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Industrialismo contro sviluppo locale: il caso ACNA

di Pier Paolo Poggio - 05/01/2006

Fonte: ecologiapolitica.it


La vicenda Acna-Valle Bormida si configura come un caso di studio a un tempo
eccezionale ed esemplare, che ci consente di sperimentare, assieme agli abitanti della
valle, la «lunga durata» dentro la modernità, la ripetizione ossessiva sotto la scorza del
cambiamento incessante: più in generale di verificare nel concreto il fallimento del
Progresso. Attraverso di essa è possibile ripercorrere da un osservatorio privilegiato tutto
il ciclo storico dell’industrializzazione, sino ad arrivare a una biforcazione, a un aut-aut,
che non hanno solo un significato locale: o radicalizzare lo sfruttamento del territorio
utiliz zando una rendita di posizione geopolitica o sperimentare un percorso alternativo
incentrato sull’ambiente, la cultura locale, le risorse intellettuali attivate dal conflitto.
Centoquindici anni di inquinamento chimico pressoché ininterrotto costituiscono una
sorta di poco invidiabile primato, specie tenendo conto delle produzioni, prima della Sipe
(esplosivi) e poi dell’Acna coloranti e intermedi), non senza puntate in altre direzioni
(gas?). Le conseguenze dirette e indirette sui lavoratori, le persone esposte, l’ambiente
complessivamente inteso sono note solo parzialmente. Per decenni e decenni non è stato
effettuato alcun controllo, e ancora negli anni ’90 si sono protratte resistenze di ogni
genere, ad esempio sul capitolo diossine. L’azione della magistratura, anche nel periodo
più recente, è stata di basso profilo, ma è bastato poco per scoprire illegalità e risvolti
criminali ancora ampiamente da chiarire. Una svolta comunque rispetto a un passato in
cui la giustizia condannava i contadini inquinati dalla potente fabbrica di Cengio. Uno
degli obiettivi principali che ci si deve porre è quello di conoscere con sufficiente
precisione la storia delle produzioni dell’Acna. Un capitolo che nel volume Una storia ad
alto rischio(Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996) è stato appena toccato e che, a mio
avviso, sarà possibile affrontare pienamente solo ad Acna chiusa e da parte di esperti con
una forte copertura istituzionale. Nondimeno molto si può raccogliere basandosi su fonti
disponibili (sia scritte sia orali). Ancora più problematica sembra presentarsi la
ricostruzione degli effetti sulla salute delle produzioni e degli scarichi dell’Acna. La
mancanza di dati, innanzitutto per i lavoratori della fabbrica, ha consentito una
manipolazione suggestiva dell’opinione pubblica sul nodo cruciale degli effetti
∗ Direttore della Fondazione Archivio «Luigi Micheletti» di Brescia. Medicina
Democratica, nn. 114-118, 1997-1998.
cancerogeni, per altro notissimi, delle sostanze utilizzate. Indagini epidemiologiche
insufficienti, reticenti, o semplicemente impossibili per mancanza di una base empirica,
sono state utilizzate da specialisti compiacenti o oltremodo ingenui per diffondere
l’immagine di una situazione «normale». Inutile dire che si tratta di una normalità
paradossale, dato che per più di un secolo l’Acna ha utilizzato sostanze altamente
tossiche e, in alcuni casi, sicuramente cancerogene, in assenza per moltissimo tempo di
sistemi adeguati di protezione della salute e dell’ambiente.
La «normalità» è solo frutto di ignoranza accuratamente coltivata, sino alla falsificazione
deliberata della verità circa i rischi a carico dei lavoratori e delle popolazioni. Per quanto
riguarda gli operai la verità di fatto non dovrebbe discostarsi da quanto emerso all’Acna
di Cesano Maderno (stesse produzioni e condizioni di lavoro), in seguito alle indagini
condotte dal «Gruppo di lavoro ammine aromatiche» negli anni ’70, dove il primo
decesso accertato per cancro alla vescica risale al 1936 e negli anni successivi si ebbero
non meno di altri 200 morti imputabili agli effetti cancerogeni delle ammine aromatiche.
