I danni dell’ideologia liberale: l’abuso dell’automobile
di Enrico Galoppini - 15/12/2007
È un fatto che ogni ideologia, prima d’addentrarsi in prescrizioni d’ordine economico, sociale, culturale e politico, si fonda su un’antropologia, ovvero postula un preciso ‘discorso’ sull’uomo: “l’uomo è per sua natura buono”, “l’uomo è fondamentalmente egoista”, “l’uomo è così e cosà” e via astraendo… In tutti i casi, si tratta di un discorso invariabilmente fallace perché riduttivo, soprattutto poiché tende a forzare, illusoriamente, l’uomo in una pretesa ‘realtà’. Così, la realtà, che per quanto attiene l’ambito delle relazioni interumane si risolve in un continuo divenire, deve purtroppo adattarsi sempre all’ideologia e ai capricci di coloro che se ne fanno portatori, ma se l’esperienza ci pone di fronte al palese scacco delle premesse ideologiche (e quindi antropologiche) in voga, tanto peggio per la realtà!
Ora, il liberalismo, che in tutte le sue varianti di destra, di centro e di sinistra è l’ideologia dominante del momento (sebbene sia piuttosto abile a camuffarsi come a-ideologico), non fa certo eccezione a questa ferrea e perversa regola. Il liberalismo, com’è noto, postula un’antropologia di tipo utilitaristico: l’uomo persegue sempre il maggior vantaggio per sé, e la somma di tale tensione individuale al massimo benessere dovrebbe, come per incantesimo, produrre un risultato positivo per gli altri, quindi per l’intera collettività. A temperare le eventuali disfunzioni del «sistema» (forse qualche dubbio anche i liberali devono averlo…) basterebbe la raccomandazione per cui “la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri”.
L’immagine che per tal via i liberali intendono evocare è quella di una società di persone rispettose l’una dell’altra, di cittadini dall’elevato senso civico. Eppure, ad una neanche troppo approfondita osservazione del quotidiano tutto ciò si rivela per quel che è: una favola. In campo economico, col «liberismo», la prima favola è quella della «mano invisibile» del «mercato»: si pensi proprio ai produttori d’automobili, che senza lo Stato così solerte nel predisporre strade ed autostrade mai e poi mai avrebbero potuto «liberamente imporsi» nel settore industriale…[1]. Quindi, la «tensione utilitaristica» dei produttori d’auto ha prodotto – pensate un po’ - innanzitutto un diretto vantaggio per loro. Mentre al resto, alla «massa», tutto un apparato d’imbonimento collettivo messo su allo scopo deve comunicare l’impressione d’essere coinvolto in questa cuccagna. Si pensi ai lavoratori del settore dell’auto, settore che ha segnato l’avvio della «produzione in serie» (l’«organizzazione scientifica del lavoro» altrimenti definita come taylorismo), la quale a sua volta ha aggiogato l’operaio («specializzato») alla catena di montaggio. Ciò ha coinciso con l’invenzione dell’utilitaria, dell’«automobile per tutti», la «Ford T» prodotta nell’America degli anni Venti e Trenta in milioni di esemplari e, fatto rilevante, venduta a prezzi accessibili ai più, compresi gli stessi operai che vedevano aumentare i propri salari proprio per essere introdotti nella spirale del consumismo[2]. Risulta dunque chiaro che in tutto questo c’è solo qualcuno, una élite, che ha tratto un netto beneficio…
Ma a questo punto interviene il provvidenziale apparato pubblicitario della «creazione dei bisogni». Alzi la mano chi non ha associato, almeno una volta, «libertà» a «liberalismo» e «liberismo». L’ho fatto anch’io. Fino a che ho preso coscienza che l’unica libertà oggi concepita (e difesa: “è in gioco il nostro tenore di vita”, si è artatamente agitato in occasione della banditesca aggressione all’Iraq) è quella di «consumare»[3]. Nel caso specifico dell’automobile si tratta di una libertà che si esplica in una dipendenza sempre crescente dalle esigenze (indotte dalla pubblicità dei «solo per te», «tu vali» ecc.) dello strumento che si presupponeva dovesse affrancare l’uomo da supposte limitazioni poste alla sua «libertà» (ad es. «di spostamento»). Eppure, a fronte del crescente inurbamento, che consiglierebbe una razionale politica di trasporti pubblici, si assiste all’esponenziale crescita del traffico automobilistico (e scooteristico), con le nostre (e non dei gruppi di pressione e dei loro esecutori d’ordini) città che s’avviano a trasformarsi in terrificanti distese di parcheggi quando invece ci sarebbe bisogno di ben altro.
