna tuttavia osservare che se Rousseau concede uno spazio così ampio agli slanci della coscienza, se tesse l’apologia del sentimento e delle passioni, se canta l’« anima della natura » e lo scaturire delle sensazioni che essa produce, lo fa anche per reagire contro lo spirito degli Enciclopedisti, che concepiscono la società esclusivamente sotto forma di una meccanica sociale, per asserire l’imperfezione della ragione e contrapporle le prerogative dell’anima; forse anche per affermare l’esistenza di un legame fra l’uomo e il mondo in un’epoca in cui la nascente industrializzazione fa di quest’ultimo un semplice oggetto del quale la ragione umana deve prendere possesso.

Alla figura del borghese moderno, Rousseau contrappone significativamente quella del cittadino, di cui trova gli esempi più compiuti nell’Antichità. « Quando si legge la storia antica », scrive, « ci si crede trasportati in un altro universo e in mezzo ad altri esseri. Che cosa hanno in comune i francesi, gli inglesi, i russi, con i romani e i greci? Quasi nient’altro che l’aspetto [...] Eppure essi sono esistiti, ed erano esseri umani come noi. Che cosa ci impedisce di essere uomini come loro? I nostri pregiudizi, la nostra bassa filosofia e la passione del meschino interesse con l’egoismo in tutti i cuori a causa di istituzioni inette, che il genio non ha mai dettato » 15. L’entusiasmo e l’amarezza che ispirano queste righe sono sufficientemente rivelatori. Rousseau è un ammiratore appassionato dell’Antichità. Ha una consapevolezza acuta dell’egoismo ed ama i grandi uomini. Non ha forse imparato a leggere su La vita degli uomini illustri di Plutarco? Nell’Antichità cercherà la conferma del fatto che esiste un’altra forma di vita, diversa da quella del borghese del suo tempo. Dallo studio dell’Antichità trae l’idea di una società in cui le distinzioni si fondino su virtù reali e non sulla ricchezza, sulla nascita o anche sulla semplice abilità. A Roma e a Sparta, tra i « fieri Lacedemoni », cercherà il modello del suo cittadino. Non condivide affatto, quindi, le critiche formulate da Hobbes nei riguardi dell’ideale sociale antico. E in contrasto con Montesquieu, il quale ammirava la città antica ma le rimproverava di esigere dai suoi membri una snervante disciplina civica, sostiene con forza un ritorno al civismo dei liberi cittadini.

È ancora l’esempio antico a servirgli per fondare l’eguaglianza sulla libertà, e non la libertà sull’eguaglianza. La sua concezione della libertà è d’altronde assai più vicina a quella che Benjamin Constant chiamava la « libertà degli Antichi » che non alla libertà dei Moderni, i quali la intendono esclusivamente come affrancamento dell’io individuale e autonomia del soggetto. La libertà come la concepisce Rousseau è invece inseparabile, nell’ordine sociale, dall’idea di partecipazione.

Rousseau crede nella democrazia diretta. Idealmente, essa è il migliore dei regimi, perché il popolo vi rimane in ogni momento padrone del potere sovrano. Essa garantisce ad ogni uomo una libertà totale e un’autonomia perfetta, pur assicurando un governo conforme all’interesse generale. Da ciò deriva la critica fondamentale rivolta da Rousseau al concetto di rappresentanza. Contrariamente a quanto accade nel contratto sociale di Hobbes o di Locke, Rousseau esclude ogni delega di sovranità ai governanti ed esige l’istituzione del mandato imperativo. Nel sistema che propone, il popolo non stipula alcun contratto con il sovrano: i loro rapporti sono retti esclusivamente dalla legge. Il principe non è altro che l’esecutore del popolo, il quale resta l’unico titolare del potere legislativo. Egli non rappresenta la volontà generale, non ne è l’incarnazione ma solo lo strumento; tutt’al più è demandato, commis, ad esprimerlo. Infatti, fa osservare Rousseau, se il popolo è rappresentato, sono i rappresentanti a possedere il potere, ed in tal caso il popolo non è più sovrano. Ora, per Rousseau, la sovranità popolare è inalienabile, ed ogni rappresentanza equivale pertanto ad un’abdicazione.

