Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Carnevale, lo scandalo della resurrezione

Carnevale, lo scandalo della resurrezione

di Massimo Cacciari - 14/01/2008


LA FESTA che precede la Pasqua è una pausa, un interregno tra la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo: come una nave di folli porta l’umanità in un’orgia necessaria per staccarsi da ciò che muore e per ricreare la vita che rinascerà

Che il Carnevale sia il carro- navale che, sullo sfondo d’arcaiche astrologie, riporta nel corso dell’anno al culmine del firmamento la ruota solare, o che esso non significhi se non, in Opposizione alla Quaresima, l’epoca in cui ritorna lecito il nutrimento «carnale» (...)poco importa ai fini della comprensione della «psicologia» del Carnevale. Comunque, esso si presenta come pausa, interregno. Un vuoto sembra aprirsi nel corso regolare dell’Anno. L’Isidis Navigium irrompe nella «normale» processione delle stelle. È il momento (da movere: pausa-che-passa, transito, fuggente interludio) tra il tramonto del vecchio Anno e la salita al trono del nuovo Signore: un momento pericoloso per eccellenza, poiché in esso non valgono più le antiche norme e le nuove non hanno ancora potere. Da qui il ricorrente fascino del simbolo della nave: si toglie l’àncora, si salpa dal porto un tempo sicuro, ci si arrischia per l’alto mare. (...)
Usciti in mare aperto, la Norma cessa. Essa è infatti arcaicamente collegata alla Terra: justissima tellus. Il Mare è libero: nessun campo da dividere e coltivare, nessuna traccia che si conservi, nessuna città edificabile. Bisogna davvero avvertire vicinissima la morte, per vincere l’ancestrale paura del mare. Bisogna che la paura ci renda folli, per affrontare il mare: stultifera navis - ogni nave, sotto questo riguardo, è stultifera. Arcaico è il legame tra acqua e follia. Ma - ecco il paradosso - la navigazione è interregno, il suo pericolo è momento verso l’incoronazione del nuovo Anno. Il mare è stretto tra due sponde. E perciò la follia del navigante è anche sapere. Foucault vede l’Albero del sapere innalzarsi sulla Nave dei folli di Bosch. Ma si tratterebbe, allora, di un sapere proibito, mentre la navigazione durante l’inter-regno, nel carro navale di Iside, deve essere esperta (periculosum-peritum) per approdare alla justissima tellus. Solo folli possono affrontare il pericolo del mare - ma questi folli sanno tener ferma la rotta. Folli per chi rimane nel vecchio porto e non ne avverte l’imminente catastrofe, essi, al culmine del pericolo, divengono esperti del mare, lo solcano verso la nuova terra promessa (dove, come nell’Apocalisse è detto della nuova Gerusalemme, non vi sarà più mare).
Dunque, la follia del Carnevale ha un senso, una direzione. Legale assenza di legge, normale assenza di norma, dice Rang. L’astro-logos assegna il suo posto anche al Carnevale. La sua esplosione è ricorrenza festiva. La sua fenomenologia è comprensibile soltanto nell’ambito della Festa. (...)Tutte le Feste sono Momenti sublimi (hohe Zeiten), poiché Momenti destinati a non disperdersi, sottratti all’oblio, Momenti che, misteriosamente, stanno. Ma il Carnevale arricchisce il paradosso all’ennesima potenza: esso è nella sua essenza pausa, inter-regno, momento; dunque, esso appare come l’autentica Festa del Momento - la Festa che celebra il Momento in quanto tale. (...)
Questo Momento rinnova, ri-crea; o, meglio, chiama a raccolta ogni energia per risospingere al culmine del cielo il carro dell’Astro. Esso appare come la Festa del gioco per eccellenza, appunto perché il Gioco ri-crea. Esso discioglie ogni fissazione terranea, reintegra gli elementi prima isolati. La frenesia, il tripudium del Carnevale obbediscono a questa «economia del sacro». (...)
Il Carnevale non si sottrae al senso della Festa e, seppure in ogni Festa sia presente un elemento orgiastico, esso solo è la Festa stessa dell’orgia, manifestazione di sovrabbondante energia, che scolvolge la crosta gelata del vecchio Anno, necessaria sia per liberarsi-staccarsi da esso, che per ri-creare il gioco cosmico. Riso, danza e maschera sembrano essere gli elementi essenziali di questa liberazione-ricreazione.
