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Libertà, eguaglianza, identità

di Alain de Benoist - 17/11/2007

 

 

Cosa bisogna sapere di un uomo per stabilirne l’identità? Quel che lo caratterizza specificamente o a quali categorie appartiene? E cosa bisogna sapere di se stessi per rispondere alla domanda «chi sono?»? E poi, si tratta davvero di un sapere? Di qualcosa che bisognerebbe scoprire, o dentro di sé o gettando lo sguardo al di là di sé, oppure di qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno? Studiare il concetto d’identità significa affrontare una serie di paradossi.

Un primo paradosso consiste nel fatto che l’identità indica nel contempo quel che ci distingue dagli altri e quel che ci rende simili a loro o a taluni tra loro. L’identità rinvia tanto allo specifico quanto all’identico, tanto al simile quanto al dissimile, tanto alla differenza quanto alla somiglianza. Da un lato, essa risponde a una logica di definizione del soggetto («chi sono?»), dall’altro a una logica di appartenenza («su cosa si fonda la mia socievolezza?»). Nel primo caso, dice in che cosa differisco da ognuno che non sia me. Nel secondo, fonda il legame sociale che mi unisce a tutti coloro che condividono gli stessi valori simbolici, le stesse pratiche sociali, le stesse forme di linguaggio. Il concetto di identità si articola in modo dialettico con l’interfaccia dell’appartenenza e della singolarità.

Il “grande disagio” della modernità ha a che vedere con la cancellazione o con la messa al bando delle differenze, e quindi delle identità. Nel contempo, però, il problema dell’identità si pone soltanto a partire dal momento in cui l’individuo può costituirsi in fonte sufficiente di determinazione di sé. Ciò significa che l’interrogativo attinente l’identità nasce sia dalla cancellazione delle differenze, sia dallo sboccio dell’ideale dell’espressione del sé. La domanda di identità è una domanda antimoderna, nella misura in cui la modernità continua incessantemente ad estendere l’indistinzione, ma si esprime nelle categorie – irreversibili – della modernità: la preoccupazione per il sé. Questo è un secondo paradosso.

L’identità non è solamente un concetto psicologico con il cui ausilio si cerca di cogliere l’aspetto fondante della coscienza del sé. È anche un termine politico e sociale. Già la decolonizzazione, dopo il 1945, aveva avuto quale motore essenziale la negazione del riconoscimento della personalità specifica dei colonizzati, e di conseguenza la loro volontà di affermare un’identità collettiva minacciata non solo da un potere politico-economico dominante ma da un’eterocultura imposta. Contro la negazione o l’oblio di un proprio passato, essa è pertanto andata di pari passo con la riappropriazione di una memoria. Oggi, la globalizzazione stimola le prese di coscienza identitarie nella misura in cui tende a sradicare le identità. Anche la moda dell’ecologia testimonia una ricerca di “autenticità” che non è priva di rapporti con l’identità. La rivendicazione dell’identità appare così come il terzo elemento di un trittico storico: prima si è chiesta la libertà, poi l’eguaglianza e infine l’identità.

Le società contemporanee evolvono verso un pluralismo crescente, che si traduce nell’emergere di una pluralità di identità. Le rivendicazioni legate all’identità (linguistiche, etnoculturali, religiose, sessuali e così via) fioriscono da ogni parte, alimentando dibattiti appassionati. Queste rivendicazioni non aspirano soltanto alla dignità nell’eguaglianza, ma prima di tutto ad un riconoscimento che ormai non si può più confinare nello spazio privato. L’ingiustizia per eccellenza non risiede più soltanto nelle “ineguaglianze”, ma anche nel rifiuto di riconoscere le identità, reali o postulate. All’esigenza quantitativa di ridistribuzione (delle risorse e dei beni) si sostituisce l’esigenza qualitativa e morale di un riconoscimento di tali identità. È quel che osservava Albert O. Hirschman quando notava che «le lotte sociali assumono sempre più la forma di conflitti relativi a beni “non ridistribuibili” la cui natura, contrariamente a quella dei conflitti che hanno per oggetto beni che possono essere ridistribuiti, ne esclude la ripartizione secondo il principio di eguaglianza». Questi conflitti identitari sono tanto più difficili da risolvere in quanto, contrariamente ai conflitti sociali di tipo classico, hanno per oggetto valori che per definizione non sono negoziabili.

È dunque l’intera evoluzione della società globale a far risorgere il problema della differenza e del riconoscimento dell’alterità, rinnovando un vecchio dibattito che si era già espresso all’epoca di Herder nella contrapposizione tra il romanticismo e l’illuminismo: evoluzione prevista da Henri Lefebvre, che nel suo Manifesto differenzialista del 1970 già descriveva l’epoca attuale come quella di una «lotta titanica nella quale si affrontano i poteri omogeneizzanti e le capacità differenziali».

Non bisogna tuttavia cadere in errore: il ritorno in forza delle rivendicazioni legate all’identità è anche l’indizio della cancellazione delle identità. Abbiamo dinanzi delle rivendicazioni di identità, dei simulacri di identità (pseudo-riradicamenti folcloristici, rianimazione artificiale di tradizioni prive della benché minima portata sociale, concorrenza delle “memorie”), molto più che non delle identità reali. Se il “problema dell’identità” impregna così tanto le coscienze, è perché le mobilita prima di tutto intorno ad un oggetto perduto, o incerto, che si trasforma continuamente. Si desidera tanto più intensamente che la propria identità venga riconosciuta quanto più si ha la sensazione di non averne già più una.

La consacrazione dell’autonomia come norma ultima si è sostituita ai “grandi racconti” che un tempo conferivano senso alla vita di ciascuno. L’individuo deve ormai determinare da solo il senso della propria esistenza, affinché essa possa collocarsi in una prospettiva di durata. Per fare ciò, è costretto a dire ciò che è o ciò che intende essere, perché enunciare la propria identità è, oggi più che mai, una maniere per produrre senso. Ma anche questa esigenza è in sé paradossale. Quella stessa modernità che ingiunge di rispondere alla domanda «chi sono?» pretende infatti di assicurare l’autonomia del soggetto in un mondo in cui i punti di riferimento vanno cancellandosi, vale a dire in un mondo in cui l’identità non può più essere data per scontata. Essa mette in primo piano la nozione di identità mentre incessantemente continua a promuovere l’Identico. La sensibilità egualitaria impone agli individui di differenziarsi nella somiglianza, di agire per assicurarsi uno “sviluppo della personalità” su uno sfondo di indistinzione. È un compito faticoso. La crisi dell’identità non è priva di legami con la componente depressiva o malinconica della vita odierna.

In queste condizioni, può essere grande la tentazione di scegliere la soluzione più facile, di credere che il passato sia l’unico depositario dell’identità perduta, considerata a mo’ di essenza o di deposito intangibile. “Ogni utilizzazione della nozione d’identità inizia con una critica di tale nozione”, diceva Claude Lévi-Strauss. Il fatto è che con questo concetto le cose vanno come con molti altri: il cattivo uso che se ne può fare scredita tale uso senza screditare nel contempo la nozione, ma la nozione in sé non può far dimenticare i cattivi usi che se ne possono fare. L’identitarismo può sfociare nel meglio come nel peggio, ispirare la più aggressiva xenofobia o il più disinteressato servizio del bene comune. Bisogna difendere l’identità in modo positivo e aperto. La mia identità non è una fortezza cieca, una corazza dietro la quale mi nascondo per tagliarmi fuori dagli altri. È quella finestra che appartiene solo a me grazie alla quale posso scoprire il mondo.