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N elle metropoli dei grattacieli e degli intrichi fumosi del traffico inceppato negli ingorghi, si scopre che ancora oggi c’è qualcosa che resta immutato rispetto alla preistoria: il desiderio di vivere in un antico borgo o in un villaggio: piccolo, familiare, riconoscibile. Lo dimostrano le ricerche: ovunque, e in ogni epoca, si manifesta la necessità di spazi entro cui radunarsi, luoghi collettivi, sede dell’identità delle persone, ambienti in cui riconoscers i». Domenico Luciani, direttore della Fondazione Benetton Studi Ricerche, presenta così la quinta edizione delle giornate di studio sul paesaggio, intitolata 'Villaggi. Vita, forme, misure', in programma a Treviso domani e sabato 2 febbraio. Lo spunto è dato dall’opera del geografo ed esploratore Eugenio Turri, che ha girato in lungo e in largo i continenti, ovunque documentando villaggi delle più disparate appartenenze etniche. «Anche per noi il villaggio conta più di quel che si pensi - spiega Luciani ed è un’aberrazione della modernità l’aver pensato di farne a meno. Non c’è non-luogo che tenga: gli ipermercati non costituiranno mai un ambiente di ritrovo in cui ci si possa identificare. La sede degli affetti resta in quelle tracce di villaggio che emergono seminascoste ma non cancellate nella trama della città. Ancora si cercano, e si trovano, tra i palazzoni e i capannoni delle periferie, i lacerti degli antichi borghi. Perché anche nelle megalopoli la sede degli affetti è nei villaggi che la costituiscono, come i 'campi' di Venezia». In effetti la 'riscoperta' del villaggio come forma di vita è indice di un cambiamento culturale che accompagna il ripensamento del modello di vita urbano-industriale-burocratico. Nel secondo dopoguerra abbiamo assistito al progressivo spopolamento dei paesi. Oggi sta maturando un percorso inverso. Loreto Aprutino è un villaggio tipico dell’Abruzzo. Le sue case - alcune vecchie di molti secoli, altre solo di qualche decennio - si assommano con grazia sulle pendici del colle entro una campagna ricco di uliveti. È uno tra i mille casi, esemplare del fenomeno: si spopolò quasi totalmente dal dopoguerra e tale è rimasto fino a una decina di anni fa. Poi la sua grazia intrinseca, le viuzze strette alternate da scalinate in cui non passano i mezzi di trasporto, il suo silenzio vibrante nella sera, sono diventati richiamo per qualcuno degli abitanti emigrati ma anche per tanti altri che dalle città del Nord e dall’Inghilterra hanno preso a comperare qui case il cui prezzo era crollato a seguito dello spopolamento. Oggi è uno dei gioielli dell’Abruzzo, una meta turistica. Lo stesso avviene con tante altre zone: si pensi alla valle della Murgia con i suoi trulli e la sua 'capitale', Alberobello, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel ’96: oggi vi sono bed & breakfast a non finire per chi vuole un assaggio di quel tempo passato. Mentre i 'sassi' di Matera, ancor pochi anni fa paradigma di abbandono e povertà estrema, oggi stanno diventando oggetto di speculazione immobiliare. E i villaggi Walser che si estendono sulle Alpi dal Piemonte al Liechtenstein, sono meta di visite turistiche guidate, con percorsi escursionistici sugli alpeggi dove la vita era ben grama e dura; mentre ad Alagna è sorto un museo Walser e molti ristrutturano le caratteristiche case col grigliato in legno esterno su cui in origine si faceva asciugare la segale, oggi divenuto elemento architettonico di richiamo. E si riscoprono i nomi, come 'Brutium', antico nome della Calabria, oggi usato e abusato per propagandare sulle guide turistiche le offerte di vacanze da sogno vicino al mare o sui monti della punta dello Stivale. In fondo una delle caratteristiche più eminentemente e universalmente umane sta nel raccogliersi in comunità, costruire il proprio ambiente e in esso riconoscersi. Lucio Giecillo, ricercatore del dipartimento Studi urbani dell’università Roma 3, riferisce di uno studio realizzato 'sul campo' (pubblicato col titolo La città eventuale, Quodlibet 2005) sul modo in cui si organizzano i rifugiati a Roma, in attesa di essere riconosciuti nello stato di immigrati. «Negli interstizi della città sono sorti piccoli villaggi effimeri, totalmente al di fuori della logica della pianificazione urbana. Come il cosiddetto 'Hotel Africa' gestito per 3-4 anni da persone scampate alla crisi del Darfur, in un capannone della stazione Tiburtina abbandonato prima che partissero i lavori per l’Alta velocità: hanno realizzato ambienti individuali per la notte e luoghi comuni per il giorno, inclusi due bar. O il 'parco polveriera' al Colle Oppio su cui da dieci anni gli ecuadoriani hanno istituito un loro campionato di calcio che è giunto a essere riconosciuto ». Microcosmi transeunti che dimostrano l’insopprimibile necessità di creare luoghi di identità come ambienti di vita, diventati anche strumento di comprensione. «Questi microcosmi ovunque presenti vanno ritrovati e rispettati - conclude Luciani - Non a caso sono sorti spontaneamente oltre 200 comitati per salvare i luoghi più diversi: una antica villa in Toscana sotto le mire della speculazione immobiliare o un prato in Veneto minacciato di diventare una cava. Non più solo quel che è considerato 'patrimonio monumentale', ma il luogo come sede dell’identità delle persone: questo oggi si vuole ritrovare. Come necessità umana, al di fuori delle rigidità istituzionali». Il caso Nel dopoguerra c’è stato in Italia uno spopolamento dei borghi, ma oggi siamo in controtendenza. Al via le Giornate di studio sul paesaggio. Gli esperti ricordano il bisogno di vivere in un ambiente condiviso
Domenico Luciani: «Un’aberrazione della modernità aver pensato di fare a meno dei piccoli paesi»
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