In questo schema, il sovrano detiene dunque il potere esecutivo, ma non il potere legislativo. Rousseau chiama « governo democratico » un sistema nel quale il popolo è anche titolare del potere esecutivo, eventualità che gli pare completamente utopica. Per cui scrive: « Se vi fosse un popolo di dèi, si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non conviene a degli uomini [...] Non è mai esistita una vera democrazia, e non ne esisterà mai una» 16. Questa affermazione, che è stata oggetto di così tanti malintesi, deve essere interpretata correttamente. Rousseau vuole solamente dire con ciò che il potere legislativo non può essere confuso col potere esecutivo, poiché « è contro l’ordine naturale che il gran numero governi» 17. Il popolo non può governare da solo, ma può in compenso legiferare e «incaricare» poi dei governanti 18.

Il rifiuto di qualsiasi sistema rappresentativo comporta il rifiuto delle fazioni e dei partiti. Perciò Rousseau attacca vigorosamente la costituzione inglese, che a suo avviso non garantisce tanto le libertà quanto i privilegi dei rappresentanti: « Il popolo inglese pensa di essere libero, si sbaglia fortemente, lo è solo durante l’elezione dei membri del Parlamento; non appena sono eletti, esso è schiavo, non è niente. Nei brevi momenti di libertà, l’uso che ne fa gli fa meritare di perderla!» 19.

Mentre i filosofi dei Lumi vogliono limitare le prerogative del potere e contestano la stessa nozione di sovranità, Rousseau fa invece di tale concetto la pietra angolare dell’intero suo sistema politico. Definendo sovrano il corpo politico generato dal contratto sociale, ne deduce che, essendo una la volontà generale, la sovranità che ne risulta non può essere frammentata, a rischio di perdere qualunque significato. Per definizione, la sovranità non si divide. Rousseau respinge quindi ogni separazione dei poteri, ogni tentativo di dividere la sovranità. Il contrasto con le posizioni liberali è eclatante: egli respinge l’alternativa tra liberalismo e dispotismo o per meglio dire pensa che, istituendo il cittadino, si possa assicurare l’unità politica e sociale senza peraltro cadere nel dispotismo. Si potrebbe dire che in “definitiva Rousseau vuole semplicemente cambiare monarca: sostituisce il re di diritto divino col popolo, senza mai abbandonare l’idea di una sovranità assoluta. Detto questo, è piuttosto indifferente alla forma di governo. Non è ostile, ad esempio, al governo aristocratico, che definisce espressamente il « migliore dei governi» 20. Ma è una affermazione che va intesa all’interno del suo sistema.

L’essenziale, per Rousseau, è che il popolo detenga il potere legislativo e non lo abbandoni mai. Una volta acquisito questo, il potere esecutivo può anche avere una forma aristocratica. La capacità di governare non si confonde, in questo caso, con la sovranità. 