Il riso. La sua funzione è ambivalente, secondo tutto il senso di questa Festa. Esso è certamente la fragorosa risata di scherno che deride il vecchio Anno e ne scopre ormai l’impotenza, ma è già anche risus paschalis, riso gioioso di rinascita. Ancora nelle medievali feste dell’asino e dei folli, quando gli scherzi più licenziosi si celebravano persino all’interno degli immensi spazi delle cattedrali, il culminedell’«inversione», della «via in giù», coincideva con il nuovo inizio. La Festa di Pascua florida è già promessa nelle bestemmie e nelle parole del Carnevale. Qui il riso non ha nulla dell’annientante forza devastatrice della moderna ironia, che necessariamente conclude nella indifferenza ed equivalenza dei tempi o nel mero continuum, ma è forza rigeneratrice. Celebra il paradosso-scandalo di una morte-resurrezione. Ride della saggezza-prudenza che pretenderebbe di poter conservare il già consumato, ma è insieme energia ri-creante. «Au commecement il n’y a qu’un grand rire», scrive Daumal. Una «pelle» sempre più sottile trattiene le vecchie forme nella loro figura. Un Nomos sempre più esangue indica i confini. Il grande riso del Carnevale fa esplodere questa pelle, o la tende fino allo spasimo. Ma in questo si manifesta l’intenzione più profonda del riso: una volontà di superare la «figura», di realizzarsi come «universale» - non soltanto di rinascere sempre (di fare della Pasqua un «Fest-Tag»), ma di essere oltre il distinto, la differenza. Possiamo dissolvere il distinto - possiamo riderne.
La danza. Anche al culmine dell’orgia, la danza ricrea. Anche l’ebrezza più sfrenata è sacra nella danza. I movimenti della danza tessono molteplici rapporti, congiungono elementi disparati, li unificano con fili invisibili. Ma ancor più nella danza avvertiamo il legame che incatena, indissolubilmente, al ritmo dell’Anno. Un filo ci regge e ci fa danzare. Danzare a ritmo è ubbidire al gioco divino che regge il cosmo, farsi tutt’uno con esso, danzare alla corda di Dio come le mirabili marionette platoniche. Dunque, anche qui l’aporia, o la caratteristica ambivalenza: nella danza, come nel riso, la figura oltrepassa i propri confini, tende la propria «pelle» fino all’ek-stasis, manifesta il suo anelito per un’universale coincidentia oppositorum, ma insieme, o, anzi, proprio per questo, riscopre l’aura catena che ne fa ludus degli dei, la ri-conosce. Il gioco del riso e della danza è ri-creazione perché come gioco manifesta il creare divino. A esso partecipiamo «giocando» nella Festa. Questa partecipazione è religiosa - vincola strettamente al Gioco, richiede perciò massima costrizione. Eppure, essa si manifesta come apparente sfrenatezza, quasi arbitrio. Anche questa apparenza è necessaria: libero da ogni idea di fine o di scopo è il Gioco divino, e perciò altrettanto «libera» apparirà la danza di chi a questo Gioco vuole collegarsi (religio). Il filo che fa di questa danza ludus deorum è invisibile. Ancora: la legge dell’orgia consiste nel venir meno delle leggi - proprio questo venir meno ubbidisce a una precisa «economia del sacro».
La maschera. Più enigmatica la maschera. Certo, il suo collegamento alla risata di scherno è immediato - e così il suo ruolo nello sconvolgimento delle forme e dei confini prestabiliti. Ma, con ciò, si resta appunto nell’immediato. La maschera va già oltre l’ebrezza dell’ek-stasis della vecchia figura, indica nuove, possibili forme. Nella danza carnevalesca il balenio delle maschere accenna alle sterminate possibilità della ri-creazione, alle infinite combinazioni del Gioco. La maschera, perciò, cancella la somiglianza del volto all’antico Dio, che volge al termine - senza limitarsi all’immersione nell’indistinto. La maschera discioglie l’antica somiglianza, soltanto per tentare, profetizzare quasi, il futuro volto del nuovo Anno. Solo nella Pascua florida conosceremo, in realtà, questo volto - allora il germinare delle maschere si fisserà di nuovo, il pullulare dei loro possibili si acquieterà necessariamente in un senso.