Nel caso delle popolazioni esposte a causa dell’inquinamento delle falde e atmosferico,
in mancanza di un «registro tumori» e comunque di indagini epidemiologiche
approfondite, è difficile avanzare ipotesi. Di sicuro nessuno potrebbe più permettersi di
sostenere, come fecero certi magistrati, che l’Acna ha avuto un effetto benefico sulle
acque del fiume rendendole fertili; è vero invece che le popolazioni valligiane possono
aver beneficiato, loro malgrado, della «rinaturalizzazione» forzata di parte del territorio,
in seguito al blocco di ogni sviluppo economico dovuto all’impatto del polo chimico
dell’alta Bormida. Ma quello che importa sottolineare in questa sede è che un movimento
di lotta del tutto inaspettato, e che ha tratto alimento da una trasmissione della memoria
controcorrente rispetto agli scenari metropolitani, ha fatto irruzione nel bel mezzo degli
anni ’80, prendendo di petto il disastro ecologico e impedendo la cancellazione totale
delle vittime. È particolarmente importante sottolineare che non si è trattato di una
protesta culturalmente subalterna, avente di mira unicamente il proprio ristretto ambiente
di vita. La sfida è stata portata sul terreno stesso dell’avversario, mettendo in luce un
fallimento economico e tecnologico prodotto dalla possibilità di saccheggiare
liberamente le risorse umane e ambientali del territorio, sotto il dominio di un’etica
acquisitiva dagli effetti perversi. La mobilitazione degli abitanti dei piccoli paesi della
Val Bormida mette fine di colpo alla paura e al segreto che hanno sempre circondato la
fabbrica di Cengio. Si può dire che la sua storia finisca nel momento in cui inizia la lotta
aperta dei valbormidesi. Non è certo un caso che il Potere (aziendale e politico) decida
immediatamente di cambiare strategia, trasformando l’Acna in un gigantesco impianto di
rifiuto industriali. Si noti che l’impianto di smaltimento (Re.sol.) è stato presentato in un
primo momento come uno strumento indispensabile per poter mantenere in produzione la
fabbrica, poi in ultimo è diventato, secondo i suoi propugnatori, altrettanto indispensabile
per poter chiudere l’Acna e smaltire i reflui accumulati nei «lagoons». Nel movimento di
lotta contro l’Acna e per la «Rinascita della Valle» sono confluite diverse culture; per la
sua composizione e le modalità di azione si può paragonare alle «iniziative civiche»
sviluppatesi in Germania negli anni ’70 e ’80, mentre non si può dire che abbiamo avuto
un ruolo egemonico né i Verdi né tanto meno posizioni in qualche modo riconducibili a
un’esperienza come quella di «medicina democratica». Per quanto riguarda i Verdi,
cogliendone la debolezza strutturale, sono stati piuttosto gli avversari del movimento
valbormidese a tentare di bollarlo, inutilmente, con l’etichetta perdente di ambientalista.
Non è mancato al movimento l’apporto di saperi professionali qualificati, mentre non si
sono certamente distinti i medici, anche in questo caso, con poche eccezioni,
massicciamente omologati. È vero che un medico, il dott. Pastore, nel 1960, è stato
promotore di una prima inchiesta che ha fatto conoscere qualcosa delle allucinanti
condizioni di lavoro all’Acna, però già ai tempi della Sipe (anni ’20) nella fabbrica di
Cengio c’era il medico di fabbrica; ciononostante per decenni gli uffici preposti, a partire
dall’Inail di Savona, non hanno mai dedicato alcuna attenzione a quello che avveniva nei
numerosi reparti del colosso chimico inutilmente contestato dai contadini piemontesi.