Inoltre l’«automobilista» è uno che alla «libertà» ci tiene. E, soprattutto, va a votare. Per questo nessun politico assennato prenderà mai provvedimenti che possano contrariarlo. Se aggiungiamo che anche i gruppi di pressione dei produttori d’auto (e delle compagnie petrolifere) sono parimenti intoccabili, si capisce perché l’invivibilità generata dal traffico urbano è - come chiunque può osservare – in progressivo aumento. Con i cantori dello «sviluppo sostenibile» intenti a stendere provvidenziali ‘cortine fumogene’ volte ad indorare la proverbiale pillola…
Ma ancora non si è andati al fondo del problema. Accade difatti che anche un’antropologia fasulla alla lunga impone un tipo umano. Come quel tale del proverbio, che a forza di frequentare lo zoppo impara a zoppicare. L’uomo informato dal paradigma liberale è in pratica il trionfo delle premesse a-sociali del liberalismo, l’apoteosi dell’individualismo, degenerazione di una naturale tendenza a curare anche il proprio tornaconto. Con buona pace dell’antica e sana idea di societas, organizzata in base ad una «morale societaria» nella quale sono contemplate e contemperate le idee (e quindi gli apporti) di tutti i cittadini che, naturalmente, vogliono «vivere insieme». L’esatto contrario è quel che avviene oggi, dove l’unico punto di vista ammesso è quello di coloro che abbracciano il paradigma dell’ideologia liberale… col risultato che “la mia libertà” non “finisce” più, o meglio è finita nel Far West del traffico!
Il punto di non ritorno di un’autentica sovversione della natura viene infine raggiunto quando anche coloro che in linea di principio sarebbero contrari alla distruttiva e masochista tendenza impostasi si rendono conto d’essere legati mani e piedi a ciò che contestano. Ecco che, a causa dell’incuria verso ogni coscienziosa e risolutiva politica del trasporto urbano, anche i più fieri paladini di un corretto uso dell’automobile devono arrendersi e conformarsi all’andazzo generale. Ovverosia l’esatto contrario delle premesse dell’ideologia liberale: la tensione al «massimo vantaggio per sé» ha prodotto una sommatoria di «svantaggi individuali», causa di un «massimo svantaggio» per la comunità nel suo complesso.
L’angosciante delirio collettivo delle file chilometriche di dannati del traffico, con i relativi danni ambientali - e alla salute di chi non abusa dell’auto - e le perdite secche sul piano energetico, nonché di tempo per chi passa anni della propria vita chiuso in un abitacolo (dotato di tutti i comfort!), è solo la manifestazione ultima di una patologia sociale, o meglio di un disordine antropologico.
[1] Cfr. J. Kleeves, La leggenda del capitalismo e del libero mercato, “Italicum”, nov.-dic. 2000 (http://www.centroitalicum.it/giornale_2000/kleeves1112_00.htm).
[2] Cfr. il dossier Contro l’automobile, curato da A. de Benoist per il n. 86, 1996, della rivista “Eléments” e tradotto sul n. 232, gen. 2000 (pp. 4-21), del mensile “Diorama Letterario” (http://www.diorama.it/n232.html).
[3] Cfr. Ch. Champetier, Homo consumans. Morte e rinascita del dono, (trad. it.) Arianna, Casalecchio di Reno 1999.
“Luci sulla città” (mensile dei Comitati pisani nella "città dei diritti"), a. 1, n. 1, gennaio 2005
(ripubblicato sul mensile "Il consapevole", n. 2, 2005)