In linea di principio, il ragionamento regge benissimo. È chiaro che, sul piano umano, la democrazia non si è mai davvero realizzata se non nella forma diretta: un cittadino che delega ad un rappresentante, anche se eletto da lui, il diritto di approvare la legge o di rifiutarla, cede in quello stesso momento la sua autonomia e fa uso della libertà solo per spogliarsene. È altrettanto evidente che, in teoria, solamente la regola dell’unanimità rispetta l’autonomia. Ne consegue che un’autentica democrazia esige non solo il consenso di una maggioranza, ma anche il consenso di tutti. Ma è sufficiente enunciare questo principio per rendersi immediatamente conto dei rischi che presenta, quantomeno se si cercasse di applicarlo nell’ambito di una vasta popolazione. L’unanimità può a rigore essere raggiunta in città o comunità molto piccole, dalla popolazione molto omogenea, che abbiano valori ed interessi immediatamente comuni. Più il numero dei membri della società è elevato, più al contrario è probabile che vi si manifesti una diversità di opinioni inconciliabili; a meno che non si cada nel dispotismo, l’idea di unanimità si trasforma in una inaccessibile chimera. Georges Sorel, come è noto, rimproverava a Rousseau proprio di aver immaginato una democrazia ricalcata sul modello ginevrino. In realtà, anche qui ci imbattiamo nel modello della città greca. Rousseau non elude comunque il problema. È cosciente del fatto che la democrazia diretta (o semi-diretta) richiede, per poter esistere, condizioni che di rado sono rispettate. E d’altronde è questo il motivo per cui, a differenza dei liberali, non è affatto incline a proporre soluzioni universali: il suo progetto per la Corsica differisce notevolmente da quello che concepisce per la Polonia. Tende semmai a ricorrere al principio di autorità: ritiene ad esempio che un governo debba essere tanto più forte quanto più alto è il numero dei suoi soggetti 21, ed anche che, nelle situazioni d’urgenza, una dittatura alla romana (res publicae servanda, «al servizio della cosa pubblica») possa essere giustificata.

 

Un individualismo che sfocia in un modello olista.

 

In realtà, in Rousseau non prevale tanto l’avversione per ogni forma di assolutismo quanto l’ossessione per i pericoli della nocività della divisione. Sul piano politico, egli ammira l’unità della città antica; sul piano antropologico, descrive il borghese come un essere diviso, e traccia peraltro un interessante parallelo tra la divisione del potere temporale e del potere spirituale, da un lato, e dall’altro la divisione che il liberalismo stabilisce tra il cittadino come parte del corpo sociale e l’individuo isolato che mira alla massimizzazione del proprio interesse. Come Hobbes, reputa che la conversione dell’Europa al cristianesimo non potesse non comportare una disastrosa distinzione tra potere spirituale e potere temporale, dalla quale è risultato « un perpetuo conflitto di giurisdizione che ha reso ogni buona politica impossibile negli Stati cristiani» 22. Il conflitto tra il cittadino e il cristiano viene perciò considerato, a ragione, alla stregua di una premessa del conflitto tra l’individuo e la società.

Con tutto ciò, Rousseau vede acutamente ciò che il liberalismo e l’assolutismo, che la filosofia dei Lumi considera dottrine totalmente opposte, hanno in comune, vale a dire l’importanza data all’individuo rispetto al sociale. (La differenza è che l’assolutismo crede nella natura ribelle degli individui e dunque nella necessità di usare la forza per legarli fra di loro, mentre il liberalismo professa in proposito un completo ottimismo). Nei liberali, Rousseau critica l’idea che il sociale debba fondarsi sull’impulso individualistico e sull’autonomia della società civile; ma nel con tempo rimprovera alla monarchia francese di aver smantellato i corpi e gli stati tradizionali, mano a mano che vi si è affermata l’influenza della borghesia, per trasformarli in entità composte unicamente di individui 23.