Specie con riferimento al suo ciclo più recente, mi pare che la lotta contro l’Acna e per la
«Rinascita della Val Bormida» si possa considerare una forma di democrazia territoriale,
in cui consistenti minoranze attive sono riuscite a mettere in piedi un modello di
democrazia diffusa, a rete, coinvolgendo un notevole numero di piccoli paesi, con una
funzione di rilievo dei sindaci e, in alcuni casi, dei parroci. Inesistente o parassitario il
ruolo dei partiti, allineati sulla fabbrica i sindacati, di basso profilo l’azione dei
parlamentari, grottesca la posizione del Ministero dell’Ambiente che ha scelto l’Acna per
dimostrare la compatibilità ecologica dell’industria chimica: un neoillusionismo buono
per tutti gli usi, condito di colonialismo verso gli ignoranti indigeni.
Le posizioni tecnocratiche, quando non erano una pura copertura dell’affarismo, si sono
rivelate perdenti o perverse per l’incapacità di cogliere l’operatività della dimensione
storica, sia sul piano culturale sia su quello tecnico-empirico. Di qui una forte reazione
contro il sapere tecnico-scientifico che è parso totalmente allineato sul Potere e
comunque quasi sempre disponibile a supportare gli interessi forti, la logica della
perpetuazione dell’esistente. Il caso Acna-Valle Bormida costituisce invece un’ottima
occasione per verificare la necessità e produttività di un approccio a un tempo storico e
scientifico della questione ambientale. A questo fine, però, come la storiografia deve
saper ricostruire le dinamiche locali senza perdere l’orizzonte di senso generale in cui si
collocano, così la scienza-tecnica è necessario che sappia dialogare con i saperi locali,
tanto degli operai della fabbrica (se mai vorranno uscire dalla loro condizione servile)
come dei contadini della valle. Per la sua durata e complessità questa è una vicenda che
non si può facilmente sintetizzare. Ci sono capitoli difficili da scrivere, ed è improbabile
che vorrà o potrà farlo la magistratura: si pensi al ruolo delle produzioni militari
dell’Acna, anche in periodi recenti, oppure ai traffici criminali legati ai suoi rifiuti, con il
coinvolgimento diretto della criminalità politica ligure-piemontese e nazionale. In un
momento di disintegrazione reazionaria, etno-razzista, della compagine nazionale,
conviene ricordare almeno la funzione strategica, a favore del Potere e del perpetuarsi
dell’inquinamento, svolto dai confini, dalle divisioni regionali e provinciali, dalle stesse
contrapposizioni identitarie. Queste divisioni, accuratamente coltivate, sono state la
principale risorsa dell’esistente. Le istituzioni e le forze organizzate ufficiali, al di là
della vuota retorica degli interessi generali, manovrati a fini immediati, si sono dimostrati
incapaci di uscire da dinamiche eticamente ed ecologicamente insostenibili. Il
movimento dell’ultimo decennio è stato invece in grado di costruire una nuova identità,
facendo leva sul valore aggiunto che discende dal ciclo di lotte recenti e dalla memoria
delle battaglie precedenti: un patrimonio di passione civile, intelligenza critica,
conoscenza puntuale del territorio, competenze professionali e cultura amministrativa. Il
progetto in positivo elaborato dall’«Associazione Rinascita» fa leva sulla
rivalorizzazione della cultura contadina, rompendo decisa mente con le dinamiche che
hanno contrassegnato l’intero Novecento, sino a sfociare nella crisi senza soluzioni
dell’industrialismo. In questo caso proprio il mantenimento dei legami con il passato
agricolo e, in parte, la tenuta produttiva dell’agricoltura, dovuta anche al blocco dello
sviluppo causato dall’Acna, hanno funzionato da risorse a cui attingere nel conflitto
contro la fabbrica inquinante. Esiste quindi una base sociale locale, maturata soprattutto
nella lotta del decennio 1987-1997, per proporre in termini plausibili un progetto di
