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Eric Voegelin, Hitler e i tedeschi

di Carlo Gambescia - 28/12/2005

Fonte: carlo gambescia

Il libro della settimana: Eric Voegelin, Hitler e i tedeschi, pref. di Riccardo De Benedetti, Edizioni Medusa, Milano 2005, pp. 264, Euro 24,00

Eric Voegelin è probabilmente il filosofo politico più complesso e affascinante del XX secolo. Nasce a Colonia (1901), studia a Vienna, esule dal 1938 negli Stati Uniti, torna in Germania nel 1964, muore negli Stati Uniti nel 1985. Nei suoi numerosi scritti la storia delle idee politiche e sociali è studiata alla luce di tre concetti fondamentali (ovviamente si semplifica): trascendenza, rappresentanza ed esistenza. Tre forme idealtipiche ( non però nel senso della sociologia "operativa" weberiana) che esprimono, e riassumono, l'esperienza simbolica dell'uomo, come interiorizzazione e pratica di vita. Pertanto questo libro appena pubblicato dalle Edizioni Medusa (edizionimedusa@tiscalinet.it), che riprende integralmente il 31° volume delle sue Opere complete (University of Missouri Press, Columbia 1999) si rivela utilissimo, per due motivi.
Il primo, perché offre un'interpretazione filosofica, della tragedia tedesca, che sulla scia di Hannah Arendt, riconduce la cosidetta "banalità del male" in cui si esaurì il totalitarismo bruno, nell'alveo più generale del rifiuto di ogni forma di trascendenza da parte dei moderni.
Il secondo, perché permette di capire da vicino, come "funzionano" sul piano dell'indagine filosofica concreta, le categorie interpretative di Voegelin. In questo senso Hitler e i tedeschi è una buona introduzione alla filosofia politica voegeliniana.
Perché, nella Germania nazionalsocialista, si chiede Voegelin, si giunge a praticare il "male", come un elemento di pura amministrazione burocratica? Per due ragioni.
In primo luogo, perché come per tutto l'immanentismo moderno, anche Hitler si colloca tra coloro che rifiutano la trascendenza, come riconoscimento nell'uomo di un elemento divino-umano-divino, che in termini di "imago Dei", lo accomuna ai suoi simili
In secondo luogo, perché il rifiuto della trascendenza, visto che l'uomo non può vivere (in termini di valori "rappresentati simbolicamente" e "vissuti esistenzialmente" ) senza "credere", favorisce la sostituzione della religione trascendente con la "religione immanente" o politica fondata su pseudo-valori come razza, stato, ideologia, che invece di unire (in nome di una comune umanità) dividono gli uomini. Di qui l'automaticità, la normalità, la "credibilità" (con tutto quello che ne consegue sul piano pratico-burocratico) dell'idea di una necessaria divisione tra gli uomini, ma anche della paradossale necessità di sopprimerla, una volta per tutte, eliminando non le divisioni, in nome della comune umanità, ma sopprimendo quegli uomini che "rappresentano", solo con la propria "esistenza" (il semplice "esistere"), idee contrarie, a quella pseudo-religiose dominanti.
Merita una lettura attenta anche l'ottima introduzione di Riccardo De Benedetti, che oltre a restituire il vero spirito dell'opera vegeliniana, ne evidenzia tutta l'attualità. Che consiste nella necessità di tornare a credere nella trascendenza vera, e non in quella mascherata, ieri rappresentata dalle religioni politiche, e oggi da quella economica, incarnatasi nel culto efficientistico del mercato.