Rousseau si rifà alla definizione aristotelica di cittadino: cittadino è colui che partecipa all’autorità sovrana. La cittadinanza è quindi direttamente legata alla vita politica. Lo spazio politico costituisce la mediazione indispensabile ai rapporti fra i cittadini; è il luogo in cui costoro possono trovare la loro unità al di fuori di un’appartenenza dettata dall’origine. Il cittadino perciò non è affatto un essere “naturale”. Nella città, egli dipende esclusivamente dalla legge, e non dagli uomini. Al contrario del borghese, presenta in primo luogo la caratteristica essenziale di non essere diviso. È un’unità, che una buona società deve preservare come tale. In definitiva, la società deve permettere a ciascun cittadino di identificarsi nella città di cui fa parte: l’individuo deve essere tutt’uno con il corpo sociale. Questa convinzione fa capire come Rousseau sia assolutamente estraneo a schemi ispirati a una qualunque forma di “lotta di classe”. La società ben ordinata si distingue, nel suo pensiero, per l’integrazione armonica di tutte le sue componenti. La società è prima di tutto una comunità, un insieme in cui ogni parte è subordinata al tutto. Platone diceva: « Niente si fa per te, ma tu sei fatto per il tutto » (Leggi, X). Rousseau si pronuncia per« l’alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità » (Contratto Sociale). Contrariamente ad Hobbes, che descrive la società in termini puramente meccanicistici, gli capita persino di paragonare il corpo sociale ad un organismo vivente; non è tuttavia organicista in senso proprio, in quanto per lui la solidarietà fra le parti ha radici non nella sola coesione organica o nell’origine comune, bensì nel fatto politico rappresentato dal contratto sociale e dalla volontà generale che ne deriva. Richiamando il contratto sociale, Rousseau scrive: «Questo atto di associazione produce un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quante sono le voci dell’assemblea, il quale riceve da tale atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà» 24.

Il ragionamento di Rousseau è su questo punto assai particolare. Parte da una premessa individualistica per giungere a conclusioni olistiche. L’uomo può essere autonomo, dice Rousseau, perché è libero ed originariamente uno, ed è su questo modello di un’autonomia individuale che deve fondarsi l’autonomia della società nella sua interezza: « Chi osa intraprendere di costituire un popolo deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana; di trasformare ciascun individuo, che in sé è un tutto perfetto e solitario, in parte di un più grande tutto da cui questo individuo riceva in qualche modo la propria vita ed il proprio essere » 25. Si tratta dunque si di un modello olista, ma di un olismo “costruito” sul modello dell’individuo. Orbene, questo passaggio dal livello individuale al livello sociale solleva evidenti difficoltà. Come può il cittadino, figura ideale dell’umanità reale, adeguare continuamente il proprio interesse a quello della città senza soffrirne una fondamentale alienazione? Come può l’autonomia individuale fondersi con l’autonomia sociale senza che la seconda, inevitabilmente, restringa la prima? A questi quesiti, Rousseau risponde facendo di nuovo perno sul contratto sociale e sulla volontà generale. Stabilendo una discontinuità fra l’uomo naturale e l’uomo in società, il contratto sociale segna il vero emergere dell’umanità propriamente detta; ma il contratto sociale implica la volontà generale, che consente a Rousseau di riproporre l’olismo contro l’individualismo sottinteso precedentemente nel suo discorso.

Che cos’è la volontà generale? Rousseau dà a tratti l’impressione di confonderla con la volontà di tutti, cioè con la semplice addizione delle volontà individuali. Ci vuol poco, tuttavia, a constatare che le cose non stanno in questi termini. La volontà generale si fonda sul volere unanime di coloro che hanno creato il corpo politico; è la volontà di tale corpo in quanto totalità costituita. I suoi unici atti sono delle leggi, e sono quegli atti a permettere di porre l’interesse generale, il bene comune, al di sopra delle opinioni individuali e degli interessi particolari. Rousseau, si è già visto, definisce la libertà come una capacità autonoma di partecipare al sociale; in una prospettiva di questo genere, l’autentica libertà consiste nel movimento autonomo della volontà che aderisce alla legge, e per questo il punto culminante della sua realizzazione è la volontà generale. Beninteso, « ciascun individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contraria o dissimile dalla volontà generale che ha come cittadino ». Il suo interesse particolare può parlargli in termini del tutto diversi dall’interesse comune ». L’individuo, prosegue Rousseau, deve comunque far prevalere la volontà generale. Qui, ovviamente, si collocano le frasi che gli sono state tanto spesso rimproverate: « Quando si propone una legge nell’assemblea del popolo, ciò che si chiede loro non è precisamente se essi approvino la proposta o la respingano, ma se essa è conforme o no alla volontà generale che è la loro [...] Quando dunque l’opinione contraria alla mia prevale, ciò non prova altro se non che mi ero sbagliato, e che quella che reputavo essere la volontà generale non lo era» 26. E poiché si ritiene che l’autonomia individuale si sia fusa con l’autonomia sociale, Rousseau può affermare che, sottomettendosi alla volontà generale, in definitiva gli individui non si sottomettono che a se stessi!