rinascita rurale che, nelle parole di uno dei suoi più convinti assertori, fa perno «sulla
riappropriazione del territorio da parte degli abitanti che, nel corso delle lotte, lo hanno
‘riscoperto’ come patrimonio potenziale di produzione di ricchezza durevole. Il fiume, i
terrazzamenti, il bosco, i villaggi storici, le cascine, i monumenti, le culture e le identità
storiche degradati nel tempo, sono stati reinterpretati come risorse sinergiche per uno
sviluppo endogeno autosostenibile di una società agro-terziaria» (A. Magnaghi, «L’altro
lavoro», Il Manifesto, 9 aprile 1997). A me pare che questo discorso sia convincente
perché ha qualcosa di preciso e importante da dire sul futuro senza azzerare il passato,
bensì facendo leva su di esso. In questa sede è inutile insistere sugli ostacoli che incontra,
non tanto perché vi siano in campo egemonie culturali di altro segno (industrialiste e
produttiviste), quanto per l’azzeramento nell’assoluto presente del consumo fine a se
stesso, e la conseguente fuga interclassista dalla realtà. Il degrado ambientale,
l’inquinamento, lo sfascio di un territorio fortemente segnato dal lavoro di generazioni,
sono altrettanti segnali di crisi attraverso cui la realtà irrompe nell’immaginario
passivizzante. È evidente quindi che la «Rinascita» su cui puntano i valligiani in lotta con
l’Acna fa perno su un’agricoltura non omologata, capace di svolgere una funzione
ambientale a cui si attribuisce una portata strategica. Essa infatti può non solo salvare il
territorio, ma farlo rinascere, vale a dire inaugurare un nuovo ciclo storico di
valorizzazione dell’ambiente, incrociando i saperi locali con la conoscenza e coscienza
ecologica. In secondo luogo può spezzare il circolo perverso, coltivato dalla classe
politica e dalla pubblica amministrazione, tra disastro ambientale e affari, alluvioni e
appalti, cementificazione e tangenti. La manuntenzione comunitaria del territorio
collinare e montano può mettere in crisi un’industria altamente inquinante e che più di
ogni altra sta distruggendo nel nostro paese, nel giro di pochi anni, un’eredità
ineguagliabile. Credo che nel progetto di «Rinascita» elaborato in Valle Bormida non si
debba trascurare un altro aspetto, perché è proprio di lì che deriva la sua specificità e la
sfida più impegnativa. Anche il mercato, come in tanti altri casi, avrebbe potuto chiudere
la fabbrica, ovvero trasformarla in redditizio impianto per smaltire rifiuti industriali,
come pervicacemente hanno tentato di fare lobbies politico-affaristiche, ma la chiusura
dell’Acna in nome della salute e della salvezza dell’ambiente deve avere conseguenze e
un significato ben diverso. Mi pare che non sempre ci sia la piena consapevolezza della
necessità assoluta della bonifica e della portata economica e culturale, scientifica e
tecnica di un’impresa che, non a caso e nemmeno tanto sottovoce, da più parti si dice
impossibile e irrealistica. Per cui, tutto sommato, è meglio che una qualche attività
industriale rimanga in piedi, con funzioni di presidio della bomba costituita da milioni e
milioni di tonnellate di rifiuti chimici accumulati in oltre un secolo. Al contrario, solo la
bonifica può rendere credibile la «Rinascita» e costituire un riferimento per tante altre
situazioni e per dare forza a un concetto generale di rientro dal ciclo storico della crescita
basata sulla distruzione delle risorse naturali e umane. Nella bonifica i saperi tecnici e
professionali possono trovare un’occupazione, come spesso è stato inutilmente ripetuto,
ma soprattutto possono riacquistare dignità, emancipandosi da una lunga stagione di
servitù volontaria alla cieca ragione del profitto. In questo senso penso che la lotta per la
bonifica costituisca la nuova frontiera di un movimento che ha dimostrato una
straordinaria vitalità.