Ma vi è di più. La maschera conduce alle conseguenze più radicali il principio carnevalesco della «inversione». La norma è maschera - le nostre figure normali lo sono. E il grande riso le fa esplodere. Ora, la maschera da carnevale manifesta il vero volto. Non solo perché originaria, arcaica è l’energia cui appartiene e alla quale partecipa. Non solo, in negativo, perché ci libera dai «costumi» ereditati. Ma perché sempre, nella sua essenza, essa è la Morte. La maschera della Morte è la maschera. E cioè: esattamente ciò che non è maschera, che sta dietro ogni nostra maschera, viene «rovesciato» in maschera dal Carnevale. La Morte vestita da pazzo, col berretto da buffone, è indistinguibile dal buffone «mascherato» da Morte. Il Carnevale ci offre nella maschera il volto autentico, liberato da ogni contingenza, da ogni traccia di ruoli occasionali. Ma, nello stesso tempo, nel processo «psicologico», poiché il vero volto - la Morte - si presenta qui come maschera, noi possiamo anche riderne. Nella maschera possiamo vedere la Morte «sotto specie pasquale». Come dissolve i ruoli stabiliti dal vecchio Anno, così il grande riso carnevalesco dissolve la rigida fissità dello stesso volto della Morte. Questo significa il buffone «mascherato».
Sulla figura del buffone occorrerebbe soffermarsi, poiché egli è il portatore della maschera per eccellenza. Passeggero da sempre della stultifera navis, estraneo a ogni terranea dimora, il buffone media tra vecchio e nuovo, tra inverno e primavera. Dileggia la Befana, che si attarda decrepita sulla soglia dell’Anno consumato. Invita a giustiziarla. E fa «scorrere» il Carnevale, incitando a essere «ciò che non si è». Così, spiega Zolla, il boia è mediatore tra cirmine e giustizia, l’Ermafrodito tra maschio e femmina. E tornano alla mente i due corpi del Re in Shakespeare. Ma forse la figura del martire è quella più prossima al buffone: egli media tra la Presenza sempre attuale del Dio e la sua Assenza. Sempre domina, infatti, la legge del ritmo cosmico - ma qui, nel tempo del martire (o del buffone?), questa Presenza va testimoniata proprio perché invisibile. Il buffone testimonia l’essenziale prossimità del Nuovo, il dispiegarsi prossimo della pienezza dei tempi, ora, quando questa pienezza non è dato neppure intuire. Bisogna farsi pazzi per testimoniare il nuovo Anno: imbarcarsi, affrontare la selva di pericoli del Carnevale - fino a indossare la maschera della stessa Morte. Robert Klein parla di un disegno dell’Holbeim sui margini della sua copia dell’Encomium moriae erasmiano dove Cristo è ritratto col berretto dei pazzi - poiché volle incarnarsi, morire.
L’umanità si vede riflessa nella figura del buffone. Il buffone la pensa, la interroga, la giudica. Si aggira offrendole specchi e occhiali. Il geroglifico dello specchio è troppo complesso perché se ne possa qui brevemente parlare, ma certo è straordinaria la sua affinità al senso profondo del grande riso carnevalesco. Poiché lo specchio fa vedere, rivela, ma, nello stesso tempo, allucina. Riflette deformando e sconvolgendo: metamorfizza. L’ossessione dello specchio diviene nel barocco principio compositivo, ma esso è da sempre forma del riso carnevalesco. Non vi è riflessione che non sia metamorfosi, allucinazione della figura. Capita, allora, che lo specchio ridia l’immagine della Morte, non si riveli che un altro nome della Maschera del Carnevale. Oppure che esso manifesti i segni della caducità. Oppure, ancora, che la sua «liscia» superficie esploda in un turbine demonico. Nulla è più pericoloso dello specchio - ma periculosum appunto è navigare il Carnevale, poichè esso testimonia insieme e indissolubilmente (simbolicamente) la vanità di ogni definito confine e di ogni determinata figura (lo specchio come geroglifico della vanità, e della Melancholia, che ci afferra di fronte allo spettacolo luttuoso della vanità), e il ritmo perenne della ri-creazione: follia dell’incarnazione, paradosso-scandalo della resurrezione.