Si pone dunque inevitabilmente il problema di sapere se la volontà generale sia infallibile. Rousseau risponde in un modo che può far sorridere: « La volontà generale è sempre giusta (droite), ma il giudizio che la guida non è sempre illuminato ». Il che lo porta ad immaginare la figura del « Legislatore », personaggio piuttosto ambiguo, che avrebbe la capacità di comandare alle leggi senza possedere né « diritto legislativo » né magistratura governante. I commentatori non hanno ovviamente mancato di comparare questo « Legislatore » alle « guide » provvidenziali delle quali i totalitarismi moderni hanno fatto un grande uso. Bisogna tuttavia notare che in Rousseau la volontà generale è più una forza di resistenza che una forza di comando. Il suo scopo essenziale è quello di esprimere il diritto cosi come il governo incarna la forza, essendo l’uno e l’altra necessari al funzionamento dello Stato. Manifestando la legge, la volontà generale anima in senso proprio il corpo sociale, gli dà « il movimento e la volontà », divenendo cosi il principio della sua conservazione. Essa è perciò « l’unica forma che convenga alla volontà in quanto volontà etica in generale, l’unica istituzione in cui può effettuarsi il passaggio dalla semplice arbitrarietà alla legge » (Cassirer).

Essa sfugge inoltre ad ogni interpretazione riduzionista. Incarnando la sovranità, essa trascende le volontà individuali e possiede caratteristiche proprie, che non si rilevano in alcuna delle sue componenti prese isolatamente, esattamente nello stesso modo in cui l’interesse comune trascende gli interessi individuali e non si limita ad esprimerli in maniera additiva. Rousseau sottolinea peraltro con forza che « ciò che realizza la volontà non è tanto il numero delle voci quanto l’interesse comune che le unisce ». La teoria della volontà generale va dunque al di là dell’idea di maggioranza quale emerge dal suffragio universale; valorizza anzi il concetto di interesse comune, la cui percezione implica una certa omogeneità fra i componenti la società. In questo senso, essa si accompagna all’esistenza e al mantenimento di un’identità collettiva. Da ciò l’importanza che Rousseau attribuisce al « carattere di un popolo », al « sentimento di appartenenza », alle « abitudini condivise », e cosi via. È noto che egli pone la legge al di sopra di tutto, giacché ai suoi occhi essa sola può realizzare la giustizia che è condizione della libertà; e nondimeno, al di sopra della legge colloca ancora i costumi. « Con la sola ragione », scrive, « non si può stabilire alcuna legge naturale» 27, mentre in.. vece i costumi sono ciò che fa la « vera costituzione degli Stati» 28. Quando le leggi invecchiano e si estinguono, sono i costumi a rianimarle. L’abitudine e la tradizione costituiscono pertanto il coadiuvante naturale dell’autorità: « Niente può surrogare i costumi per il mantenimento del governo ». Siamo lontani dalla filosofia dei Lumi, che si accanisce a sradicare tradizioni che la ragione smaschererebbe come pure “superstizioni”...

Di conseguenza, il popolo si identifica nella nazione radunata e si oppone del tutto naturalmente alla massa (« la moltitudine »); mentre la moltitudine può sempre essere governata da un tiranno, il popolo non esiste più quando la Repubblica è dissolta. Si capisce facilmente, allora, perché la volontà generale sia stata accostata alla « coscienza collettiva » di Durckheim o all’«anima popolare» (Volksseele) cara ai romantici, benché le condizioni del suo formarsi siano esclusivamente politiche e dunque volontaristiche. Non vi è dubbio infatti che la volontà generale preesiste, sotterraneamente, alla sua espressione in un voto maggioritario. Essa